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Frodo e il libro di poesia come progetto: opera-mondo e concept-book nella contemporaneità.

di Riccardo Frolloni. In questo contributo Frolloni riflette sulle tipologie testuali di opera-mondo e concept-book in riferimento alla sua attività di lettore e poeta. Dopo aver tracciato un percorso bibliografico, l’autore fa riferimento alla propria opera e al panorama della poesia contemporanea.

Volevo scrivere del mio essere un lettore pigro, di come questo abbia delle ripercussioni negative su tutto, e sono finito a riflettere su quali siano i libri che mi rapiscono. Sono libri a un tempo monolitici e magmatici, centrati e policentrici. Sono concept-book, libri-progetto, opere organiche, opere-mondo, io un piccolo Frodo (o un piccolo Sem, il vero eroe è lui) mi perdo, cerco la soluzione, in fondo non la voglio trovare, forse non esiste nemmeno, per certi versi sono io. La mia stessa poesia desidera questa tensione, nel tempo sempre di più. Ho così iniziato a scrivere solo per progetti: senza una direzione non riesco più a scrivere. Ho fatto dunque una breve ricerca per chiarirmi alcuni concetti, per poterli fare miei.

Mi sono chiesto quale fosse l’origine del libro come progetto, e ho visto che la concezione del libro di poesia come opera organica ha radici profonde nella tradizione letteraria. Già Petrarca propone un modello inaugurale di libro unitario, disposto secondo un’intenzione strutturale tematica e narrativa che segue le vicende spirituali dell’io poetico. Tale paradigma riemerge con forza nel XIX secolo, quando molti poeti romantici e simbolisti iniziano a pubblicare raccolte organizzate da un coerente disegno interno: Les Fleurs du Mal di Baudelaire, le Poésies di Mallarmé e, su tutti, Leaves of Grass di Whitman, libro aperto, “the book”, continuamente rivisto e ampliato, concepito come corpus poetico totale, come una Terra di Mezzo testuale: sempre espandibile, mai del tutto esplorabile – ma pur sempre un’isola, per quanto grande come un continente.

Nel tardo Ottocento, questa idea si consolida nella convinzione che un poeta rilevante debba scrivere poemi o cicli coerenti, come accade con Une Saison en Enfer di Rimbaud. Tuttavia, è nel Novecento che la riflessione sulla struttura del libro di poesia diventa teoricamente consapevole e dichiarata: The Waste Land di Eliot e i Cantos di Pound, opera-mondo frammentaria ma intesa come un libro unico in progress con intento enciclopedico, vicino al concetto di opera-mondo delineato da Franco Moretti (un po’ come le appendici del Signore degli Anelli: affascinanti, vaste, enciclopediche, e spesso ne parliamo più di quanto effettivamente le leggiamo). Anche la poesia italiana del Novecento offre numerosi esempi: Montale, Saba, Ungaretti, Sereni – diversi gradi di unitarietà, in alcuni casi solo accennata o addirittura dedotta.

Un po’ di critica ci può aiutare. Enrico Testa, con Il libro di poesia. Tipologie e analisi macrotestuali (1983), sistematizza le forme della raccolta poetica unitaria individuando varie tipologie di macrotesti, dal canzoniere autobiografico ai cicli narrativi in versi fino alle raccolte sperimentali. Per Testa, il libro di poesia rappresenta «un particolare modello del mondo» che riflette un macrocosmo esterno (un mito, una storia, un’opera d’arte) senza però mai coincidere completamente con esso. Negli anni successivi, studi come L’esigenza del libro dello stesso Testa e Il poeta e il suo libro di Scaffai (2005) ampliano questa prospettiva storica. Scaffai combina l’approccio storico e quello teorico mostrando come la forma-libro evolva nel Novecento, dalle strutture cicliche e chiuse dell’epoca simbolista ed ermetica a forme più aperte e frammentarie del secondo Novecento, mantenendo comunque una logica progettuale.

Anche le avanguardie (ad esempio Laborintus di Sanguineti) conservano una tensione verso una poesia concepita come opera aperta, globale, pur frammentando il discorso poetico. Secondo Moretti, le opere-mondo sono «monumenti», caratterizzate da dimensioni enciclopediche, polifonia di voci e strutture aperte che mirano a coprire l’intero spettro dell’esperienza umana. In poesia, esempi classici sono i già citati Cantos di Pound, Omeros di Walcott, Autobiography of Red di Anne Carson, Hart Crane con The Bridge e Iovis Trilogy di Anne Waldman; tutte opere che tentano di fondere storia e realtà in un unico organismo testuale. Moretti evidenzia come queste opere siano punti di riferimento transnazionali, collegandosi al concetto di Weltliteratur, come nel caso del Canto General di Neruda – ma di ciò parleremo in seguito con Ramazani.

Anche la ricerca, poi, si è trasformata in un’ossessione, una condizione di iperconsapevolezza teorica che ha iniziato a permeare il mio lavoro. La materia poetica di Corpo striato era troppo calda e dolorosa, il flusso creativo è stato dirompente e incontrollato, avevo bisogno di un filtro diamantino per evitare il patetismo: una struttura per un testo compatto e coerente, una matrice, una serie, fredda abbastanza per mantenere il controllo – controllare la morte, attraverso il fare poetico, ciò che abbiamo sopportato viene portato e trasformato in un oggetto. Nel frattempo avevo centinaia di appunti per Amigdala, avevo una storia, e già questa è invece una manipolazione, molto più controllabile, non fosse che questa storia era piena di buchi, oscura e subdola, e il frammento e il frammentato, policentrico, si dimostravano come una logica compositiva possibile, una narrazione possibile solo in poesia – altra forma di controllo quella della costruzione della memoria, mi viene da dire: poesia come forma di controllo? Terrificante ma possibile.  

A questo punto, si rende necessario riflettere sui due aspetti centrali per la riuscita (la realizzazione?) di un libro di poesia unitario, di un progetto: la composizione e la ricezione. Per me è stata la costruzione dei personaggi familiari, della Storia e della storia, del paese, del paesaggio, mio e non mio, da ricostruire nella memoria, iper-realistico e magico contemporaneamente, io come poeta e poeta-personaggio, mio padre come mio-padre-vivo nel ricordo finzionale del libro e come mio-padre-morto nel presente del poeta-personaggio, mia-madre-viva nel ricordo finzionale del libro e mia-madre-viva nel presenta del poeta-personaggio, ecc. Come si compone e come si tiene conto della ricezione?

A livello compositivo: da trame narrative esplicite a reti più sottili di rimandi interni e isotopie tematiche che producono una progressione di senso, spesso simile alle dinamiche narrative del romanzo; da libri iper-strutturati a libri intenzionalmente frammentari o policentrici, che tuttavia presentano una coesione “di secondo grado”, giocando con la coerenza strutturale, inserendo deliberatamente elementi di rottura o discontinuità, come ne I costruttori di vulcani di Bordini, che presenta «un compromesso tra istanze costruttive e destrutturanti» (Morbiato).

Dal punto di vista della ricezione, Julia Kristeva, con la teoria dell’intertestualità, evidenzia come «ogni testo sia un mosaico di citazioni» che dialogano tra loro internamente (i testi dialogano tra loro) ed esternamente (il libro dialoga con altri discorsi culturali, miti, libri precedenti). Nel caso di un libro di poesia unitario, potremmo dire che ogni poesia si legge come citazione delle altre, in un mosaico interno: la pluralità di testi si integra nella mente di chi legge. In effetti, «il lettore è il luogo ultimo in cui tale pluralità si riunisce, in cui si inscrivono tutte le citazioni di cui il testo è costituito»​. Nel libro di poesia unitario, tale intertestualità è rafforzata dal concetto di subject in process, un io lirico frammentato, polifonico e in continua evoluzione, come accade ne Le fuggitive di Carmen Gallo, che Cortellessa definisce un «gioco tra fantasmi del sé [che]… esplicita la dimensione rituale… della coazione a ripetere»​, o nello stesso Omeros, dove ci sono più personae, personaggi o alter ego, Achille, Philoctete, il narratore stesso.

Parallelamente, con Gérard Genette dobbiamo introdurre il concetto di paratesto: elementi di soglia (titoli, epigrafi, prefazioni, note, «l’insieme di elementi che fanno sì che un libro si presenti come tale») fondamentali nei libri a progetto per orientare il lettore verso una lettura unitaria. Il paratesto è un po’ come la mappa della Terra di Mezzo: certo, puoi farne a meno, ma non lamentarti se ti perdi nella Vecchia Foresta. Penso a Citizen di Rankine, che dichiara subito il tema identitario-politico, o a Verso le stelle glaciali di Tommaso Di Dio, dove il paratesto, con un’Avvertenza, anticipa e indirizza l’esperienza interpretativa complessiva: Quattro itinerari compongono questo libro. Questo paratesto introduttivo funge da mappa per il lettore, ci dispiega la dispositio interna.

Jonathan Culler, da Structuralist Poetics (1975) a Theory of the Lyric (2015), dice che leggere poesia implica una continua ricontestualizzazione del particolare nel generale e comprendere una poesia significa applicare una serie di convenzioni e aspettative di genere da parte del lettore, in altre parole, esiste una competenza poetica che ci fa percepire un testo come lirico e ne coglie i meccanismi interni (ripetizioni, parallelismi, ritmi, metafore ricorrenti). Il libro unitario funziona come un concept album, dove il lettore scopre una narrazione implicita attraverso il dialogo costante tra rito (immagini reiterate, parole-chiave) e racconto (progressioni tematiche o narrative). Ogni singolo acquista pieno significato alla luce della struttura totale. Si genera una narrazione implicita, come quella che può emergere da una serie: pur non essendoci una trama esplicita come in un romanzo, la successione delle poesie può creare un racconto di fondo o uno sviluppo concettuale. Il lettore strutturalmente competente tende a naturalizzare la sequenza, cioè a leggerla come se avesse una logica narrativa o tematica​.

