L’autoproclamato “poeta laureato del nonsense”: quattro poesie di Edward Lear

Introduzione e traduzione dall’inglese a cura di Sara Caretta e Alessandro Valenti

Per la rubrica #mortəcheparlano, vi presentiamo quattro poesie di Edward Lear (1812 – 1888), scelte, tradotte dall’inglese e introdotte da Sara Caretta e Alessandro Valenti.

Nell’approcciarsi alla poesia di Edward Lear (1812-1888), lettori adulti e bambini si trovano di fronte a creature che inesorabilmente attraversano il confine che separa il convenzionale dal bizzarro, e l’abituale dall’eccentrico. È in questa scentratura che acquista il suo senso il delizioso nonsense di Lear, il quale all’interno dei suoi schemi metrici rigidamente prevedibili inserisce la cifra dell’incongruo – e quindi della sorpresa, a cavallo fra comicità, incertezza e simpatia.

Queste figure eccentriche, infatti, non sono oggetto di satira o derisione, pur non acquistando alcuna dimensione di pathos: nella loro configurazione più essenziale, affrontano vicissitudini che mettono in scena il confronto con una dura realtà, la quale rivela infine la loro incompatibilità con il mondo circostante. Nella prima poesia qui selezionata, “Gli abiti nuovi”, l’incongruo nasce dall’incontro assurdo tra due dei bisogni primari dell’uomo: al posto dei soliti vestiti, il protagonista in questione sfoggia un outfit interamente commestibile, e si trova poi, una volta uscito in pubblico, ad affrontare le conseguenze della sua scelta.

La selezione include poi tre limerick, la forma poetica che Lear stesso ha contribuito a popolarizzare tra il pubblico di lettori vittoriani; in questi componimenti (di quattro o di cinque versi a seconda dello spazio disponibile in sede di stampa per le illustrazioni di Lear) si ripete un’identica esperienza di straniamento, seguita quindi dal confronto (e dal conflitto) con le leggi di una realtà condivisa da tutti, men che dall’eccentrico personaggio in questione. Nello scegliere alcuni tra i numerosissimi limerick composti da Lear, abbiamo voluto privilegiare tre location situate in Italia (rispettivamente Abruzzo, Lucca e Aosta); ciò a testimonianza degli anni trascorsi da Lear nella penisola, ritratta in molti dei suoi appunti e delle sue illustrazioni. Non ci sembra inverosimile suggerire che l’esperienza artisticamente poliedrica e geograficamente vagabonda di Lear possa trovare un suo corrispondente nella popolazione eccentrica che abita i suoi versi, composta da audaci fashion designer, donzelle dal cuore spezzato, e pastori sbadati.


The New Vestments

p. 245

There lived an old man in the Kingdom of Tess,
Who invented a purely original dress;
And when it was perfectly made and complete,
He opened the door, and walked into the street.
By way of a hat, he’d a loaf of Brown Bread,
In the middle of which he inserted his head;—
His Shirt was made up of no end of dead Mice,
The warmth of whose skins was quite fluffy and nice;—
His Drawers were of Rabbit-skins;— so were his Shoes;—
His Stockings were skins,— but it is not known whose;—
His Waistcoat and Trowsers were made of Pork Chops;—
His Buttons were Jujubes, and Chocolate Drops;—
His Coat was all Pancakes with Jam for a border,
And a girdle of Biscuits to keep it in order;
And he wore over all, as a screen from bad weather,
A Cloak of green Cabbage-leaves stitched all together.
He had walked a short way, when he heard a great noise,
Of all sorts of Beasticles, Birdlings, and Boys;—
And from every long street and dark lane in the town
Beasts, Birdles, and Boys in a tumult rushed down.
Two Cows and a half ate his Cabbage-leaf Cloak;—
Four Apes seized his Girdle, which vanished like smoke;—
Three Kids ate up half of his Pancaky coat,—
And the tails were devour’d by an ancient He Goat;—
An army of Dogs in a twinkling tore up his
Pork Waistcoat and Trowsers to give to their Puppies;—
And while they were growling, and mumbling the Chops,
Ten Boys prigged the Jujubes and Chocolate Drops.—
He tried to run back to his house, but in vain,
For Scores of fat Pigs came again and again;—
They rushed out of stables and hovels and doors,—
They tore off his stockings, his shoes, and his drawers;—
And now from the housetops with screechings descend,
Striped, spotted, white, black, and gray Cats without end,
They jumped on his shoulders and knocked off his hat,—
When Crows, Ducks, and Hens made a mincemeat of that;—
They speedily flew at his sleeves in a trice,
And utterly tore up his Shirt of dead Mice;—
They swallowed the last of his Shirt with a squall,—
Whereon he ran home with no clothes on at all.
And he said to himself as he bolted the door,
‘I will not wear a similar dress any more,
‘Any more, any more, any more, never more!’

Gli abiti nuovi

Viveva un vecchietto in un villaggio reale
Che s’inventò un vestito assai originale;
Quando fu pronto e calzante a pennello,
Aprì il suo portone e uscì dal cancello.
Come cappello aveva una pagnotta integrale,
In mezzo alla quale mise la sua testa ovale;
La camicia era fatta di topolini stecchiti,
Così morbida da lasciar tutti sbalorditi;
I mutandoni erano pelli di coniglio, così come gli stivali;
Anche le calze erano di pelle, ma forse non di animali;
Gilè e pantaloni eran di carne grigliata;
I bottoni giuggiole, e gocce di cioccolata;
Pancake e marmellata gli facevan da cappotto,
Il tutto sorretto da una pancera di biscotto;
Un mantello, infine, per ripararsi dal vento,
Di foglie di cavolo, cucite con talento.
Camminava da un po’, quando udì tremendi schiamazzi,
Di ogni sorta di bestie, uccellacci e ragazzi;
E arrivarono da ogni vicolo e strada della grande città
Bestie, uccellacci e ragazzi con gran rapidità.
Due mucche e mezzo gli brucarono il mantello;
Quattro scimmie scapparono con la pancera nel borsello;
Tre bimbi si sbafarono i pancake del suo cappotto,
E le briciole andarono a un caprone vecchiotto;
Dei cani in un lampo sbranarono pantaloni e gilè
Per portar braciole e costine ai loro bebè;
E mentre questi banchettavano con la carne grigliata,
Dieci ragazzi sgraffignavano giuggiole e cioccolata.
Provò a tornare a casa di corsa, ma fu tutto invano:
Orde di maiali lo inseguivano a tutto spiano;
Arrivavano a frotte da stalle, porcili e portoni,
Per strappargli calze, stivali, e persino i mutandoni;
Con acuti miagolii scendevano ora dai tetti
Gatti striati, maculati, bianchi, neri e grigetti,
Gli saltaron sulle spalle e gli gettaron via il cappello,
Tra corvi, anitre e galline ne rimase un sol brandello;
S’avvinghiarono poi alle maniche, come impazziti,
Fino a strappare la camicia di topi stecchiti;
Con gran gusto papparono anche l’ultimo topino,
Così corse a casa nudo, senza neanche un calzino.
Si ripromise allora, barricandosi laggiù,
“Con un tale vestito non ci esco mai più,
Mai più, mai più, mai più, mai più!”


Tre limerick

(p. 27, 29, 57)

There was an Old Man of th’ Abruzzi,
So blind that he couldn’t his foot see;
⁠When they said, “That’s your toe,” he replied, “Is it so?”
That doubtful Old Man of th’ Abruzzi.

C’era un vecchio signore degli Abruzzi,
Così miope ch’i piedi gli sembravan merluzzi;
Quando gli dissero, “Ma è il tuo ditone,” lui rispose, “Ma come?”
Quel dubbioso vecchio signore degli Abruzzi.


There was a Young Lady of Lucca,
Whose lovers completely forsook her;
⁠She ran up a tree, and said, “Fiddle-de-dee!”
Which embarrassed the people of Lucca.

C’era una giovane donna di Lucca,
Dagli amanti piantata, come una vecchia bacucca;
Su di un albero si arrampicò, e disse “Piripì! Piripò!”
Il che imbarazzò la gente di Lucca.


There was an Old Man of Aôsta,
Who possessed a large cow, but he lost her;
⁠But they said, “Don’t you see, she has rushed up a tree?
You invidious Old Man of Aôsta!”

C’era un vecchio signore di Aosta,
Che perse una mucca, ma non apposta;
Gli dissero, “Ma non la vedi? È su quell’albero, in piedi!
Vecchio bilioso signore di Aosta!”


Edizione di riferimento: E. LEAR, The Complete Nonsense of Edward Lear, a cura di H. Jackson, New York, Dover Publications Inc.

Sole di mezzanotte: Alejandra Pizarnik e la sua sete sacra.

Introduzione e traduzioni dallo spagnolo a cura di Roberta Truscia.

Estratti da Il ponte sognato, Diari vol. 1 (1954-1960)

Ne Il ponte sognato, primo volume dei suoi diari, Alejandra Pizarnik nomina la parola “equilibrio” solamente tre volte: il 7 luglio 1955,quando immagina facetamente gli elementi di un’opera tra i cui personaggi inserisce anche un vaso “senza base che mantiene l’equilibrio grazie a un ventilatore”; il 27 luglio dello stesso anno, quando Alejandra si domanda se non sarà l’equilibrio psichico della sua collega d’Università la causa della repulsione che prova nei suoi confronti. Infine il 3 gennaio 1959, quando, per la prima volta, associa la parola equilibrio a sé stessa, ma non come qualcosa che le appartenga e disprezzi, come nel caso della sua collega, bensì come il nuovo oggetto del suo desiderio. “C’è, tuttavia, un desiderio di equilibrio. Un desiderio di fare qualcosa con la mia solitudine.” Dalle prime due date all’ultima sono passati quattro anni e Alejandra è ora una ragazza di 22 anni che ha pubblicato tre raccolte poetiche, ha aspirato (e aspira) a scrivere un romanzo, ha abbandonato la carriera universitaria, ha intrapreso e sospeso la terapia psicoanalitica e l’anno successivo si trasferirà a Parigi, dove potrà finalmente “diventare quello che già è”: la più grande poetessa argentina del suo tempo. Tuttavia, la strada verso l’affermazione non è battuta, è piuttosto un sentiero che si snoda lungo la sua angoscia esistenziale, il desiderio ardente di scrivere, la solitudine sofferta, la notte. Lungo la sua strada non c’è spazio per la parola “equilibrio”, perché Pizarnik ha familiarità con le notti polari alla ricerca del sole di mezzanotte. Ricorre, invece, la parola “ponte”: Alejandra si strugge infatti per quel ponte invalicabile tra il desiderio e la parola, e l’immagine rimanda al suo essere sempre al confine tra la veglia e il delirio. In questo caso, non appare molto chiaro verso quale direzione lei scelga di attraversare il ponte, perché il delirio è solitudine e profondo malessere, mentre la veglia rappresenta la loro fine. La veglia significa conformarsi a una vita priva di poesia; il delirio, invece, ne è la base. Il ponte rappresenta anche la ricerca stessa della parola che incarna la poesia, l’infinito oltre ogni limite. Perché, se Alejandra conosce precocemente la sensazione di sradicamento dal mondo, precoce è anche la certezza che l’unico mondo degno di essere vissuto sia la Poesia, non mera sostituzione di quello esistente, ma una realtà a sé stante.

Non è l’equilibrio tra le parti quello che interessa Alejandra, ma l’attraversamento, un appagamento completo della sua “sete sacra”. Essa non è sacra solo perché nella sacralità della poesia ricerca il suo appagamento, ma perché rappresenta la fonte della sua vita, ciò che la scuote o la lascia immobile, perfino quando manca di un oggetto concreto.

I diari includono punte altissime di voli spirituali, passi caratterizzati da un’immaginaria e ingegnosa lucidità, le aspirazioni degne di ammirazione e le degradanti, rappresentando la trascrizione di quella sete sacra della quale percepiamo i due effetti complementari: il mysterium tremendum et fascinans. E noi lettori, dopo aver letto Il ponte sognato, avremo un po’ della stessa sete.


I testi qui pubblicati sono tratti da Il ponte sognato, Diari vol. 1 (1954-1960), pubblicato nel 2022 dalla casa editrice La Noce d’Oro.

23 de septiembre 1954

Un nuevo día llegó
pleno de sol y de sombras
un nuevo día llegó
a enquistarse en mi hondo caudal señero
el nuevo día es torneado
e insulso
día sin soplo ni dicha
es un sábado verde molido
en la nada
es un sábado deshecho en la vertiente del vacío.

23 settembre 1954

Un nuovo giorno è giunto
pieno di sole e d’ombre
un nuovo giorno è giunto
per arginare il mio profondo flusso solitario
il nuovo giorno è tornito
e insulso
giorno senza soffio né gioia
è un sabato verde tritato
nel nulla
è un sabato sciolto nel versante del vuoto.

5 de julio 1955

Heredé de mis antepasados las ansias de huir. Dicen que mi sangre es europea. Yo siento que cada glóbulo procede de un punto distinto. De cada nación, de cada provincia, de cada isla, golfo, accidente, archipiélago, oasis. De cada trozo de tierra o de mar han usurpado algo y así me formaron, condenándome a la eterna búsqueda de un lugar de origen. Con las manos tendidas y el pájaro herido balbuceante y sangriento. Con los labios expresamente dibujados para exhalar quejas. Con la frente estrujada por todas las dudas. Con el rostro anhelante y el pelo rodante. Con mi acoplado sin freno. Con la malicia instintiva de la prohibición. Con el hálito negro a fuer de tanto llanto. Heredé el paso vacilante con el objeto de no estatizarme nunca con firmeza en lugar alguno. ¡En todo y en nada! ¡En nada y en todo!

5 luglio 1955

Ho ereditato dai miei antenati l’ansia di fuggire. Dicono che il mio sangue sia europeo. Io sento che ogni globulo proviene da un punto diverso. Da ogni nazione, da ogni provincia, da ogni isola, golfo, collisione, arcipelago, oasi. Da ogni pezzo di terra o di mare hanno usurpato qualcosa e così mi hanno formato, condannandomi all’eterna ricerca di un luogo d’origine. Con le mani tese e l’uccello ferito balbuziente e sanguinante. Con le labbra espressamente disegnate per esalare lamenti. Con la fronte strizzata a causa di tutti i dubbi. Con il volto anelante e i capelli che rotolano. Con il mio rimorchio senza freno. Con la malizia istintiva della proibizione. Con l’alito nero a forza di tanto pianto. Ho ereditato il passo esitante così da non stabilirmi mai in nessun posto. In tutto e in niente! In niente e in tutto!

1 de agosto 1955

Luz de la mañana embebida en los ruidos cotidianos. Los ojos vueltos del sueño perciben asustados aún la Realidad que los sacude. Siento mi despertar como una adhesión de una hoja a «su» árbol, como mi volver a pegarme a la rama que me agitará arbitrariamente. Silencio de hoja matutina sin voz para sollozar la infamia de su inepcia. Silencio de tensión erguida en la sien del árbol. La hoja se agrieta al desmenuzar los días. El sueño lejano resuelve su espera en un rincón inhallable. Mis ojos que se agrandan confiados en el reconocimiento de los objetos cotidianos.

Despierto cansada y fría. La toma de posesión de una «libertad» exterior tan duramente lograda es triste. Pienso en mi vida condensada en un eterno intento de escudriñar mi yo. Libros y más libros. Hay momentos en que desaparece la esencia del libro, quedando solamente su ridículo cuerpecillo. Me veo entonces acariciando nebulosas hojas de papel y me pregunto si valen lo que una mirada humana. Me retuerzo en el interrogante axiológico. Pero ¡no necesito respuesta! Continúo leyendo; paulatinamente, desaparece el físico del libro. Me convierto en el receptáculo de su alma. (¡Oh, amo los libros!) Cada minuto que transita señala mi elevación.

1 agosto 1955

Luce mattutina impregnata nei rumori quotidiani. Gli occhi, gonfi dal sonno, temono ancora la Realtà che li scuote. Percepisco il mio risveglio come l’adesione di una foglia al “proprio” albero, come se stessi di nuovo aderendo al ramo che mi agiterà arbitrariamente. Silenzio di foglia mattutina a cui manca la voce per piangere l’infamia della propria inerzia. Silenzio di tensione eretta sulla tempia dell’albero. La foglia si incrina sminuzzando i giorni. Il sogno lontano risolve la sua attesa in un angolo introvabile. I miei occhi si ingrandiscono fiduciosi quando riconoscono gli oggetti quotidiani.