C’è dunque un filo sottile tra naturalezza e struttura, una confusione benevola, proficua, e questo riguarda sia il poeta-compositore sia il lettore-investigatore. Entrambi sonnambuli, equilibristi, prestigiatori.

Ma credo importante ampliare (complicare) ulteriormente il discorso e ricordare gli studi di Jahan Ramazani che in A Transnational Poetics (2009) sottolinea come molti libri trascendono i confini nazionali e culturali, configurandosi come opere transnazionali, «energie dell’immaginazione poetica che scavalcano gli oceani». Opere come Omeros e Autobiography of Red mescolano tradizioni linguistiche e culturali diverse, rivolgendosi a un lettore globale e cosmopolita: ecco La Compagnia dell’Anello, hobbit, elfi, nani, uomini, stregoni, insieme. In questo senso, intertestualità e transnazionalità si sovrappongono, richiedendo al lettore di cogliere connessioni tra culture e tradizioni eterogenee. Dal punto di vista tematico, un macrotesto poetico può incorporare voci e storie di diverse provenienze (il mito greco o la realtà caraibica nelle due opere già citate, ma anche gli eventi e i media statunitensi che risuonano ovunque ci sia una discussione sul razzismo come in Citizen di Rankine). Sul piano formale, la transnazionalità appare nell’uso di lingue diverse o di forme poetiche miste: ad esempio, poeti migranti come Ocean Vuong o Eduardo C. Corral scrivono libri in inglese che includono parole vietnamite o spagnole, integrando prospettive bilingui in un singolo progetto poetico.

Ramazani parla della «cittadinanza della poesia» che sfida le genealogie nazionali​, mostrando come molti poeti odierni “abitino” più tradizioni simultaneamente. Un libro di poesia transnazionale è costruito quindi su intertestualità culturali: ad esempio, Yang Lian nel suo libro Concentric Circles (2005) fonde la classicità cinese con l’avanguardia occidentale, creando un macrotesto che richiede al lettore di essere, per così dire, cosmopolita nelle sue competenze di lettura. Anche il concetto di translinguismo (poesia che mescola più lingue) rientra qui: libri come Taccuino del Nicaragua (1992) di Ernesto Cardenal, scritto in spagnolo ma ricco di citazioni in inglese e riferimenti alla cultura globale, sono macrotesti che deliberatamente oltrepassano la dimensione nazionale. Dal punto di vista della critica, la transnazionalità impone di connettere i puntini: leggere queste opere significa anche riconoscere le fonti eterogenee e capire come un progetto poetico possa fungere da crocevia. In un’epoca di globalizzazione culturale, il libro di poesia unitario può diventare uno spazio transnazionale: un macrotesto come luogo d’incontro di voci del mondo. Ad esempio, Trickster Feminism (2018) di Anne Waldman incorpora miti dei nativi americani, riferimenti al buddismo tibetano e al femminismo internazionale in un unico ciclo poetico – la lettura richiede di attivare conoscenze diverse, e la critica ne ha parlato in termini di «poesia translocale». Ramazani e altri teorici evidenziano quindi che concetti come intertestualità e transnazionalità possono sovrapporsi: le citazioni e i richiami in questi libri spesso provengono da più culture, e il lettore ideale è chiamato a essere un interprete transnazionale, capace di cogliere nessi al di là di un singolo contesto nazionale.

Possiamo, dopo tanto straparlare, pretendere ancora un pubblico? Non chiediamo troppo? Come già sosteneva Testa, il libro di poesia «è un particolare modello del mondo», personale o collettivo, locale o globale, lineare o frammentato, ma sempre progettato secondo una logica strutturale consapevole – superbo, no? Implica una lettura attenta, integrale e attiva, rendendo la poesia contemporanea un genere che non ammette più una fruizione casuale, ma che richiede un coinvolgimento profondo e un’esplorazione guidata, simile al viaggio attraverso una «cattedrale di parole» che arricchisce la nostra esperienza del testo poetico, una Minas Tirith testuale che attende il lettore-esploratore. Ci sono testi che riescono in questa impresa alchemica – d’altronde Dante è ancora vivo, e senza scomodare il Sommo, tutti i libri splendidi che qui abbiamo citato. Forse il segreto è ancora nella narrazione e nel verso, nella tensione dei versi, che attrae magneticamente il fruitore, il quale, verso dopo verso, immagine dopo immagine, suono dopo suono, in una prima o in una seconda lettura, si sintonizza con la forza del compositore: una danza forse, Beren e Lúthien che danzando creano mondi (chi più di Tolkien è un autore-mondo?). Come lettore cerco questa danza, come autore provo a indicarne la soglia.

Come fare femminismo in versi scritti? Qualche considerazione su modalità e contraddizioni

In questo contributo, Letizia Imola riflette sulle modalità di fare femminismo in versi scritti, partendo da un’esperienza personale e da letture significative. Proponendo tre poesie inedite e considerazioni stilistiche, l’intervento esplora tensioni, resistenze e possibilità legate alla scrittura femminista, formulando ipotesi aperte su forma, militanza e trasmissione.

In pieno testo
Per caso e per privilegio ho vissuto tre mesi ancora più all’estero di quanto non ci viva normalmente. L’agio ha fatto sì che avessi ancora più tempo e più spazio per stare da sola, leggere e scrivere. (L’eccezione a questa triade è stata una nuova amica che credo un’amica per la vita, una compagna). In quei tre mesi ho “fatto ricerca” in più direzioni di quelle che pensavo. Ho scritto sette poesie, una cifra per me sorprendente. Nonostante le guerre sempre nelle orecchie, ho vissuto talmente in pace da acquisire il recul che stavo aspettando. L’attesa necessaria perché un’altra ondata di ordine (interventi che sento immediatamente come giusti) investisse quello che spero presto sarà il mio libro.

Dopo un mese ho scritto un testo credo femminista e mi sono chiesta perché. A posteriori ho pensato che abbia più senso interrogarmi sul come partendo da un dato incontrovertibile, il testo.
Avevo portato con me pochi libri, quasi tutti scritti da donne. Sentivo di averne bisogno. Infatti una somma di scrittici e la nuova amica mi hanno aiutata a resistere nella casa della discordia quel primo mese. Della Ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda avevo già letto le prime cinquanta pagine circa un anno prima. Ero entusiasta, ma quella volta non avevo molto tempo. Ne avevamo comunque parlato con un vecchio amico. Lui ci ha scritto un testo. La stessa cosa è successa a me. Mi era già capitato di scrivere un testo in versi dopo una lettura in prosa. In parte è l’effetto naturale di certe scritture, in parte è una volontà di capire e di tradurre. Per l’amicizia, per quel testo che si intitola «I saggi di F.F.», questo:

Il libro di R.R.

Scrivere in prima persona
con poca umiltà ma senza delirio
dà il senso del limite al singolo;
basta cercare nel genere giusto
e capisci che la finzione
è per chi ha già capito tutto
o per chi non vuole capire.

La pasta sfoglia è termine di paragone
per gli strati d’identità femminile
e per la società che si solleva:
il cerchio del libro si chiude.

Scrivi un appunto nel diario
se riesci persino un piccolo testo
per poi rileggerlo e ripetere
secondo i tuoi tempi nel tempo fermo;
solo grazie al modo francofortese
questa cosa rimane per la vita
ma ricorda: sono cose da poco
le cose che non mutano.

Vorresti essere di poche parole
e non temere la ripetizione;
almeno c’è qualche nuova certezza:
hai studiato troppo gli uomini
una rivista non è un’antologia
testimonianza è il contrario di politica
la forma è inevitabile.

Il testo conta ventisei versi. Circa la metà hanno un rapporto stretto con Rossanda, per i restanti è questione di altro; qualcosa che potrei chiamare l’incontro tra Rossanda e un sostrato di nervi scoperti. Dai nervi credo sia venuto il ‘tu’, che io uso davvero poco. Rileggendo individuo cose che mi sono state fatte notare. La dizione composta e a tratti lapidaria (e il modo in cui essa si esplica in sequenze versali costituite di volumi netti e ben squadrati). Un testo enunciativo controllato formalmente dove è avvenuto mascheramento/ raffreddamento/nascondimento, dove in realtà non è difficile risalire alle fonti, rimangono dei frammenti a mo’ di segnali destinati a essere più o meno impercepiti. Viene da chiedersi: è una postura generazionale? Una modalità di stare? Una modalità di sguardo che filtra la dimensione emotiva? Riconosco un mio uso della punteggiatura. Voglio credere che non c’è scimmiottare, non c’è pastiche. Sento la mia voce formale attraversata solo tematicamente da Rossanda. Forse è per questo che mi sembra che funzioni. Allora è bello riportare le due citazioni sulla pasta sfoglia. La prima si trova a pagina 37: «È stratificata come una pasta sfoglia l’identità femminile.» La seconda a pagina 382: «La società si era sollevata in quei due anni come una pasta sfoglia.» Rossanda è per la pagina scritta che si legge e si rilegge secondo i propri tempi. In questo senso si è definita “francofortese”. Per lei bisogna adattarsi al tempo fermo dello scritto una volta per sempre. Tutto il resto è una trappola. Bisogna fermarsi, tornare indietro. Bisogna rileggere. E così ho chiarito due riferimenti. C’è bisogno di dire altro? Per ora non credo. Né per me, né per chi legge.