Mi sveglio stanca e fredda. Prendere possesso di una “libertà” esteriore, così duramente conquistata, è triste. Penso alla mia vita condensata in un eterno tentativo di esaminare il mio io. Libri e ancora libri. Ci sono momenti in cui l’essenza del libro scompare e rimane solo il suo ridicolo corpicino. Ecco che, a quel punto, accarezzo confusi fogli di carta e mi chiedo se valgono quanto uno sguardo umano. Mi contorco nel quesito assiologico. Ma non ho bisogno di risposte! Continuo a leggere; l’oggetto sparisce gradualmente. Mi trasformo nel contenitore della sua anima (Oh, amo i libri!) Ogni minuto che passa segna la mia elevazione.

Febrero 1956

VERANO

tanto miedo Alejandra
tanto miedo
la nada te espera
la nada
¿por qué temer?
¿por qué?

por más imaginación que tenga
no puedo esbozar la muerte
no puedo pensarme muerta
¿he de tener esperanzas?
¿he de ser eterna?
¿qué es entonces este vacío que me recorre?
¿qué es entonces la nada que camina por mi ser?
Sólo sé que no puedo más

siento envidia del lector aún no nacido
que leerá mis poemas
yo ya no estaré

Febbraio 1956

ESTATE

tanta paura Alejandra
tanta paura
il nulla ti attende
il nulla
perché temere?
perché?

pur avendo immaginazione
non riesco ad abbozzare la morte
non riesco a pensarmi morta
devo avere speranza?
devo essere eterna?
cos’è allora questo vuoto che mi percorre?
cos’è allora il niente che cammina nel mio essere?
So solo che non ne posso più

sento invidia del lettore non ancora nato
che leggerà le mie poesie
e io non ci sarò

14 de noviembre 1957

Un loco desflora a una flor. La flor da a luz una muchacha y luego muere. La muchacha queda herida por una carencia innombrable que aumenta hasta la locura cuando se enamora del león más inteligente de la selva. (El león es una especie de Sr. Nadie disfrazado de Todo… o viceversa.)

Vagidos, llanto. Y un estar siempre al borde de, pero nunca en el centro.

Anhelos de lo anhelado, de lo jamás anhelado.
Hermana estrella: soy Alejandra. Buenas noches.

Un pájaro sale a buscar la inocencia y vuelve muerto debajo de sus alas. Campanas en los bolsillos de la noche.

14 novembre 1957

Un pazzo deflora un fiore. Il fiore dà alla luce una ragazza e poi muore. La ragazza rimane ferita da una mancanza innominabile che aumenta fino alla follia quando si innamora del leone più intelligente della selva. (Il leone è una specie di sig. Nessuno mascherato da Tutto… o viceversa).

Vagiti, pianti. E un essere sempre sull’orlo di, mai al centro.

Desideri di ciò che è desiderato, di ciò che mai fu desiderato. Stella sorella: sono Alejandra. Buonanotte.

Un uccello esce a cercare l’innocenza e torna morto sotto le sue ali. Campane nelle tasche della notte.

Copertina de Il ponte sognato di Alejandra Pizarnik
Alejandra Pizarnik, Il ponte sognato, Diari Vol. 1 (1954-1960), traduzione Roberta Truscia (2022, La Noce d’Oro)

La prigione del significato: quattro poesie di Molly Brodak

Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Marta Olivi.

L’esordio poetico nel 2010, a trent’anni, e una seconda collezione nel 2020, l’anno della sua prematura scomparsa. Nel frattempo, chapbooks di poesia, insegnamento universitario, e tutta la vita raccontata nel memoir del 2016, Bandit, in cui Molly Brodak sceglie di raccontare il rapporto con il padre, un rapinatore di banche più volte arrestato. Ma è un escamotage per parlare di sé, per delineare in controluce un’identità che non sarebbe stata altrettanto osservabile direttamente. Un io narrante che fatica a narrarsi, un sé fortissimo ma liquido, mutevole, perché basato sull’assunto che un io obiettivo non esista. Specie per chi scrive.

Molly Brodak inizia il suo memoir con due pagine in cui racconta i fatti della vita di Joe Brodak: la dipendenza dal gioco, i debiti, le rapine, gli arresti. In due pagine, la realtà viene liquidata. Tutto quello che viene dopo, ci avverte, è narrazione: comprese le vite dipanatesi attorno a questa figura, e i traumi che hanno subìto a causa sua. Come Brodak ammette, la scelta del memoir, della nonfiction, punta a distaccarsi dalla facilità della fiction, dai suoi “rounded, finite arcs, tidy rise and fall, buttressing values, their little lessons, like solved equations”, ma allo stesso tempo non prova a perseguire un’esattezza fattuale che, semplicemente, non esiste. La soluzione, dunque, una realtà vera perché dichiaratamente soggettiva, è ciò che Brodak trova da adolescente nella forma poetica, quella che non abbandonerà mai più e che “it seemed to know a better way to the world – an approach more honest, more direct, sharper”.

Eppure, se sembra impossibile raccontare una vita in modo “onesto e diretto”, specie il dolore che la caratterizza, è proprio sul trauma che si incentra la ricerca letteraria di Brodak. Forse proprio in nome della sua capacità di influenzare la percezione di sé e degli altri. Nel 2010, nell’esordio A little middle of the night, Brodak parte dal trauma fisico di un corpo malato, descrivendo la sua esperienza di ricovero in ospedale a seguito di un’operazione al cervello. Poesie in cui la realtà si mescola alle visioni indotte dalla malattia e dai farmaci, in cui l’esperienza del coma traccia una linea netta tra la propria percezione e quella altrui, con la poesia come unico mezzo per cercare di comunicare tra prospettive inconciliabili.

Ma la risposta, o perlomeno un tentativo, arriverà solo in The Cipher, nel 2020, in cui si affronta compiutamente il trauma della fuga dall’Olocausto che hanno affrontato entrambi i suoi genitori, la madre dalla Russia e il padre dalla Polonia. Un trauma generazionale che diventa proprio; la perdita del nonno, morto a Dachau, che diventa la perdita della figura paterna; una coazione a ripetere che perpetua il trauma dell’assenza. Il dolore ci pone in un limbo tra passato inalienabile e futuro inconoscibile, descritto come “the awful future: half magnetic, half chiaroscuro”, che ci tira a sé pur nascondendosi da noi. Intrappolati tra il passato che il destino ci ha dato e ciò che con la nostra volontà decidiamo di farci, diventa impossibile stabilire veri nessi causali, capire chi siamo e cosa ci ha reso tali. Ed è di nuovo la poesia ad essere proposta come unico modo per arrivare alla realtà del proprio io. Se ogni scrittura è metafora di una realtà inconoscibile, “one x that did not equal x”, come viene detto nella poesia che apre The Cipher, allora la poesia è il mezzo che più di ogni altro sa seguire esattamente il processo non lineare che caratterizza la coscienza:

I listened to some invisible bird

rattling off the facts of consciousness.
He used that exact word,
cipher.

La poesia diventa così l’unico modo per affrontare una realtà che sembra una prigione, in cui l’unica reazione sensata è “Panic, because suddenly everything signifies”, ma in cui l’accesso al vero senso sembra sempre interdetto, sempre un passo più in là rispetto a noi.

In the cipher, where
we live, there is only personality.
What is outside of the cipher, where we’re headed?

Due scelte, di fronte a questa impossibilità conoscitiva. Perpetuare l’illusione del simbolo grazie al mezzo poetico. O abbandonare il gioco, dirigersi “outside the cipher”, fuori dalla prigione della propria personalità, verso quella morte che viene così spesso accennata in The CipherPosare la penna, scegliere la pace dell’assenza definitiva di ogni significato.


Da the cipher (2020)

Bells

Nothing special, a home,

a plot of empty space,

with a calendar on the wall. Each day ahead
is lake black. Bells, still.

God popped like a balloon
when I looked directly.

Songs just clank the fetters.
I remember ergo sum.

I never needed to dig graves.
Everyone, a terminal,

a terminal of photons,
irritating rackets,
generosity, gently extinguishing
fire,
which is nothing special.

All of them.
The people ran for the boats.

I stayed to ring the bell. I’ve forgotten
their faces but I remember their white aprons with eyelets,
leather hoods with spark burns, small shoes, the sound of them
all typing at once, their little worn dice, worn to beads.
Blue and pink charms, cassocks, gold chains they shared.
They dragged mom’s body and dad’s body as far as they could on the beach.
They scattered into a shoreless sea.
And you want to be happy.

Campane

Una casa, niente di speciale,

un terreno, uno spazio vuoto,

con un calendario sul muro. Ogni giorno a venire
è nero come un lago. Eppure, le campane.

Dio è scoppiato come un palloncino
non appena l’ho guardato.

Le canzoni scuotono le catene, nient’altro.
Mi ricordo ergo sum.

Non ho mai avuto bisogno di scavare tombe.
Ogni persona, un capolinea,

un capolinea di fotoni,
un baccano fastidioso,
generosità, un fuoco che si spegne
piano,
niente di speciale.

Tutti loro.
La gente corre verso le barche.

Io sono rimasta per suonare la campana. Ho dimenticato
le loro facce ma ricordo i loro grembiuli bianchi orlati di pizzo,
cappucci di pelle bruciacchiati, scarpe piccole, il suono
di tutti loro che scrivono a macchina contemporaneamente,
i loro piccoli dadi consumati, tanto da sembrare perline.
Ciondoli rosa e blu, abiti talari, catene d’oro condivise.
Hanno trascinato i corpi di mamma e di papà sulla spiaggia più lontano che potevano.
Sparsi in un mare senza riva.
E tu vorresti essere felice.

bee in jar

You cannot help knowing, said Tolstoy.
The world is a distance to go.
Remember, once you were good for nothing
and you didn’t know it.

Cedar branches live a little while on the fire.
Some young swallows
cover some sea then
turn back on their first migration.

Only matter can
be transformed.
Transformed into matter.
Things that are not matter
cannot be transformed.

The key is cut by the lock.
You will code then decode your mind.
You will save yourself.
You cannot help it.

l’ape nel barattolo

Non si può fare a meno di sapere, diceva Tolstoj.
Il mondo è una distanza da percorrere.
Ricordati, una volta eri un buono a nulla
e non lo sapevi.

I rami di cedro vivono ancora per un po’ mentre bruciano.
Alcune giovani rondini
percorrono un po’ di mare poi
tornano indietro durante la loro prima migrazione.

Solo la materia può
essere trasformata.
Trasformata in materia.
Le cose che non sono materia

non possono essere trasformate.

La chiave assume la forma del lucchetto.Programmerai e decifrerai la tua mente.
Ti salverai.
Non puoi farne a meno.

in the morning, before anything bad happens

The sky is open
all the way.

Workers upright on the line
like spokes.

I know there is a river somewhere,
lit, fragrant, golden mist, all that,

whose irrepressible birds
can’t believe their luck this morning
and every morning.

I let them riot
in my mind a few minutes more
before the news comes.

di mattina, prima che accada qualcosa di brutto

Il cielo è aperto
da parte a parte.

Operai dritti sulla linea
come raggi.

So che da qualche parte c’è un fiume,
illuminato, fragrante, nebbia dorata, tutto quanto,

con i suoi uccelli irrefrenabili
che stamattina non riescono a credere ai loro occhi
come ogni mattina.

Li lascio sfogarsi
nella mia mente qualche minuto ancora
prima che la notizia arrivi.

come and see

The far away
asphalt lot
covered over in fog
& lit raw gold by
one lamppost
against night.
The terminal
helplessness
of one creature
without its others.

I saw the owl’s wings
but no owl.
The slow-mo mushrooms.
I taught my hands to work
to keep them away
from each other. Rasp,
awl, the block plane, the spirit
level. The needle
one holds, which sharpens
which? Still, I was separate.
Still they
were where
the song came from.

The light from our closest star
is not starlight, it being
just one.
I saw Michigan, sunk home, from space
in a moment, and I hadn’t cried
until just then, in the dark
kitchen, no hands
to close over my face.

vieni a vedere

Il parcheggio d’asfalto
così lontano
ricoperto di nebbia
e illuminato d’oro crudo da
un lampione
contro la notte.
La fragilità
terminale
di una creatura
senza i suoi altri.

Ho visto le ali del gufo
ma nessun gufo.
I funghi al rallentatore.
Ho insegnato alle mie mani a lavorare
per tenerle staccate
l’una dall’altra. Lima,
punteruolo, pialla, la livella
in bolla. L’ago
che si tiene in mano, che affila
cosa? Eppure, ero separata.
Eppure era
da lì che
veniva la canzone.

La luce dalla stella più vicina a noinon è luce di stelle, perché è
soltanto una.
Ho visto il Michigan, sono sprofondata a casa, dallo spazio,
in un istante, e non avevo pianto
fino a quel momento, nella cucina
buia, senza mani
in cui nascondere il volto.

Molly Brodak, The Cipher (2020, Pleiades Press)

“Noi siamo coloro che stiamo aspettando”: quattro poesie di June Jordan

Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Lucrezia Bivona.

Nata a Harlem nel 1936 e cresciuta a Bedford-Stuyvesant, quartiere di Brooklyn, June Jordan è stata una voce essenziale della poesia americana del secondo Novecento. Autrice estremamente prolifica, si è cimentata nei generi più disparati, dalla poesia al romanzo, dal teatro alla letteratura per bambini, sempre portando avanti un impegno politico importante e resistente in tutti gli ambienti che si è trovata a frequentare, tra cui quello universitario e dell’istruzione. Ha sempre insegnato con la convinzione di educare al cambiamento sociale, lavorando a fianco di scrittrici dai simili intenti e presupposti come Adrienne Rich, Toni Cade Bambara e Audre Lorde, e credendo fermamente insieme a loro nel potere trasformativo della scrittura in versi

Cresciuta in una famiglia di origini giamaicane, il complesso rapporto con il padre e con le aspettative imposte dall’interno segna profondamente la sua vita e la sua scrittura. La sua è una poesia che trae dall’inglese colloquiale e vernacolare la propria forza comunicativa, per trattare argomenti come la famiglia, la sessualità, il corpo, l’autodeterminazione, l’oppressione razziale e politica. Il linguaggio di Jordan è lirico e personale, diretto e fortemente autobiografico. Una poesia scritta apertamente per le persone che la leggono.

Galleria di foto di June Jordan

da Some Changes (1971)

My sadness sits around me

My sadness sits around me
    not on haunches not in any
    placement near a move
and the tired roll-on
of a boredom without grief

If there were war
I would watch the hunting
I would chase the dogs
and blow the horn
because blood is commonplace

As I walk in peace  
    unencountered unmolested    
    unimpinging unbelieving unrevealing    
    undesired under every O
My sadness sits around me

Mi siede attorno la mia tristezza

Mi siede attorno la mia tristezza
    non sulle cosce non in nessuna
    posizione che implichi un movimento
e l’oscillare stanco
di una noia senza dolore

Se ci fosse una guerra
baderei alla caccia
inseguirei i cani
e suonerei il corno
perché il sangue è una cosa banale

Mentre cammino tranquilla
    senza incontri senza intralci
    senza lesioni senza credo senza epifanie
    indesiderata in qualsiasi Oh
Mi siede attorno la mia tristezza

da living room (1985)

Notes towards Home

My born on 99th Street uncle when he went to Canada
used to wash and polish the car long before coffee
every morning outside his room in the motel
“Because,” he said, “that way they thought I lived
around there; you ever hear of a perfectly clean car
traveling all the way from Brooklyn to Quebec?”

My mother left the barefoot roads of St. Mary’s
in Jamaica for the States where she wore
stockings even in a heat wave and repeatedly
advised me never to wear tacky underwear
“That way,” she said, “if you have an accident
when they take you to a hospital they’ll know you
come from a home.”

After singing God Bless America Kate Smith
bellowed the willies out of Bless This House O
Lord We Pray/Make It Safe By Night and Day
but my cousin meant Lord keep June
and her Boris Karloff imitations out of the hall
and my mother meant Lord keep my husband out
of my way and I remember I used to mean Lord
just pretty please get me out of here!

But everybody needs a home
so at least you have someplace to leave
which is where most other folks will say
you must be coming from

Appunti su casa mia

Mio zio nato sulla novantanovesima quando andava in Canada
lavava e lucidava la macchina molto prima di prendere il caffè
ogni mattina fuori dalla sua stanza del motel
“Perché”, diceva, “così pensavano che vivessi
in zona; hai mai sentito di una macchina perfettamente pulita
dopo un viaggio da Brooklyn fino al Quebec?”