Ci vorrebbe l’introduzione
Nel parlare di poesia femminista è fondamentale operare un distinguo – tutt’altro che scontato – rispetto a ciò che viene genericamente definito poesia femminile, nel senso di scritta da donne. La poesia femminista non coincide necessariamente con la scrittura femminile: è una pratica esplicitamente orientata a interrogare, criticare o sovvertire le strutture patriarcali e le dinamiche di potere di genere, e può essere scritta da soggettività non solo femminili, ma anche maschili, trans, non binarie e queer. Questo ambito si declina in forme molteplici e spesso intersezionali, come dimostra la poesia femminista delle minoranze, in cui le dimensioni di genere, razza, classe, orientamento sessuale e identità di genere si intrecciano profondamente. Figure come Audre Lorde, bell hooks e Adrienne Rich, accanto a voci affini come Monique Wittig, Cheryl Clarke, Pat Parker, June Jordan, Eileen Myles o Nicole Brossard, non solo hanno coniugato militanza politica e ricerca formale, ma hanno anche ribadito con forza il valore della poesia come spazio performativo, orale e comunitario. Nella poesia lesbica, in particolare, l’identità sessuale diventa veicolo di resistenza e di reinvenzione del linguaggio, spesso in tensione con la normatività eterosessuale e con le strutture canoniche del discorso poetico. Più recentemente, le scritture poetiche trans, non binarie e queer hanno contribuito ad ampliare ulteriormente l’immaginario e la grammatica della poesia femminista, decostruendo le dicotomie di genere e aprendo nuovi spazi per l’espressione del corpo, della soggettività e della trasformazione. Autor* come Alok Vaid-Menon, Juliana Huxtable, Kae Tempest, Jay Hulme o Danez Smith portano avanti una pratica poetica che è insieme performativa, politica e radicalmente sperimentale, spesso al confine tra poesia orale, spoken word e gesto corporeo.
Accanto a questa linea più propriamente militante si sviluppa, soprattutto nel contesto nordamericano, una forma ibrida e sempre più influente di saggismo lirico femminista che attraversa i confini tra poesia, autobiografia e teoria. Autrici come Anne Carson, Maggie Nelson e Claudia Rankine hanno ridefinito le possibilità del discorso poetico, fondendo riflessione critica e lirismo in un gesto insieme intellettuale e corporeo, che spesso si apre anch’esso alla dimensione performativa. Non è un caso che queste pratiche abbiano trovato particolare diffusione negli Stati Uniti, dove la tradizione orale, la spoken word e le forme ibride di espressione hanno da tempo abbattuto le barriere tra testo scritto e voce. In questo contesto, la poesia torna a essere non solo oggetto di lettura ma gesto incarnato, relazione, azione politica.

Se questa fosse un’introduzione, ci vorrebbe anche un paragrafo sul panorama italiano. Non solo sul versante poetico – e qui dovrebbe figurare un lungo elenco dei nomi giusti da cui mi defilo – ma anche teorico, a partire da tutto quel terreno pregresso che ha preso forma attraverso il pensiero della differenza, e che oggi dovrebbe entrare in dialogo con prospettive intersezionali complesse. Ma soprattutto, bisognerebbe aver letto, ascoltato, attraversato, per potersi riconoscere in un certo pensiero e non solo nominarlo. Per potersi chiedere: che pezzo di strada è stato percorso? E io, nel mio modo di leggere, di guardare il mondo, di scrivere – che spostamento metto in atto?

What’s better ?
Torno al mio interrogativo sul come e magari una risposta provvisoria (in campi come questo molte cose sono transitorie, le proposte si rinnovano) dirà qualcosa sul perché.

Come fare femminismo in versi scritti? [1]

Provo a scomporre la domanda che mi sono posta nelle sue cinque componenti. La prima è appunto il come e riguarda le modalità al plurale, perché la questione implica necessariamente una molteplicità di vie. La seconda è il femminismo come sineddoche di militanza, sperando che il discorso sia trasferibile a un piano intersezionale. La terza componente è la forma versale, escludendo per ora la prosa poetica (questo solo perché la domanda per ora la pongo a me stessa adesso che scrivo poco in prosa). La quarta è la dimensione dello scritto, ovvero versi che non nascono con un intento recitativo, ma già sanno che rimarranno sulla pagina (a parte, forse, qualche presentazione più o meno intima che proverà a uscire dalla nicchia). Il quinto elemento è che si tratta di una domanda: l’interrogativo è contingente quanto lo è il suo decorso qui presentato, meglio ribadirlo.

Se su questa questione a livello terminologico è stato facile parlarmi dentro, non lo è stato a livello esperienziale. Provo a farla semplice anche qui: avverto una sensazione di pericolo di fronte al femminismo in versi. Infatti, è qualcosa che non ho mai cercato, tutt’ora non cerco e ho scoperto che vale altrettanto per una serie di mie coetanee che si definiscono femministe e che scrivono poesie. Cerco il femminismo nella prosa, soprattutto come intenzione primaria dell’opera. Molto banalmente, credo che la prosa riesca a realizzare in maniera compiuta lo snodarsi e il racconto del pensiero femminista. Credo che la prosa sia lo spazio letterario giusto per articolare la denuncia, i problemi di unità, quelli di spessore simbolico e tanto altro. Il pericolo che avverto – la retorica – mi annichilisce. Mi spaventa lo slogan sulla pagina, in corteo invece lo urlo anche io.

Un’amica più adulta mi ha detto police partout, justice nulle part. Mi ha detto sono pochi gli slogan a non essere vittime del tempo. All’interno di una logica di mercato dove si fa mercato di tutto bisogna chiedersi ogni giorno se uno slogan è ancora valido nei suoi termini.

Per ora tutto ciò non mi spinge a posizionarmi in modo reattivo. Ho il sentore che la lotta sarebbe qui una battaglia al contrario, l’importante è che il fuoco non si spenga. E poi dalla nicchia e dal privilegio sempre parliamo.

Un altro amico ha detto credo nell’autonomia dei due momenti, militanza e poesia, ma li considero vasi comunicanti. Prassi e stasi. La questione è: voglio investire una fetta di esistenza e di senso?

Se incanaliamo la cosa nel nostro discorso, il femminismo può essere un vaso comunicante della poesia non solo femminile. Poi, il fatto che a me piacerebbe questa fosse la logica dietro a tutte le raccolte di poesia che tutt* dovremmo avere voglia di scrivere è un’altra questione e ha a che fare con il perché. Resto nel come e cerco di avvicinarmi a un nucleo in cui credo e di cui vorrei parlare, quello di retaggio positivo.

Non cercando poesia ideologica, poesia di reclami esplicitamente femministi, incontro, sostengo, e a questo punto genero anche, una poesia in cui non vengono messe a tema le questioni femministe, ma in cui il testo stesso, per la sua costruzione (visibile e non), mi porta a interrogarmi, mi obbliga a sostare. Uno spazio permeato da un femminismo fertile in cui si rompono automatismi e si fa venire alla luce un impensato rispetto a questioni che sono tra l’altro femministe.

Questo mio amalgama di paure e convinzioni si è imbattuto in una bolla di poetry slam italofono all’estero grazie a un’altra nuova amica. Grazie a lei ho visto una forma e un mondo poetici che mi erano abbastanza sconosciuti. Uno spazio in cui vigono dinamiche diverse da quelle che ho sempre sperimentato e che sono date dalla dimensione corporale e sociale presupposte.

«It’s better to speak» Lorde lo scrive, quindi è vero anche «It’s better to write».

Il megafono fa cool, è talmente ovvio. Siccome noi non siamo in corteo, ma in poesia in versi scritti, sono tanti i rischi: oltre alla retorica e all’incomunicabilità dei due momenti, a me appaiono davvero insidiosi i pericoli del filone e del “criterio amichettistico”, di cui si parla anche nell’editoriale di questa rubrica. Mi sto chiedendo se essere uncool in questo senso sia una forma di resistenza. Se non sia fondamentale anche un’altra forma di contributo. Non occupare lo spazio dei social e scrivere versi con un forte retaggio femminista perché si è propens* a introiettare un’intersezionalità sistemica, è una forma di militanza? Mi sembra che questo femminismo sia solido perché imprevedibile. Dal suo humus possono darsi dissidenze e contronarrative proficue (se si crede nella continua provvisorietà di molte armi e proposte della lotta femminista). Credo che questo femminismo possa agire anche a livelli sconosciuti e imprevisti proprio perché permea e attecchisce in un substrato profondissimo e, così tellurico, riesce a sovvertire.

Forse questa via è anche una scrittura aperta, una poesia abitabile da altr*. (Prevedere la libertà di chi legge. Accettare che non esiste il colpo di grazia.) Se entra nel pubblico, niente esclude che ecceda, prosegua, inneschi, attivi un impensabile altrove, venga interpretata e tradotta in un altro modo, che sarà necessariamente giusto perché possibile, perché espansione, sopravvivenza.

Un dittico
Prima di pensare a tutto questo ho scritto altri due testi credo femministi. Poi mi è venuto da ritoccarli calcando un po’ la mano.

Il gruppo

C’è un gruppo che mi fa molta paura
esiste e al contempo non esiste
potrei disporne in cerchio i membri
ma temo non si riconoscerebbero
nonostante il genere e la generazione.

Alcune di loro ci sanno fare
sono prestanti e le parole le usano
in modo del tutto diverso
si prendono troppo sul serio non sanno
che a fianco bisogna comunque campare.

Si giustificano sempre con formule
che io mi vorrei appuntare
ammesso che ciò che trattengono
le sottragga da morte insicura.

Se provo paura, se sono ostile
è una questione di campo e di spazio.


Il genere

Ho indicato le affinità nel genere
a posteriori, infatti credo
di averne un’esperienza muta e vera
spero di non dovermi mai ricredere
(per ora noi pensiamo unite
ma non scriviamo insieme).

La sommatoria è una persona unica
calda come la prima vocale
che le alterazioni emotive tengono
al di qua dalla produttività.

Senza gelosia per le coincidenze
raccontiamo di nuovo le nostre cose
mentre l’altra è presente e c’è il piacere
di riaprire insieme certi cassetti.

I traumi a quel punto diventano
una stronzata o un privilegio.

I due testi formano un dittico in seno alla mia raccolta, dove però mi auguro instaurino anche un dialogo più ampio con le altre poesie della sezione, oltre che con il resto del libro. La sezione si intitola Abrégés e consta di brevi ritratti (degli abstract, se si vuole, ma è una parola che si è abbruttita spaventosamente) di persone che per me funzionano particolarmente bene come gioco di sponda e allo stesso tempo come apertura di brecce nell’analisi di varie cose, tra cui di me stessa.

Ho incluso questi due testi perché sono stati scritti nei mesi di pace. Sotto al primo, tra le altre cose, adesso intravedo Nathalie Sarraute, che non stavo leggendo, ma che è sempre lì. Nel secondo – e ancora di più in una prosa degli stessi giorni – c’è finita Luisa Muraro, che stavo scandagliando.

Guardandoli bene mi sono resa conto che il retaggio femminista qui era talmente forte da rovesciarsi nel tema. Come annunciavo, sono testi che ho ritoccato. A posteriori mi chiedo: si può fare? Si può lavorare a un testo in direzione femminista? A me è successo, ma quanto del lavoro era cosciente? Mi sono accorta abbastanza chiaramente della cosa a distanza di mesi, dopo aver attribuito due titoli in un certo senso polari e che a me appaiono giusti. Non sono gli unici testi con cui mi è capitato, ma parliamo comunque solo di un paio. Forse anche questo tipo di addensamento, di stratificazione (meglio se imponderabile, mi sembra) può essere una via di fare femminismo in versi scritti. Ma credo ci voglia il lavoro giusto in un momento talmente propizio, che non si dà spesso, anzi.

Di fatto qualche testo è arrivato. Con essi, tante tante domande, qualche scoperta e qualche nuova convinzione. Per le solite paure, viene voglia di lasciare giacere tutto ciò a uno stadio di materia opaca, di esperienza muta, e lasciare fuoriuscire giusto qualche considerazione provvisoria e sommaria. Il cerchio si chiude solo nel libro, nella mia realtà si riapre. È così azzeccata la metafora della pasta sfoglia. Interrogativi e proposte in divenire, questo, mi sembra, è quello che posso formulare per ora. C’è qualcosa che sta lavorando.


[1] Si dovrebbe discutere, certo, anche della formulazione “essere femminista” in luogo di “fare femminismo”: non è solo una variazione linguistica, tocca il rapporto tra identità e pratica.

Poesia e deindividuazione: su alcune tendenze delle scritture contemporanee

In questo contributo, Riccardo Socci riformula alcune questioni che ha già trattato durante un intervento nell’ambito del seminario Poètes-critiques dell’Università di Aix-Marseille e, soprattutto, nel saggio “Modi di deindividuazione” (Mimesis 2022), estendendo i limiti temporali dell’analisi, che in quello studio si fermavano sulla soglia degli anni 2000, ai nostri giorni.

Perché deindividuazione?

Come ho spiegato in maniera più distesa altrove, la preferenza che ho accordato a questo termine rispetto ad altri spesso usati nell’ambito della poesia lirica italiana dell’ultimo Novecento (come desoggettivazione o spersonalizzazione) è dovuta sostanzialmente a due riferimenti: il primo è Le radici dell’io di Charles Taylor – saggio fondamentale, a mio giudizio, per inquadrare la questione dell’io e del soggetto della poesia moderna –, nel quale il filosofo canadese pone un principio di individuazione alla base della costruzione del concetto moderno di soggetto e soggettività nella cultura e nella filosofia occidentali; il secondo riferimento è la celebre formula di Adorno, secondo cui il genere lirico si configurerebbe come il luogo in cui il poeta “spera di conseguire l’universale attraverso un’individuazione senza riserve”.

Che cosa intendo con deindividuazione?

Nelle mie intenzioni, questo termine non vuole delineare una categoria circoscritta ed esclusiva, ma un insieme variegato di fenomeni e di tendenze che attraversano diacronicamente buona parte della poesia italiana del Novecento[1] e che, a partire dagli anni ’80 e ’90, si manifestano a mio modo di vedere in maniera sempre più chiara.

Questi fenomeni riguardano da un lato i contenuti (l’aspetto forse meno interessante), dall’altro la forma. Sul piano contenutistico, riconduco alla deindividuazione tendenze e temi come l’eclissi dell’io empirico del poeta (e quindi dell’autobiografismo), l’ostentazione della marginalità del soggetto poetante, l’alienazione e l’estraneazione della prima persona, l’inconsistenza della sua identità, il carattere frammentario della sua esperienza nel mondo. Com’è evidente, questi sono discorsi che caratterizzano in vari modi molta poesia italiana del Novecento, dai crepuscolari in avanti.

Sul piano della forma e dello stile, possiamo invece rintracciare costanti quali la rimozione (totale o parziale) dell’io poetico, ossia della prima persona quale soggetto dell’enunciazione, il ricorso a “formule di debolezza conoscitiva” e a “interposte persone”[2], l’uso sistematico di pronomi personali indefiniti e di verbi impersonali e, più in generale, meccanismi testuali atti a relativizzare continuamente il discorso svolto del soggetto.

Si tratta di costanti che, combinate in maniera diversa da autore a autore, emergono con particolare evidenza nella poesia (e specificamente nella lirica) italiana degli anni’80 e ’90, ad esempio nei lavori di Mario Benedetti o Umberto Fiori. Questi poeti, come altri della generazione dei nati fra anni ’50 e ’60, sembrano in effetti negare la sintesi adorniana in due modi, fra loro complementari: in alcuni casi viene meno il principio stesso di individuazione, e la lirica cessa di essere un discorso dell’io, o abolendo del tutto la prima persona o adottando un soggetto dell’enunciazione impersonale e privo di tratti identitari e distintivi; in altri casi, l’individuazione ha luogo con riserva, ovvero soltanto se accompagnata da una serie di strategie discorsive atte a metterne in mostra la natura soggettiva, e dunque la parzialità.

A mio giudizio, il periodo compreso fra anni ’80 e ’90 rappresenta davvero uno spartiacque: la fine, sempre più definitiva, della tradizione centrale del nostro Novecento poetico e dei suoi paradigmi (il “classicismo lirico moderno”, come lo definisce Guido Mazzoni) ha comportato cambiamenti intervenuti nello statuto stesso di genere del discorso lirico. Questi cambiamenti hanno coinvolto in particolare la questione fondamentale del soggetto della poesia, un soggetto che già tra anni ’50 e ’60, com’è noto, era entrato in crisi: da un lato, in maniera esplicita, nelle opere della Neoavanguardia (la “riduzione dell’io quale produttore di significati”, secondo la formula di Alfredo Giuliani, e la “spersonalizzazione della scrittura” di cui parla Lucio Vetri), dall’altro, in maniera meno evidente ma più articolata – e per questo, a mio avviso, più interessante –  in quelle di autori ancora legati a un’idea tutto sommato tradizionale di poesia, come Vittorio Sereni, Amelia Rosselli, Giorgio Caproni o Mario Luzi.

L’importanza della Neoavanguardia, in particolare nel confutare quel principio di sovrapponibilità tra poesia e lirica di matrice romantica, è un dato ormai acquisito e ampiamente storicizzato. Tuttavia, com’è stato già fatto notare[3], se consideriamo la logica che sorregge il discorso letterario, il lavoro della Neoavanguardia non appare essere così innovativo rispetto a quanto avevano già fatto le avanguardie storiche in Italia e in Europa. Una differenza importante riguarda però gli effetti che i due movimenti sono riusciti a ottenere: mentre le seconde hanno segnato un momento di rottura circoscritto, che di fatto ha preceduto la stagione più importante della lirica novecentesca italiana, i primi hanno determinato davvero un’estensione decisiva e irreversibile del campo della poesia, giungendo nel momento in cui quella stagione stava ormai volgendo al termine e un nuovo periodo della storia della poesia italiana stava iniziando. Tra le varie cose, a mutare era stato innanzitutto il contesto dal punto di vista della sociologia della letteratura.

I cambiamenti di cui parlavo prima, intervenuti nel corso degli ultimi vent’anni del Novecento, vanno interpretati anche (forse soprattutto) come una forma di reazione a circostanze mutate, e in particolare alla perdita definitiva del mandato sociale del poeta, del suo ruolo istituzionalmente e pubblicamente riconosciuto, di cui molto si è già discusso.

C’è la consapevolezza, insomma, da parte degli autori di non potere più attuare nella scrittura poetica in generale e in quella lirica in particolare, il genere che per definizione e tradizione costituisce il discorso privato e idiosincratico di un io, quell’individuazione senza riserve di cui parlava Adorno. Questa presa di coscienza ha comportato una crisi che ha investito innanzitutto il soggetto stesso della poesia, determinando in alcuni autori una vera e propria fuoriuscita, almeno sul piano pronominale, dalla prima persona – penso ad esempio ai primi libri di Umberto Fiori.