Mia madre aveva lasciato le strade scalze di St. Mary
in Giamaica per gli Stati Uniti dove portava
le calze anche durante le ondate di calore di continuo
mi ricordava di non portare mai biancheria intima kitsch
“Così”, diceva, “se fai un incidente
quando ti portano all’ospedale sapranno
che hai una casa.”

Dopo aver cantato Dio benedica l’America Kate Smith
ci faceva venire i brividi con Benedici Questa Casa
Signore Preghiamo/Rendila Sicura di Notte e di Giorno
ma mia cugina intendeva Signore tieni June
e le sue imitazioni di Boris Karloff lontano da qui
e mia madre intendeva Signore tieni mio marito lontano
da me e io ricordo che intendevo Signore
soltanto ti prego per favore fammi andare lontano da qui!

Ma a tutti serve una casa
così almeno hai un posto da lasciare
e la maggior parte della gente dirà
che è il posto da dove vieni

da Haruko/Love Poems (1994)

Poem about Heartbreak That Go On and On

bad love last like a big
ugly lizard crawl around the house
forever
never die
and never change itself

into a butterfly

Poesia sui cuori spezzati che non si riparano mai

l’amore cattivo dura quanto una grossa
brutta lucertola che striscia sotto la casa
per sempre
senza mai morire
e senza mai trasformarsi

in una farfalla

da passion (1980)

Poem About My Rights

Even tonight and I need to take a walk and clear
my head about this poem about why I can’t
go out without changing my clothes my shoes
my body posture my gender identity my age
my status as a woman alone in the evening/
alone on the streets/alone not being the point/
the point being that I can’t do what I want
to do with my own body because I am the wrong
sex the wrong age the wrong skin and
suppose it was not here in the city but down on the beach/
or far into the woods and I wanted to go
there by myself thinking about God/or thinking
about children or thinking about the world/all of it
disclosed by the stars and the silence:
I could not go and I could not think and I could not
stay there
alone
as I need to be
alone because I can’t do what I want to do with my own
body and
who in the hell set things up
like this
and in France they say if the guy penetrates
but does not ejaculate then he did not rape me
and if after stabbing him if after screams if
after begging the bastard and if even after smashing
a hammer to his head if even after that if he
and his buddies fuck me after that
then I consented and there was
no rape because finally you understand finally
they fucked me over because I was wrong I was
wrong again to be me being me where I was/wrong
to be who I am
which is exactly like South Africa
penetrating into Namibia penetrating into
Angola and does that mean I mean how do you know if
Pretoria ejaculates what will the evidence look like the
proof of the monster jackboot ejaculation on Blackland
and if
after Namibia and if after Angola and if after Zimbabwe
and if after all of my kinsmen and women resist even to
self-immolation of the villages and if after that
we lose nevertheless what will the big boys say will they
claim my consent:
Do You Follow Me: We are the wrong people of
the wrong skin on the wrong continent and what
in the hell is everybody being reasonable about
and according to the Times this week
back in 1966 the C.I.A. decided that they had this problem
and the problem was a man named Nkrumah so they
killed him and before that it was Patrice Lumumba
and before that it was my father on the campus
of my Ivy League school and my father afraid
to walk into the cafeteria because he said he
was wrong the wrong age the wrong skin the wrong
gender identity and he was paying my tuition and
before that
it was my father saying I was wrong saying that
I should have been a boy because he wanted one/a
boy and that I should have been lighter skinned and
that I should have had straighter hair and that
I should not be so boy crazy but instead I should
just be one/a boy and before that
it was my mother pleading plastic surgery for
my nose and braces for my teeth and telling me
to let the books loose to let them loose in other
words
I am very familiar with the problems of the C.I.A.
and the problems of South Africa and the problems
of Exxon Corporation and the problems of white
America in general and the problems of the teachers
and the preachers and the F.B.I. and the social
workers and my particular Mom and Dad/I am very
familiar with the problems because the problems
turn out to be
me
I am the history of rape
I am the history of the rejection of who I am
I am the history of the terrorized incarceration of
myself
I am the history of battery assault and limitless
armies against whatever I want to do with my mind
and my body and my soul and
whether it’s about walking out at night
or whether it’s about the love that I feel or
whether it’s about the sanctity of my vagina or
the sanctity of my national boundaries
or the sanctity of my leaders or the sanctity
of each and every desire
that I know from my personal and idiosyncratic
and indisputably single and singular heart
I have been raped
be-
cause I have been wrong the wrong sex the wrong age
the wrong skin the wrong nose the wrong hair the
wrong need the wrong dream the wrong geographic
the wrong sartorial I
I have been the meaning of rape
I have been the problem everyone seeks to
eliminate by forced
penetration with or without the evidence of slime and/
but let this be unmistakable this poem
is not consent I do not consent
to my mother to my father to the teachers to
the F.B.I. to South Africa to Bedford-Stuy
to Park Avenue to American Airlines to the hardon
idlers on the corners to the sneaky creeps in
cars
I am not wrong: Wrong is not my name
My name is my own my own my own
and I can’t tell you who the hell set things up like this
but I can tell you that from now on my resistance
my simple and daily and nightly self-determination
may very well cost you your life

Poesia sui miei diritti

Anche stanotte ho bisogno di fare una passeggiata per schiarirmi
le idee su questi versi sul perché non posso
uscire senza cambiare i vestiti le scarpe
la mia postura la mia identità di genere la mia età
il mio status in quanto donna sola di sera/
sola per strada/sola non è questo il punto/
il punto è che non posso fare ciò che voglio
fare con il mio stesso corpo perché sono del
sesso sbagliato dell’età sbagliata di pelle sbagliata e
metti che non fossi qui in città ma giù in spiaggia/
o nel folto della foresta e che volessi andarci
da sola mentre penso a Dio/o mentre penso
ai bambini o mentre penso al mondo/tutto questo
rivelato dalle stelle e dal silenzio:
non potrei andare e non potrei pensare e non potrei
stare lì
da sola
come avrei bisogno
da sola perché non posso fare quello che voglio con il mio
corpo e
chi cazzo ha deciso che doveva essere
così
e in Francia dicono che se l’uomo penetra
ma non eiacula allora non mi ha stuprata
e se dopo averlo colpito se dopo le grida se
dopo aver implorato il bastardo e se perfino dopo avergli spaccato
un martello in testa se anche dopo tutto questo se lui
e i suoi amici mi scopano dopo tutto questo
allora ero consenziente e non c’è stato
nessuno stupro perché alla fine capisci alla fine
mi hanno scopata perché avevo torto avevo
torto di nuovo a essere me essendo me lì dove avevo/torto
nell’essere chi sono
che è esattamente come il Sudafrica
che penetra in Namibia penetrando in
Angola e questo significa voglio dire come fai a dire se
Pretoria eiacula come lo dimostri qual è la
prova che il mostro totalitarista ha eiaculato sulla Blackland
e se
dopo la Namibia e se dopo l’Angola e se dopo lo Zimbabwe
e se dopo tutti i miei consanguinei e le donne resistono perfino
all’autosacrificio dei villaggi e se dopo questo
comunque perdiamo cosa diranno i bestioni rivendicheranno o no
il mio consenso
Mi Segui: Noi siamo il popolo sbagliato dalla
pelle sbagliata sul continente sbagliato e cosa cazzo
fanno i ragionevoli tutti quanti
e secondo il Times questa settimana
già nel 1966 la C.I.A. aveva deciso che avevano questo problema
e il problema era un uomo di nome Nkrumah e quindi
lo uccisero e prima di lui era Patrice Lumumba
e prima ancora era mio padre nel campus
della mia università dell’Ivy League e mio padre con la paura
di entrare nella caffetteria perché diceva di essere
sbagliato l’età sbagliata la pelle sbagliata l’identità
di genere sbagliata e mi pagava la retta e
prima di questo
era mio padre a dire che sbagliavo a dire che
sarei dovuta essere un maschio perché lui lo desiderava/un
maschio e che sarei dovuta essere di pelle più chiara e
che avrei dovuto avere capelli più lisci e che
non sarei dovuta andare dietro ai maschi ma piuttosto sarei
dovuta essere uno di loro/un maschio e prima di questo
era mia madre a suggerire la chirurgia plastica per
il mio naso e l’apparecchio per i miei denti e a dirmi
di lasciar perdere un po’ i libri di lasciarli perdere in altre
parole
conosco molto bene i problemi della C.I.A.
e i problemi del Sudafrica e i problemi
della Exxon Corporation e i problemi dell’America
bianca in generale e i problemi degli insegnanti
e dei sacerdoti e dell’F.B.I. e degli assistenti
sociali e dei miei specifici Mamma e Papà/conosco molto
bene i problemi perché i problemi
si rivelano essere
me
io sono la storia dello stupro
io sono la storia del rifiuto di chi sono
io sono la storia dell’incarcerazione terrorizzata di
me stessa
io sono la storia di percosse e violenza e eserciti
senza confini contro tutto ciò che voglio fare con la mia mente
e il mio corpo e la mia anima e
che sia passeggiare per la strada di notte
o l’amore che provo o
la santità della mia vagina o
la santità dei miei confini nazionali
o la santità dei miei leader o la santità
di ogni singolo desiderio
che viene dal mio intimo e idiosincratico
e indiscutibilmente unico e singolare cuore
sono stata stuprata
per-
ché ero sbagliata il sesso sbagliato l’età sbagliata
la pelle sbagliata il naso sbagliato i capelli sbagliati il
bisogno sbagliato il sogno sbagliato la geografia sbagliata
lo stile sbagliato io
io sono stata il significato dello stupro
io sono stata il problema che tutti cercano di
eliminare tramite penetrazione
forzata con o senza la prova dello sperma e/
ma che sia ben chiaro questa poesia
non è consenso io non acconsento
a mia madre a mio padre agli insegnanti al
F.B.I. al Sudafrica a Bedford-Stuy
a Park Avenue all’American Airlines ai fannulloni
arrapati agli angoli di strada ai pervertiti appostati nelle
loro macchine
Io non ho sbagliato: Sbagliata non è il mio nome
Il mio nome è mio soltanto mio mio
e non so dirti chi cazzo ha deciso che doveva essere così
ma posso dirti che d’ora in poi la mia resistenza
la mia semplice autodeterminazione ogni giorno e ogni notte
potrebbe benissimo costarti la vita