Per arrivare ai nostri giorni, mi sembra che molte scritture poetiche contemporanee, liriche e non soltanto, partano proprio da questa domanda: come rientrare nella soggettività (o quantomeno, in una soggettività) in maniera credibile e non ingenua?

Chiaramente questo non è un discorso che vale per tutti. Molti autori si trovano ancora benissimo in posture oracolari e ipersoggettive, aggrappate al “mito delle origini” di cui parla Gianluigi Simonetti e ai riti magici della parola poetica, oppure in testi smaccatamente lirici, ingenuamente (o peggio, maliziosamente) espressivi o confessionali. Molti autori, in sostanza, non si pongono affatto il problema di come dire “io”, o del perché il lettore debba ascoltare la voce di questo io che gli parla degli affari propri, delle proprie idiosincrasie, delle proprie trasfigurazioni, e va bene così. Ma la mia simpatia di lettore non va per questo tipo di scritture, che mi sembrano del tutto anacronistiche e che pure, se consideriamo il totale dei libri di poesia pubblicati oggi in Italia, rappresentano ancora l’ampia maggioranza.

Allo stesso modo, però, in molti casi non mi entusiasmano quelle scritture poetiche che rinnegano in assoluto e a priori la soggettività, preferendo all’espressione della prima persona – o comunque di una qualche forma di voce individualizzata – la pura “mimesi della schizofrenia” collettiva del nostro tempo (per riprendere le parole dello stesso Giuliani), dell’impersonalità del linguaggio dal quale siamo parlati, dell’intercambiabilità e dell’insensatezza delle nostre esistenze private e così via. In buona sostanza, quelle scritture vocate all’oltranzismo che scelgono l’orizzontalità, l’omologazione e la neutralità di linguaggio e stile per rappresentare l’orizzontalità e l’omologazione della nostra società, l’apparente neutralità dei rapporti di forza che la governano o delle vite che gli individui conducono al suo interno. Mi sembra una limitazione autoimposta, troppo stringente e asfittica, sul piano stilistico, delle possibilità della scrittura, che rischia in molti casi di risolversi in un mero atto combinatorio, ripetibile all’infinito, e che aggiunge poco o nulla all’esperienza di mondo che già faccio.

Dove va la mia preferenza di lettore?

In estrema sintesi, per quelle scritture che mantengono vivo un certo grado di intenzionalità dell’autore, di soggettività del personaggio che prende la parola nel testo e del linguaggio e dello stile che usa per esprimersi. Quelle scritture, insomma, che, rifiutando l’idea anacronistica e postuma della poesia come pura espressione del sé, costruiscono forme di soggettività nuove attraverso un continuo atto di mediazione, di relativizzazione dello stesso soggetto poetante. Ecco, con deindividuazione intendo in sostanza questo tentativo che ha luogo nella scrittura poetica, e che si realizza sul piano formale e tematico secondo i modi che descrivevo brevemente all’inizio.

Qualche esempio testuale potrà forse essere utile a precisare il discorso.

Se, come detto, la prima persona egoriferita e autobiografica della lirica tradizionale non occupa più il centro della scena, possiamo chiederci quale sia il ruolo del soggetto poetico in questo tipo di scritture contemporanee. Sicuramente non è il portatore di esperienze eccezionali o esemplari (una postura, questa, che oggi sarebbe ridicola); piuttosto, è un individuo estroflesso che condivide una visione e un’esperienza parziali, estremamente limitate (quando non del tutto indeterminate), ma non per questo necessariamente insignificanti. Una delle costanti di molte scritture è quindi lo sdoppiamento (in certi casi la moltiplicazione) e la frammentazione del soggetto, che si guarda da fuori perché sa che non può correre il rischio di assolutizzare il proprio discorso, sprofondando in sé stesso, di esercitare la propria “fantasia dittatoriale”, secondo una formula di Friedrich, come avviene nella cosiddetta poesia pura, simbolista, ermetica, orfica, neo-orfica ecc. Questa fuoriuscita dall’io, rintracciabile in opere anche molto diverse fra loro (da quelle più liriche a quelle più vicine a un grado zero della scrittura), assume di frequente una connotazione esplicitamente metapoetica:

Guardo le nuvole sopra di me, sono un’idea,
sono l’immagine di un intero che mi sovrasta,
vedo me stesso come qualcuno che coglie
l’immagine di un intero dentro le nuvole che lo sovrastano.
[G. Mazzoni, La pura superficie, 2017]

Vorrei disfarmi dell’io è la moda che prescrive la critica
ma la povertà è tale che possiedo solo un pronome. […]
Alla fine torno all’io che finge di esistere,
ma è una busta come quelle usate per la spesa
piena di verdura o pesce surgelato.
Io con l’io mi nascondo.
[A. Anedda, Historiae, 2018]

Ho sedici anni.
Questa bestia che ho dentro in qualche modo deve uscire.
Ho zero anni.
Perdo i denti. A volte anche i capelli. Mi smarrisco nei labirinti. Sono su una macchina che non so guidare e mi vado a schiantare. La folla. Cado col lettino dal ballatoio della nonna. Non sono in picchiata ma il letto si disfa progressivamente fino a quando l’unica protezione contro lo schianto è la mia impronta sul materasso. Polvere e cenere in turbini. Mi va malissimo il compito in classe di matematica che devo svolgere.
Ho ventisei anni.
Ho molta paura. Giorni senza soluzione, senza fine. Come se il mondo fosse finito.
Ho ventisette anni.
Mi sono buttata dalla finestra: tre mesi di sedia a rotelle con le ossa rotte, prova solo a immaginarti la rabbia di una che si vuole ammazzare e resta imprigionata.
[P. S. Dolci, Diario del sonno, 2021]

Rendendosi conto che la propria esperienza di mondo non ha nulla di eccezionale o di esemplificativo, il soggetto della poesia cessa perlopiù di collocarsi al centro della scena, che spesso viene occupato da personaggi diversi dall’io. In molti casi, chi prende la parola esplicita la distinzione fra io empirico e io lirico (il legame fra questi due io cessa di svolgere una funzione normativa proprio fra anni ’70 e ’80), e si identifica di frequente con il ruolo di autore, più che quello di protagonista, esercitando nei testi la propria funzione normativa e intervenendo nel discorso come farebbe una sorta di narratore, più che un io lirico tradizionale:

Sono uscito a camminare verso il mare, ma devo negarlo
perché ero uscito e in realtà quasi subito
ho incontrato un platano e mi tocca di scriverlo,
anche se scrivere è di più che raccontare,
anche se raccontare è già difficile,
anche se il difficile è rientrare
a scrivere del platano,
a raccontare il platano
senza averlo davanti,
cercando di ricordare […].
[S. Dal Bianco, Ritorno a Planaval, 2001]

L’autrice si domanda
se sarà possibile parlare
della morte
senza parlare di dolore […].

Credo che verrò meno
a quel mio proposito iniziale;
non possiamo fingerci eterni […].

L’io è uscito
forse dal canale orale e la figura pare
ora tanto leggera, di carta.
Eppure non manca niente al corpo
è tutto ancora dentro,
uguale a prima, sì, ma spento.
[M. Lotter, Atlante di chi non parla, 2022]

In altri casi, il soggetto dell’enunciazione si identifica con figure marginali, o mescola la propria esperienza a quelle di molti altri personaggi, secondo un’impostazione del tutto orizzontale, creando effetti deindividuanti pur senza rinunciare a un grado minimo di soggettività del discorso, ossia rispettando l’inevitabile triangolazione fra scrittore, testo e lettore – laddove la lirica ipersoggettiva pretende di annullare l’ultimo, mentre la scrittura forzatamente impersonale, tendente a un grado zero della comunicazione, vorrebbe fingere che il primo non esista:

Collins che resta a orbitare sul Columbia mentre Armstrong e Aldrin scendono verso la Luna e lui li fotografa con la Terra sullo sfondo, in un’immagine che contiene l’umanità presente, passata e futura, tutti i vivi e i morti tranne lui, Collins, che parla con la radio e cerca conforto a Houston, fino a quando la massa della Luna si interpone tra lui e la Terra tagliando il collegamento e lasciandolo solo come nessun altro essere umano è mai stato tranne i sepolti vivi […]; Collins, il terzo astronauta, quello che pochi conoscono, quello che non è mai stato veramente sulla Luna, come gli verrà ricordato in tutte le interviste del futuro […]. Parlavo della possibilità che lei morisse, della paura, della non-paura che questa idea mi suscita, come se non appartenessi mai veramente, come se non amassi mai qualcosa per intero […].
[G. Mazzoni, Scatola nera, 2023]

Per un anno, quando ne hai trentadue, ti improv­visi imprenditore nel comparto dolciario, hai otte­nuto la qualifica di operatore edile alle strutture, ti sei fatto una posizione. Sei un esperto di taglio cabochon, di cloisonné e di archeologia indu­striale – hai pescato in un fiumicello uno storione mostruoso. Di fianco a te, nel bagno pubblico, il vecchio Humbert ha lasciato l’orinatoio sporco di sangue. Sei in coma farmacologico a seguito di un intervento d’emergenza, allettato in ospedale in una città che non conosci. 
Ti sei soffocata con un boccone in un’angurieria, procurata un ascesso al fegato o un enfisema su una petroliera. Soffri di un’affezione sconosciuta, sei cianotica, esanime. L’anomala secrezione di sostanze ormonali nel tuo organismo ha denunciato una recente insorgenza tumorale: stai morendo poco più che cinquantenne per una malattia che non lascia scampo; hai com­prato una djellaba come la volevi tu in un bazar in cui non entravi da anni, gettato con un’alzata di spalle il tuo grembiule guajiro…
[A. Broggi, , 2024]

Le voci in stazione si accumulano
in un modo che ti sovrasta in uno spazio
che non sai contenere. La torre è troppo alta
le mura si sono moltiplicate. Non sappiamo
parlare, intendo con questo entrare disarmati
nel vuoto, superato il primo inganno elementare.
L’impressione di riconoscersi è un fossile da cui
soffi via la terra la polvere. Una voce sola
lampeggia: non superare la linea gialla.
[S. Branca, Interferenze, 2024]

Un’ultima tendenza, per me molto significativa, riguarda i modi di costruzione del contesto enunciativo. Come ha illustrato Bernardelli[4], quello lirico tradizionale è un discorso che si svolge “in presenza”, ovvero assumendo aprioristicamente la presenza del lettore all’interno della scena enunciativa; facendo insomma finta che il lettore sia davvero lì, accanto al soggetto che parla. L’uso dei deittici che caratterizza l’incipit dell’Infinito di Leopardi è un caso esemplare: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle / e questa siepe”. Se ci trovassimo all’interno di una situazione comunicativa normale, le prime domande che sorgerebbero spontanee sarebbero: quale colle? Quale siepe? Chi parla nel testo di Leopardi finge che il lettore sia presente lì accanto, che veda lo stesso paesaggio e che stia condividendo la stessa esperienza della prima persona.