Copertina di Directed by Desire di June Jordan
Directed by Desire: The Collected Poems of June Jordan (Port Townsend, WA: Copper Canyon Press, 2005)

L’identità sconfinata di Rose Ausländer

Introduzione e traduzioni dal tedesco a cura di Claudia Cerulo, Barbara Nicoletti e Marta Olivi. Illustrazioni di Veronika Salandin.

“Zingara ebrea di lingua tedesca”, così si definisce Rose Ausländer (Černivci, 11 maggio 1901 – Düsseldorf, 3 gennaio 1988) nel suo autoritratto poetico, Selbstporträt. La poetessa rivendica qui un’identità ibrida e vagabonda, segnata dalle costanti peregrinazioni che nel corso della vita l’hanno spinta oltre i confini della nativa Bukovina – allora provincia dell’Impero austro-ungarico – agli Stati Uniti, per poi ritornare in Europa, tra Bucarest, Venezia e Parigi. Ausländer (“straniera”, come segnalato dalla scelta del cognome assunto nel 1923 e mai abbandonato) è stata un’intellettuale cosmopolita, la cui ricca produzione poetica è, per stessa ammissione dell’autrice, difficile da categorizzare: “Meine bevorzugten Themen? Alles – das Eine und das Einzelne. Kosmisches, Zeitkritik, Landschaften, Sachen, Menschen, Stimmungen, Sprache – alles kann Motiv sein” (I miei temi preferiti? Tutto, l’uno e il singolare. Il cosmico, la critica attuale, i paesaggi, le cose, gli uomini, le voci, la lingua – tutto può essere un motivo).

Nonostante la ricchezza nella produzione e nei temi affrontati, una serie di motivi ritornano in maniera mutevole ma costante: il viaggio, l’esilio, l’identità ebrea, l’antisemitismo, ma soprattutto la fiducia nel potere del linguaggio, l’espressione poetica come strategia per sopravvivere, la creazione artistica come autodeterminazione. Un linguaggio apparentemente semplice, incastonato in una versificazione breve e incisiva, ma che cela un simbolismo densissimo, che va dai riferimenti biblici (il roveto ardente, il vino dell’Eucaristia), fino a quelli legati alla travagliata storia mitteleuropea, come la Notte dei cristalli e l’indelebile trauma delle camere a gas.

Nella scelta delle poesie che presentiamo in traduzione, si è cercato di ripercorrere il motivo cardine della poetica di Ausländer: l’esperienza di viaggio che definisce l’identità priva di confini dell’autrice, dai paesaggi accoglienti del sud dell’Europa, fino alla drammatica esperienza dell’esilio per sfuggire alle atrocità della Shoah, per chiudere infine con un inno alla libertà e all’autodeterminazione: “vergiss deine Grenzen”. “Dimentica i tuoi confini”, ci dice Ausländer: quegli stessi confini che l’autrice ha attraversato senza sosta per tutta la vita, e che diventano marca di identità proprio nel momento in cui svaniscono e diventano linee fantasmatiche, configurando un Io poetico che si presenta, letteralmente, sconfinato.

Rose Auslander

Da Gedichte (S. Fischer Verlag, 2012)

Im Süden

Mit den Zugvögeln
Nach Süden ziehn

Wo die Sonne
Uns liebt

Wo Palmen
Ihre Fächer öffnen

Wo die Flüsse
Silber sind

Wo wir aufgenommen werden
Freundschaftlich

A sud

Con gli uccelli migratori
migrare verso sud

Dove il sole
ci ama

Dove le palme
aprono i loro ventagli

Dove i fiumi
sono d’argento

Dove ci accolgono
da amici

Verwundert

Wenn der Tisch nach Brot duftet
Erdbeeren der Wein Kristall

Denk an den Raum aus Rauch
Rauch ohne Gestalt

Noch nicht abgestreift
Das Ghettokleid

Sitzen wir um den duftenden Tisch
Verwundert
Daß wir hier sitzen

Stupiti

Quando la tavola profuma di pane
Fragole vino cristalli

Pensa alla camera del fumo
Fumo senza forma

Non ancora sfilato
il vestito del ghetto

Stiamo seduti alla tavola che profuma
Stupiti
di essere seduti qui

Unendlich

Vergiß
Deine Grenzen

Wandre aus

Das Niemandsland
Unendlich
Nimmt dich auf

Sconfinata

Dimentica
i tuoi confini

Emigra

La terra di nessuno
sconfinata
ti accoglie

Selbstporträt

Jüdische Zigeunerin
Deutschsprachig
Unter schwarzgelber Fahne
Erzogen

Grenzen schoben mich
Zu Lateinern Slaven
Amerikanern Germanen

Europa
In deinem Schoß
Träume ich
Meine nächste Geburt

Autoritratto

Zingara ebrea
di lingua tedesca
cresciuta
sotto la bandiera gialla e nera

I confini mi hanno spinta
verso latini slavi
americani germani

Europa
nel tuo grembo
io sogno
la mia prossima nascita

Bruder im Exil

Bruder im Exil
In Zeitungen gekleidet
Gehst du der Sonne aus dem Weg
Dein Koffer steht vor der Tür
Von Raben bewacht

Der Baum bittet um Einlaß
In dein Vertrauen
Aber du reitest ins Regenreich
Wo der Dornbusch erlosch
Kein Vogel ein Nest baut

Sonntag irlandgrün
Im Nebel hängt eine Kirsche
Blühende Fenster winken
Du wendest dich ab
Wanderst von Land zu Land
Um die blaue Lampe zu finden
Obwohl du weißt
Daß der Athlet sie zertreten hat und die
Scherben zerstreut liegen in Europa

Trägst den Abend zum Strand
Sterne halten den Himmel im Gleichgewicht
Daß er nicht stürze auf dich wie Amerika
Das Wasser brüderlich fremd
Schwemmt weg die Trümmer deines Traums
Das Wasser dein
Bruder im Exil

Fratello in esilio

Fratello in esilio
vestito di giornali
te ne stai lontano dal sole
La tua valigia sta davanti alla porta
sorvegliata dai corvi

L’albero chiede di entrare
nella tua fiducia
Ma tu cavalchi nel regno della pioggia
dove il roveto ardente si è spento
e nessun uccello ci fa il nido

Domenica verde irlandese
Nella nebbia sta appesa una ciliegia
Finestre in fiore ti salutano
Ti volti e ti allontani
Vaghi di terra in terra
per trovare la lanterna blu
Anche se sai
che l’atleta l’ha distrutta e che i
frantumi sono andati sparsi in Europa

Porti la sera in spiaggia
Le stelle tengono il cielo in equilibrio
cosicché non ti cada addosso come l’America
L’acqua fraternamente estranea
lava via i detriti del tuo sogno
L’acqua tuo
fratello in esilio

Cinque poesie di Renée Vivien

Introduzione e traduzioni dal francese a cura di Chiara Gagliano.