In molti testi contemporanei avviene invece il contrario. Non essendo più la presenza di un lettore garantita, il soggetto costruisce la situazione e il contesto enunciativi mentre parla o, meglio, dopo avere iniziato a parlare. È un modo, a mio avviso, di cercare un piano condiviso di incontro con il lettore stesso, senza pretendere che l’altro da sé entri “senza riserve” all’interno del mondo del soggetto, senza esercitare in maniera ingenua e dittatoriale la propria fantasia, senza imporre all’altro, in nome di una supposta oggettività del discorso, la propria visione del mondo:

Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.
Ho freddo, ma come se non fossi io.

Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come un suo spessore.
[M. Benedetti, Umana gloria, 2004]

La strada è accidentata. Piove. Stiamo entrando nel paesaggio e cominciamo a distrarci camminando: a volte pensiamo a una persona in particolare, altre volte è solo l’idea di una persona. Seguiamo puntualmente il percorso: cosa c’è di fronte a noi? La linea azzurra di un corso d’acqua riflette le prospettive, la visuale si schiarisce. Non smettiamo di ridere, la cosa più importante per noi è che succeda qualcosa. […] In uno scenario che chiameremo “il paesaggio” è notte. Non ci interessano i dettagli geografici né qualsiasi specifica localizzazione, progrediamo attraverso la vegetazione. […] Cominceremo parlando sinceramente: non riuscivamo a uscire per strada a causa dell’eccesso di informazioni. Ogni persona che incontravamo o che vedevamo era un nuovo mondo possibile, una biografia in corso.
[A. Broggi, Noi, 2021]

La costruzione del contesto enunciativo, all’interno del quale ha luogo la comunicazione, è dunque un atto che spesso viene condiviso con il lettore nel testo, non prima. L’idea che tutti abbiano visto il mondo (il Natale, il parco, la strada) come lo ha visto il soggetto dell’enunciazione, nel suo modo parziale e individuale, non può essere data per scontata: con questa consapevolezza della propria parzialità è necessario fare i conti, pena l’ingenuità.

Tornando alla domanda iniziale – perché deindividuazione, e non desoggettivazione?–, la risposta, a questo punto, potrà forse essere più chiara: in questo insieme di scritture contemporanee, a volte anche molto diverse fra loro per forma e stile, a venire meno non è la soggettività, ma quel principio di individuazione che, stando a Adorno, dovrebbe caratterizzare in poesia il soggetto che prende la parola.

La poesia contemporanea che più mi interessa e mi appassiona come lettore non rinuncia al soggetto: lo problematizza, lo relativizza, lo attraversa. Rifiuta la verticalità del discorso esemplare e onnisciente, ma al contempo non rinnega la possibilità di una voce. Cerca di costruire forme plurali, parziali e non totalizzanti di esperienza (ma non per questo prive di senso), uno spazio di relazione con il lettore che può esistere solo quando chi comincia a scrivere esplicita innanzitutto la propria posizione nel mondo.


[1] Per una ricostruzione storica più completa e articolata di ciò che chiamo deindividuazione rimando al saggio citato all’inizio.

[2] Enrico Testa, Dopo la lirica (2005) e Per interposta persona (1999).

[3] Si veda ad esempio Carlucci: https://www.nazioneindiana.com/2013/03/11/note-sullinfluenza-della-neoavanguardia-italiana/

[4] Giuseppe Bernardelli, Il testo lirico. Logica e forma di un tipo letterario (2002).

 

Note su Hahaha Bring Me Back di Anna Tierney

di Eugenia Delbue, Caterina Dufì, Eleonora Negrisoli, Caterina Profico

Giovedì 24 ottobre 2024, è andato in scena ad Atelier Sì Hahaha Bring Me Back della danzatrice e performer Anna Tierney – apertura della residenza artistica nell’ambito del progetto Artists in Residensì in collaborazione con il programma Nouveau Grand Tour, ideato e concepito dall’Istituto di Francia in Italia (IFI).

Aperte le porte, il palco è vuoto, salvo per alcuni fogli scritti al computer sul pavimento e, come poi si scopre, anche altrove. Sul fondale nero si staglia un grande schermo su cui verrà proiettato in forma scritta il testo pronunciato in francese, sottotitolato in italiano. Anna entra in scena e si sdraia, piedi al pubblico, rivolta verso il foglio più distante. Indossa una tuta in acetato da palestra. Inizia la musica, composta da Dimitra Sofroniou, e poco dopo la voce di Anna amplificata. 

Anna si muoverà, per circa 30 minuti, soltanto per passare da un foglio all’altro e leggere il suo contenuto. È il testo che Anna e Antoine Dupuy Larbre, dramaturg del lavoro, hanno scritto quasi interamente durante le due settimane di residenza, ridisegnando parte della storia personale di Anna per creare una figura fittizia che evocasse, attraverso il suo racconto, temi come la costruzione dei corpi, l’emergere del desiderio, l’adolescenza e la formazione, l’identità, la classe sociale di provenienza, l’orientamento sessuale – questioni che la circondano, senza che lei ne sia completamente consapevole. 

Questo articolo raccoglie alcuni estratti del testo di Anna Tierney, accompagnati da altre voci scritte da Eugenia Delbue, Caterina Dufì, Eleonora Negrisoli e Caterina Profico, immagini, canzoni.

Ringraziamo Anna Tierney per averci consentito di pubblicare il suo testo e di aprire finestre di immaginazione su Hahaha Bring Me Back. Anna continuerà a lavorare al progetto e a portarlo in scena. Questo autunno sarà in residenza a Tarbes, grazie al supporto di TRAVERSE, Cie SANS6T e Scène Nationale de Tarbes, con un esito aperto al pubblico presso Le Parvis (Scène Nationale Tarbes Pyrénées).

* La traduzione del testo francese di Anna Tierney è a cura di Elena Strappato, Eugenia Delbue e Caterina Dufì.
La traduzione del testo di Melissa Febos (Questa mia carne. Scrivere di sé come atto radicale, Nottetempo 2024) è a cura di Federica Principi.
Nel testo si fa riferimento anche a: Kathy Acker (Against Ordinary Language: The Language of the Body, 1993) e Yukio Mishima (Sole e acciaio, 1970).

Il femminismo è negli occhi di chi guarda: feminist gaze e immaginari letterari secondo Azélie Fayolle

Le parole dei vivi | Intervista a cura di Marta Olivi e Alessandro Farris

© Les Créatives, Roxane Gray

Nel voler compiere un necessario passo avanti dal concetto di “femminile” a quello di “femminista” – sia in ambito letterario (quella “letteratura al femminile” che ancora infesta certi inserti del weekend) sia in quello critico (l’ormai superata ginocritica degli anni Ottanta) – ci troviamo di fronte a una distinzione sottile ma fondamentale. È proprio da qui che prende le mosse Scrivere femminista (Nero, 2024; traduzione di Laura Marzi) di Azélie Fayolle, un libro che ci invita a ragionare sulla letteratura femminista non in quanto espressione di autrici donne, ma in quanto spazio di elaborazione politica e critica, capace di sfuggire all’essenzialismo di genere e alla riduzione del corpo a unico luogo del politico.

Fayolle, accademica francese e divulgatrice, propone uno sguardo capace di tenere insieme la materialità dell’esperienza soggettiva e corporea con l’urgenza di superarla come destino. Lo chiama feminist gaze: uno strumento critico fluido, situato, non neutro e non riservato all’accademia, che legge i testi – letterari e non – interrogando forma, postura e potenziale, più che contenuti esplicitamente femministi. Un approccio che invita a praticare letture nuove, condivise, trasformative.

Nel libro, questa prospettiva si traduce in un coro di voci che inventa una lingua e uno stile capaci di far circolare lo sguardo femminista nella letteratura, ripensando anche i luoghi della produzione e della trasmissione del sapere: l’editoria, la scuola, gli spazi critici. Abbiamo avuto modo di discuterne direttamente con Fayolle in occasione della presentazione bolognese di Scrivere femminista, il 27 febbraio al Centro delle donne, in dialogo con Gloria Baldoni e Francesca Massarenti di Ghinea. L’intervista che segue ripercorre i nodi principali del suo lavoro: dallo sguardo alla materialità, dai luoghi della cultura alla tensione utopica verso ciò che ancora non esiste – ma che potremmo iniziare a immaginare.

Primo tema: IL “GAZE” DELLA CRITICA.