[Disclaimer: Con questa prima uscita sulla poeta francese Renée Vivien, l’Almanacco Internazionale inaugura “Mortә che parlano”, una nuova rubrica dedicata alla riscoperta di scritture poetiche sommerse, verso il recupero di voci straniere del passato doppiamente dimenticate, dalla traduzione italiana e dal canone].


Pauline Mary Tarn nasce a Londra nel 1877 e rinasce Renée Vivien (of the Lake) in rue Bois de Boulogne a Parigi, dove morirà nel 1909, dopo aver ricercato più volte “l’istante eterno” tra i fiori di laudano e l’anoressia nervosa.

Poeta, romanziera e traduttrice, è nota come Saffo 1900 o Musa delle Violette, non soltanto per l’opera di traduzione e riscrittura della poetessa di Mitilene, ma soprattutto per la geminazione del canto femminile, lesbico e androgino, riecheggiato in funzione sovversiva. Fonda infatti l’Académie des Femmes e abbandona la sua lingua di origine per il francese, operando una rivoluzione anche stilistica: abolisce l’alternanza con la rima maschile e gioca con gli accordi sessuati. La rima femminile e il Sonnet féminin sanciscono l’esistenza di una dimensione socio-poetica altra rispetto agli stilemi del Simbolismo e del Parnassianesimo.

Prima poetessa francofona a cantare l’amore per una donna, favorendo il recupero della tradizione saffica, gioca con modelli e pseudonimi maschili per creare un senso di ambiguità volontaria e sprezzante; il titolo del romanzo autobiografico Donna m’apparve (1904) esemplifica la verve distruttiva e costruttiva dell’autrice, decisa a poetare l’erotismo lesbico. Cimentandosi con generi e metri interdetti alle femmes de lettres, si confronta con Petrarca, Dante, Shakespeare, Baudelaire e le Sacre Scritture (Genesi profana, 1902). L’elemento botanico e quello acquatico, ricorrenti nelle numerose raccolte di Renée a partire dall’esordio Études et preludes (1901), costituiscono i tratti fondamentali dell’immaginario poetico perverso fin de siècle, funereo e dalle fascinazioni bohémien. Figura avanguardista, Vivien afferma la necessità di definirsi e ridefinirsi come autrice lesbica alle soglie dell’Idéal simbolista, scrivendo dentro e contro la tradizione, diventando a sua volta una figura mitica del panorama letterario francofono, come testimoniano le violette ancora sparse sulla sua tomba al Cimitero di Passy.


Da Évocations (1903)

Twilight

Ô mes rêves, voici l’heure équivoque et tendre
Du crépuscule, éclos tel une fleur de cendre.

Les clartés de la nuit, les ténèbres du jour
Ont la complexité de ton étrange amour.

Sous le charme pervers de la lumière double,
Le regard de mon âme interroge et se trouble.

Je contemple, tandis que l’Énigme me fuit,
Les ténèbres du jour, les clartés de la nuit.

L’ambigu de ton corps s’alambique et s’affine
Dans son ardeur stérile et sa grâce androgyne.

Les clartés de la nuit, les ténèbres du jour
Ont la complexité de ton étrange amour.

Twilight

O miei sogni, ecco l’ora equivoca e tenera
Del crepuscolo, schiuso come fiore di cenere.

Le luci della notte, le tenebre del giorno
Hanno la complessità del mio strano amore.

Sotto l’invito perverso di una doppia fiamma,
Lo sguardo dell’anima scruta e si offusca.

Io contemplo, mentre l’Enigma mi sfugge,
Le tenebre del giorno, le luci della notte…

L’ambiguo tuo corpo si lambicca e si affina
Nel suo ardore sterile e la grazia androgina.

Le luci della notte, le tenebre del giorno
Hanno la complessità del mio strano amore.

Da Les Venus des Aveugles (1904)

Donna m’apparve

“Sopra candido vel cinta d’oliva
Donna m’apparve, sotto verde manto,
Vestita di color di fiamma viva”.
Dante, Purgatorio, XXX

Lève nonchalamment tes paupières d’onyx,
Verte apparition qui fus ma Béatrix.

Vois les pontificats étendre, sur l’opprobre
Des noces, leur chasuble aux violets d’octobre.

Les cieux clament les De Profundis irrités
Et les Dies irae sur les Nativités.

Les seins qu’ont ravagés les maternités lourdes
Ont la difformité des outres et des gourdes.

Voici, parmi l’effroi des clameurs d’olifants,
Des faces et des yeux simiesques d’enfants,

Et le repas du soir sous l’ombre des charmilles
Réunit le troupeau stupide des familles.

Une rébellion d’archanges triompha
Pourtant, lorsque frémit le paktis de Psappha.

Vois ! l’ambiguïté des ténèbres évoque
Le sourire pervers d’un Saint Jean équivoque.

Donna m’apparve

“Sopra candido vel cinta d’oliva
Donna m’apparve, sotto verde manto,
Vestita di color di fiamma viva”.
Dante, Purgatorio, XXX

Leva svogliate le tue palpebre d’onice,
Verde apparizione che fosti mia Beatrice.

Ecco i pontificati spargere, sul giogo delle nozze,
Il loro manto di violette d’ottobre.

I cieli invocano gli irritati De Profundis
E i Dies Irae sulle Natività.

I seni devastati da pesanti maternità
Hanno le difformità delle otri e delle zucche.

Ecco, tra lo spavento dei clamori degli olifanti,
I volti e gli occhi di scimmieschi infanti,

E il pasto serale all’ombra dei carpini
Riunisce lo stupido branco delle famiglie.

Una rivolta di arcangeli trionfò
Ancora, quando fremette il paktis di Psappha.

Vedi! L’ambiguità di tenebre evoca
Il sorriso perverso di un San Giacomo equivoco.

Litanie de la Haine

La Haine nous unit, plus forte que l’Amour.
Nous haïssons le rire et le rythme du jour,
Le regard du printemps au néfaste retour.

Nous haïssons la face agressive des mâles.
Nos cœurs ont recueilli les regrets et les râles
Des Femmes aux fronts lourds, des Femmes aux fronts pâles.

Nous haïssons le rut qui souille le désir.
Nous jetons l’anathème à l’immonde soupir
D’où naîtront les douleurs des êtres à venir.

Nous haïssons la Foule et les Lois et le Monde.
Comme une voix de fauve à la rumeur profonde,
Notre rébellion se répercute et gronde.

Amantes sans amant, épouses sans époux,
Le souffle ténébreux de Lilith est en nous,
Et le baiser d’Éblis nous fut terrible et doux.

Plus belle que l’Amour, la Haine est ma maîtresse,
Et je convoite en toi la cruelle prêtresse
Dont mes lividités aiguiseront l’ivresse.

Mêlant l’or des genêts à la nuit des iris,
Nous renierons les pleurs mystiques de jadis
Et l’expiation des cierges et des lys.

Je ne frapperai plus aux somnolentes portes.
Les odeurs monteront vers moi, sombres et fortes,
Avec le souvenir diaphane des Mortes.

Litania dell’Odio

L’Odio ci unisce, più forte di Amore.
Odiamo il riso e il ritmo del giorno,
Lo sguardo della primavera dal nefasto ritorno.

Odiamo il volto aggressivo dei maschi.
I nostri cuori hanno raccolto i rimorsi e i rantoli
di donne con le fronti pesanti, di donne con le pallide fronti.

Odiamo l’accoppiamento che insudicia il desiderio.
Noi gettiamo l’anatema sull’immondo gemito
Da cui nasceranno i dolori di esseri venturi.