Ciao Azélie! Tu nel libro lavori molto con il concetto di una critica femminista, un “feminist gaze”, da indossare in moltissimi contesti diversi, per leggere libri e guardare film a prescindere dallo stile più o meno femminista dell’opera. Proprio per questo motivo, il “feminist gaze” può essere applicato a qualsiasi tipo di testo e di narrazione. Il concetto di gaze è stato anche molto discusso nella presentazione del libro e ci piacerebbe ora iniziare proprio da qui. 

1) C’è una differenza tra il “feminist gaze” del critico (accademico o militante che sia) e del lettore più casuale? Tra la critica di professione e quella che, dici tu nel tuo saggio, si fa davanti a una birra conviviale dopo aver visto un film con le proprie amiche?

È una domanda davvero importante, che mi sono posta da quando ho pubblicato questo libro sul “feminist gaze”. Mi sono resa conto recentemente che, in effetti, il movimento che si trova sia nel pubblico che nell’accademia è lo stesso. Ho cercato di proporre una sovversione dello sguardo maschile e un’alternativa a uno sguardo femminile. Ora sto lavorando su una teorizzazione più scrupolosa dello “sguardo”. Non credo che ci sia una separazione netta tra il pubblico e l’accademia, né una diretta ascendenza di quest’ultima sull’altro, ma piuttosto una costruzione condivisa di conoscenze e concetti – con funzioni e status differenti, ovviamente. Alla fine, tutti possono prendersi una birra dopo il film…

2) Pur non volendoci addentrare nell’annosa questione della “morte dell’autore”, praticando il “feminist gaze” si può parlare di una specie di “inconscio femminista” à la Jameson? O sarebbe ciò che Sedgwick chiama paranoid reading?

Questa è un’altra domanda importante per cui non sono sicura che ci sia una risposta davvero chiara: il tutto si riduce alla convinzione che ci sia una sola verità in un testo, il che presuppone una lettura teologica della “scoperta”. Questo è ciò a cui Barthes mette fine con “la morte dell’autore” costringendoci ad accettare che non ci può essere certezza. Adotto una posizione formalista col fine di proporre uno strumento (“sguardo femminista”) e di cercare di migliorare questo strumento collettivo per interpretare i testi. Il formalismo è originariamente un movimento che rifiuta la dimensione politica dei testi. Per me, questa è una grave negligenza, se non un errore. Vedo questa scelta (includere la dimensione politica nella lettura dei testi, N.d.t) come una scommessa, che il pubblico in realtà sta chiedendo (vedo spesso richieste riguardo alla categorizzazione delle opere: le persone vogliono poterle interpretare senza fare riferimento solo alle analisi di ricezione). Questo è ciò che mi piacerebbe vedere: strumenti per aiutare le persone a interpretare e dibattere le opere!

Secondo tema: MATERIALITÀ – DELLA LETTERATURA, DEI CORPI E DELLE CONOSCENZE.

Al di là dell’approccio critico e teorico che guida il discorso che porti avanti nel libro, nel corso della lettura emerge con urgenza la necessità di fondare l’analisi su una solida base materiale, di stampo ontologico. Durante la presentazione ti sei anche definita “epistemocritica”, in movimento tra scienza e letteratura, dal momento che ti sei occupata, per esempio, del ruolo delle scienze naturali nell’opera di Ernest Renan.

3)  Ti chiederei dunque, come entra il corpo nell’epistemologia? Cosa ne pensi dell’ontoepistemologia che sta entrando di recente negli studi femministi, sulla scorta di Karen Barad e molte altre, che parte anch’essa, come fai anche tu, dalla premessa dell’importanza dello sguardo che plasma ciò che è visto, in maniera simile alla tua idea di feminist gaze, che rifugge l’obiettività e cerca il pluriprospettivismo?

Devo confessare che non ho ancora esplorato le possibilità dell’onto-epistemologia – è ancora un lavoro in corso… Personalmente, sono piuttosto diffidente riguardo lo scrivere sul corpo, cosa che è molto creativa e importante, ma che corre il rischio di essenzializzare le identità sulla base dei corpi. Penso di condividere la reticenza di Beauvoir riguardo al corpo: è per questo che ho preso una direzione opposta, non partendo dal corpo (come potrebbe fare la fenomenologia), ma facendone un tema, una tappa, in un possibile percorso femminista (e includendo trasformazioni, felici o meno). In ogni caso, sono sempre più convinta, come dite voi, dell’importanza del pluralismo prospettico, che ci permette di muoverci verso una forte obiettività e forse, nella letteratura, anche verso una forte empatia. Ora sto facendo un passo ulteriore: non considero più (in francese) lo sguardo come incarnato, ma conservo la parola in inglese per disincarnarlo e aprire i limiti del concetto il più possibile.

4) Come possiamo incarnare questo feminist gaze non solo nella critica dei testi ma portandolo anche dalla parte della produzione e della messa in luce di voci marginalizzate? Come passare quindi dalla teoria alla prassi sia nel mondo dell’editoria che nella divulgazione (come fai tu con il tuo canale Youtube)? Come possono questi ruoli “satellitari” influenzare la produzione della letteratura?

Questa è una delle ragioni per cui ho scritto questo libro: nella speranza che possa contribuire a un rinnovamento generale della produzione. Certamente non voglio vincolare la creazione. Al contrario, penso che sia il momento di aprire nuove porte, di tracciare nuovi sentieri. Non credo che ci sia un metodo definito (come se la critica accademica fosse una serie di istruzioni!), ma piuttosto un grande ribollire, senza un luogo necessariamente definito. Non esistono la creazione da una parte e la critica dall’altra… questo è anche ciò che ora comprendo riguardo al concetto di “sguardo”: fin dall’inizio è stato un concetto ibrido e plasmato tanto dal pubblico quanto dall’accademia. Certo, è passato del tempo… ma meno di quanto si pensi, se si guarda a ciò che accade anche ai margini della produzione commerciale, nella fan fiction, nelle fanzine, nell’arte performativa… le possibilità sono numerose!

Terzo tema: IL CANONE, LA SCUOLA, L’ACCADEMIA.

A proposito di prassi, il canone, con il suo portato e il suo peso politico, ha un ruolo centrale all’interno di spazi, come la scuola o l’accademia, che dovrebbero invece lavorare sulla sua decostruzione. Ovviamente si tratta di realtà che hanno una storia fortemente compromessa con i sistemi di potere che hanno portato al consolidamento un canone maschile, e che quindi richiedono un lavoro enorme per arrivare a una decostruzione anche minima, sia a livello di programmi di insegnamento che di pratiche didattiche e di trasmissione della conoscenza.

5) Partendo anche dalla tua esperienza personale come ricercatrice, come pensi che si possa piegare il canone scolastico alla volontà del docente che adotta un gaze femminista? L’insegnante dovrebbe mediare in questo senso tra la decostruzione del pensiero ciseteropatriarcale e lo spazio, necessariamente complesso e talvolta distante da queste istanze, in cui avviene la decostruzione, ovvero la classe (universitaria o scolastica) e l’istituzione? E poi, come (se è legittimo) plasmare lo sguardo di chi apprende?  

Sono molto preoccupata per la questione del canone e dei programmi, che in Francia sono fortemente centralizzati: i programmi per il baccalauréat una volta erano indicativi, ma ora prescrivono opere specifiche (come insegnante, puoi scegliere solo da un numero ristretto di opere, e gli studenti non scelgono nulla). I programmi universitari sono più decentralizzati, ma comunque validati dal Ministero. Gli esami di concorso per l’insegnamento si basano su programmi specifici, e le cose diventano sempre più ristrette con ogni riforma… Vorrei anche sottolineare che è difficile fare a meno di un canone letterario. E se non è stabilito dall’accademia, chi lo stabilirà? Il mercato? Il canone ci consente anche di condividere un patrimonio comune (questa una volta era la funzione delle epiche). Penso che dovremmo tenere a mente questa importanza memoriale collettiva quando riflettiamo sul canone e su cosa implicherebbe liberarsene.

Vuol dire che non possiamo fare nulla? La libertà pedagogica è attualmente sotto attacco in tutto il mondo (la Francia non fa eccezione), ma è ancora possibile analizzare (purché si rimanga nel quadro dei metodi della disciplina) e insegnare il pensiero critico. Come femminista (e semplicemente come critica letteraria), si può analizzare un testo che contiene uno sguardo maschile e violenza, sia che sia oscurato o estetizzato. Questo non significa necessariamente decostruire il canone: significa comprendere e combattere la dominazione.

6) La critica femminista è per forza situata, come dici anche tu nel primo capitolo del libro, dove affermi che hai costruito il tuo canone di letture femministe, includendo i nomi che abbelliscono la copertina dell’edizione italiana situandoti “sulle spalle delle giganti”. Ti sei fatta (e ti fai) influenzare da amiche, studenti o altro per costruirlo? La domanda si ricollega alla precedente perché si potrebbe riflettere anche su pratiche di costruzione del canone che rifuggano da un approccio più rigido e accademico, e di conseguenza su pratiche alternative di costruzione e consolidamento del sapere!

Sì! Ho trovato la maggior parte dei miei riferimenti femministi, sia letterari che critici o teorici, al di fuori degli ambienti accademici… da sola, esplorando blog e siti web, attraverso amici, ascoltando figure femministe, ma raramente a scuola o nelle aule universitarie… Adoro anche andare a caccia di libri nelle librerie. Certo, ora applico metodi accademici per trovare riferimenti in modo più sistematico, ma ci sono sempre cose che sfuggono (specialmente quando cerchi narrazioni invece di temi), e sono sempre molto felice di ricevere consigli di lettura da amici e familiari, o a volte da iscritti (ma rifiuto per lo più i press services, con cui non mi trovo molto a mio agio).