Noi odiamo la Folla e le Leggi e il Mondo.
Come voce di belva dalla voce profonda,
La nostra rivolta riverbera e gronda.

Amanti senza amante, mogli senza marito,
Il soffio tenebroso di Lilith è in noi.
E il bacio di Ibis ci fu terribile e dolce.

Più bella di Amore, l’Odio è la mia amante
e in te bramo la crudele sacerdotessa
Di cui le mie lividezze acuiranno l’ebbrezza.

Mescolando l’oro delle ginestre alla notte degli iris,
Rinnegheremo i pianti mistici di un tempo
E l’espiazione delle candele e dei gigli.

Non busserò più alle porte addormentate.
Gli odori mi raggiungeranno, scuri e forti,
con il ricordo diafano dei morti.

Da À l’heure des mains jointes (1906)

Ainsi je parlerai…

Ô si le Seigneur penchait son front sur mon trépas,
Je lui dirais : « Ô Christ, je ne te connais pas.

« Seigneur, ta stricte loi ne fut jamais la mienne,
Et je vécus ainsi qu’une simple païenne.

« Vois l’ingénuité de mon cœur pauvre et nu.
Je ne te connais point. Je ne t’ai point connu.

« J’ai passé comme l’eau, j’ai fui comme le sable.
Si j’ai péché, jamais je ne fus responsable.

« Le monde était autour de moi, tel un jardin.
Je buvais l’aube claire et le soir cristallin.

« Le soleil me ceignait de ses plus vives flammes,
Et l’amour m’inclina vers la beauté des femmes.

« Voici, le large ciel s’étalait comme un dais.
Une vierge parut sur mon seuil. J’attendais.

« La nuit tomba… Puis le matin nous a surprises
Maussadement, de ses maussades lueurs grises.

« Et dans mes bras qui la pressaient elle a dormi
Ainsi que dort l’amante aux bras de son ami.

« Depuis lors j’ai vécu dans le trouble du rêve,
Cherchant l’éternité dans la minute brève.

« Je ne vis point combien ces yeux clairs restaient froids,
Et j’aimai cette femme, au mépris de tes lois.

« Comme je ne cherchais que l’amour, obsédée
Par un regard, les gens de bien m’ont lapidée.

« Moi, je n’écoutai plus que la voix que j’aimais,
Ayant compris que nul ne comprendrait jamais.

« Pourtant, la nuit approche, et mon nom périssable
S’efface, tel un mot qu’on écrit sur le sable.

« L’ardeur des lendemains sait aussi décevoir :
Nul ne murmurera mes strophes, vers le soir.

« Vois, maintenant, Seigneur, juge-moi. Car nous sommes
Face à face, devant le silence des hommes.

« Autant que doux, l’amour me fut jadis amer,
Et je n’ai mérité ni le ciel ni l’enfer.

« Je n’ai point recueilli les cantiques des anges,
Pour avoir entendu jadis des chants étranges,

« Les chants de ce Lesbos dont les chants se sont tus.
Je n’ai point célébré comme il sied tes vertus.

« Mais je ne tentai point de révolte farouche :
Le baiser fut le seul blasphème de ma bouche.

« Laisse-moi, me hâtant vers le soir bienvenu,
Rejoindre celles-là qui ne t’ont point connu !

« Psappha, les doigts errants sur la lyre endormie,
S’étonnerait de la beauté de mon amie,

« Et la vierge de mon désir, pareille aux lys,
Lui semblerai plus belle et plus blanche qu’Atthis.

« Nous, le chœur, retenant notre commune haleine,
Écouterions la voix qu’entendit Mytilène,

« Et nous préparerions les fleurs et le flambeau,
Nous qui l’avons aimée en un siècle moins beau.

« Celle-là sut verser, parmi l’or et les soies
Des couches molles, le nectar rempli de joies.

« Elle nous chanterait, dans son langage clair,
Ce verger lesbien qui s’ouvre sur la mer,

« Ce doux verger plein de cigales, d’où s’échappe,
Vibrant comme une voix, le parfum de la grappe.

« Nos robes ondoieraient parmi les blancs péplos
D’Atthis et de Timas, d’Éranna de Télos,

« Et toutes celles-là dont le nom seul enchante
S’assembleraient autour de l’Aède qui chante !

« Voici, me sentant près de l’heure du trépas,
J’ose ainsi te parler, Toi qu’on ne connaît pas.

« Pardonne-moi, qui fus une simple païenne !
Laisse-moi retourner vers la splendeur ancienne

« Et, puisqu’enfin l’instant éternel est venu,
Rejoindre celles-là qui ne t’ont point connu».

Così io parlerò…

Oh, se il Signore piegasse la sua fronte sulla mia morte,
Gli direi: «O Cristo, io non ti conosco.

«Signore, la tua legge severa non fu mai la mia,
E vissi così come una semplice pagana.

«Guarda l’ingenuità del mio povero e nudo cuore.
Io non ti conosco. Non ti ho conosciuto.

«Sono passata come l’acqua, sono fuggita come la sabbia.
Se ho peccato, mai ne fui colpevole.

«Il mondo era intorno a me come un giardino.
Ho bevuto l’alba chiara e la sera cristallina.

«Il sole mi ha avvolta con le sue fiamme più brillanti,
E l’amore mi ha portata alla bellezza delle donne.

«Ecco, l’ampio cielo disteso come un baldacchino.
Una vergine è apparsa sulla mia porta di casa. Ho aspettato.

«Scese la notte… Poi il mattino ci ha sorprese
Arcignamente, con il suo imbronciato bagliore grigio.

«E tra le mie braccia che la stringevano dormiva
Come un’amante dorme tra le braccia del suo amico.

«Da allora ho vissuto nel tumulto del sogno,
Cercando l’eternità nel breve minuto.

«Non ho visto come sono rimasti freddi quegli occhi chiari,
E ho amato questa donna, in spregio alle tue leggi.

«Siccome non ho cercato che amore, ossessionata
Da uno sguardo, la brava gente mi ha lapidata.

«Io, io non ho ascoltato che la voce che amavo,
Avendo capito che nessuno avrebbe mai capito.

«Ma la notte si avvicina, e il mio nome peribile
Svanisce, come una parola scritta sulla sabbia.

«L’ardore del domani sa anche deludere:
Nessuno sussurrerà le mie strofe, verso sera.

«Vedi ora, Signore, giudicami. Perché noi siamo
Faccia a faccia, davanti al silenzio degli uomini.

«Per quanto dolce fosse l’amore per me, una volta era amaro,
E non ho meritato né paradiso né inferno.

«Non ho raccolto i canti degli angeli,
Perché ho sentito strani canti di un tempo,

«I canti di quella Lesbo i cui cori si sono taciuti.
Non ho celebrato le tue virtù come si conviene.

«Ma non ho tentato una rivolta feroce:
Il bacio fu l’unica bestemmia della mia bocca.

«Lasciatemi, affrettandomi alla serata benvenuta,
Raggiungere quelle che non ti hanno conosciuto!

«Psappha, le dita vaganti sulla lira addormentata,
Si meraviglierebbe della bellezza della mia amante,

«E la vergine del mio desiderio, come i gigli,
Le sembrerebbe più bella e più pallida di Attis.

«Noi, il coro, trattenendo il respiro insieme,
Ascolteremmo la voce che ha sentito Mitilene,

«E prepareremmo i fiori e le torce,
Noi che l’abbiamo amata in un’epoca meno bella.

«Quella sapeva versare, tra oro e sete
Di strati morbidi, il nettare pieno di gioie.

«Cantava per noi, nella sua chiara lingua,
Quel frutteto lesbico che si apre sul mare,

«Quel dolce frutteto pieno di cicale, da cui fugge,
Vibrante come una voce, il profumo della grappa.

«Le nostre vesti ondulavano tra i pepli bianchi
Di Attis e Timas, di Eranna e Telo,

«E tutte quelle cui il solo nome incanta
Si riunirebbero intorno all’Aedo che canta!

«Qui, sentendomi vicina all’ora della morte,
Oso parlarti così, Te che non ho conosciuto.

«Perdonami, che ero una semplice pagana!
Lasciami tornare all’antico splendore

«E, com’è giunto il momento eterno,
Per unirmi a quelle che non Ti hanno conosciuto”.