Quarto tema: PROSPETTIVE UTOPICHE E IMMAGINIFICHE.

Fondamentale all’interno del libro è l’idea del potenziale immaginifico della scrittura femminista e delle sue potenzialità creative. La tematica della fiction e della “letteratura di genere” è strettamente connessa all’idea che il fantastico possa diventare portatore di diversità e alterità.

7) Nel libro si parla di come la fiction, il fantastico, l’horror e il grottesco siano quindi strumenti capaci di dare alla scrittura femminile e femminista lo spazio in cui immaginare possibilità di senso inedite e al di là dei limiti epistemologici del ciseteropatriarcato. Questo tipo di scrittura, caratterizzato da una spinta utopica che può prendere forme diverse, è identificabile come una reazione al contesto più ampio in cui si muovono e scrivono le autrici prese in esame nel libro o ha invece una sua specificità, una sua creatività innata?

Non so se sia possibile distinguere un utopismo reazionario da un utopismo innato… in ogni caso, non è possibile pensare all’emancipazione al di fuori dell’oppressione quando siamo immersi in essa (perà l’antropologia e la storia ci permettono di conoscere altre società, non necessariamente senza oppressione, ma le cui combinazioni sono almeno diverse, o meno oppressive). Anche nell’utopismo, sono diffidente nei confronti di ciò che viene costituito come un’essenza… In questi giorni, comincio a interrogarmi sul modo in cui i pensieri teorici e di fantascienza si mescolano, a volte in modo molto sottile. La domanda, in definitiva, è come pensare e creare al di fuori degli schemi, come inventare. Forse la risposta è collettiva, e forse richiederà tempo: non possiamo pensare al mondo di domani per farlo esistere, ma possiamo facilitare il suo arrivo.

8) A proposito di questo tema, qual è invece il rapporto dei testi di non-fiction e della testimonianza con le prospettive utopiche di cui si parlava? Come si può arrivare a costruire un’utopia a partire dal potenziale trasformativo del personale, del privato e della testimonianza di oppressione e una violenza totalizzanti?

Nel libro, intendo il testimone femminista come una trasgressione della teoria delle sfere separate, che isola (artificialmente, ma fermamente) il pubblico dal privato. Testimoniando la loro sofferenza, e in particolare la violenza sessuale che subiscono, le donne commettono una trasgressione che viene percepita come indecente (e che spesso è commentata come tale, per lamentarsene, per difendersi: questi commenti mostrano che questa trasgressione non è data per scontata e costituiscono una messa in scena di questa trasgressione). In sé, si potrebbe pensare che in queste testimonianze non ci sia altro che realtà fattuale, il cui carattere autobiografico è spesso assunto come ovvio. Ora credo che l’utopia possa trovarsi ovunque, anche prima che le persone comincino a parlare: è stata l’utopia a guidare la fede delle prime femministe francesi, le sansimoniane, quando hanno cominciato a parlare del loro dolore; lo hanno fatto perché pensavano che sarebbero state ascoltate e che avrebbero potuto correggere il mondo. Questo non porta necessariamente a una vita migliore, o a un mondo senza violenza, ma a un movimento verso quel mondo.

Domandina finale:  Per concludere, su cosa stai lavorando al momento? Hai altri libri in cantiere o dei progetti legati al tuo  canale youtube (https://www.youtube.com/@ungraindelettres)?

Per il momento, continuo con il canale, con un video a settimana e interviste di tanto in tanto: è un bel po’ di fatica, ma serve come supporto, come bozza per il resto del mio lavoro. Sto finendo di scrivere un seguito a questo primo libro. Voglio riprendere il concetto di sguardo in generale e proporre, più che una tipologia chiusa, dei criteri per identificare le oppressioni (con lo sguardo maschile) e le emancipazioni nelle opere. Ho appena saputo che sono stata ammessa al CNRS in Francia: quindi, la mia ricerca proseguirà nelle migliori condizioni possibili! Spero di riuscire ad ampliare la mia comprensione delle pensatrici femministe, in particolare dell’Ottocento, e di continuare a esplorare come possiamo scrivere e pensare ad altri mondi…

Il lato nascosto della violenza. Una conversazione con Dimitris Lyacos

a cura di Toti O’Brien.
Con un’appendice a cura della redazione di Almanacco.

Già apparsa in «The Common», 8 luglio 2024, con il titolo Violence and Its Other

Finché la vittima non sarà nostra di Dimitris Lyacos uscirà per Il Saggiatore il prossimo 29 aprile. Si tratta, secondo l’autore, di un “libro zero” da anteporre all’ormai celebre trilogia Poena Damni, che ha per protagonista un uomo in fuga ma non spiega da chi, da cosa, da dove stia scappando, omettendo di definire il passato, rivelando solo le cicatrici residue. Sarà il libro nuovo a tracciare una mappa dell’universo pre-fuga, il quale – come sorprendersi? – non è altro che la civiltà occidentale, di cui Lyacos ci fornisce sia uno scavo archeologico che una panoramica aerea (a partire dalle origini giudaico-cristiane, attraverso industrializzazione e capitalismo, fino alla digital-globale era presente).

Nonostante si stesse recando in Israele e in Cisgiordania quando gli ho proposto questa intervista, Lyacos ha accettato di svolgerla durante il viaggio. Gliene sono particolarmente grata.

Toti O’Brien:La società che evochi, alternando voci di leader e seguaci, vincitori e vinti, è intrisa di violenza concetto controverso, diversamente inteso a seconda dei punti di vista. Solo a partire dagli anni Sessanta, ad esempio, si è iniziato a discutere di violenza psicologica, di violenza istituzionale. A tali questioni sono stati dedicati fiumi d’inchiostro che non hanno inciso molto, però, sull’opinione comune. L’atto di rompere una vetrina durante una protesta è tuttora ritenuto più violento dei secoli d’abuso che ne sono la causa. Il tuo nuovo libro esplora la dialettica tra violenza visibile e violenza invisibile, tra aggressione fisica e manipolazione nascosta, nelle sue pieghe più intime. Secondo te, che cos’è la violenza se la si spoglia degli abiti di scena? Come la definisci dal tuo punto di vista?

Dimitris Lyacos: “Arrecare danno attraverso l’uso della forza” potrebbe essere una definizione adeguata. Tuttavia, sebbene la violenza sia in genere connessa alla forza fisica, quest’ultima non deve necessariamente esprimersi in forma attiva. Negligenza deliberata e omissione possono essere altrettanto nocive. Pensa al supplizio di Tantalo: era immerso in uno stagno da cui non poteva bere e l’albero che gli cresceva accanto sfuggiva alla presa quando tentava di raccoglierne i frutti. Non subiva alcun tipo di “forzatura”. La natura, al contrario, lo evitava, come fosse a conoscenza delle sue colpe. Questo esempio eccede l’ambito mitologico… Pensa a quanti divieti d’accesso incontrano individui e gruppi di classi subalterne nelle società attuali: i mega supermercati e i centri commerciali non sono certo fatti per i meno abbienti…  Possono risultare loro tanto inaccessibili quanto i grandi saloni dei castelli lo erano per i servi che lavoravano i campi. I nostri sistemi socioeconomici contemplano varie forme di esclusione, di cui la mancanza di accesso a prodotti e servizi è forse la più benigna.

L’esclusione, del resto, è espressione archetipica di violenza dai tempi della Bibbia: Dio non punisce corporalmente Caino per l’assassinio del fratello, ma lo “priva della sua presenza” condannandolo a quella Poena Damni (titolo della trilogia) che comporta la perdita della visione divina, dell’aiuto “paterno”, la caduta dalla grazia e il conseguente abbandono in un mondo ostile quello che un genitore impietoso farebbe a suo figlio. Tali forme di crudeltà non sono invenzioni umane. Le troviamo anche nel mondo animale. Ad esempio, tra i pesci gatto è stato osservato ostracismo verso gli esemplari albini, mentre Jane Goodall ha raccontato come gli scimpanzé evitino individui malati o estranei al gruppo. Ma il merito di elevare l’esclusione a metodo punitivo primario senz’altro ci appartiene. Per tornare a Finché la vittima non sarà nostra, esclusione e violenza fisica sono entrambe presenti dall’inizio. Quel che chiamo il frammento pre-iniziale descrive una scena cruenta. Il capitolo A, subito dopo, introduce espulsione ed esilio: la terra di Nod, in cui la violenza diventa un indispensabile mezzo di sopravvivenza.

T.O.: Stai esponendo temi essenziali che il tuo libro affronta in modo a volte velato e più spesso diretto. Tutti hanno radici nel passato, ma appartengono senza dubbio anche al nostro presente. La violenza-negligenza evoca inevitabilmente il problema dei residui tossici, che non nomini, eppure sfigurano in modo inequivocabile i paesaggi che descrivi nel libro. La violenza-deprivazione è oggi una forma di tortura legale: una delle scene più intense di Finché la vittima non sarà nostra si svolge in un carcere di massima sicurezza, offrendone uno squarcio indimenticabile. Mi ha colpito il fatto che il libro indichi l’espulsione come “castigo originale”: sembra che l’idea di casa e quella di esilio siano letteralmente nate insieme. La violenza che descrivi spesso consiste nel proibire alle vittime l’accesso a certi luoghi e nell’imporre loro la permanenza in altri, definendo dove hanno o non hanno il diritto di essere. Esodi, diaspore e genocidi derivano da tale principio, ma anche ghetti e prigioni, reali o virtuali.

Metaforicamente (i capitoli sono identificati dalle lettere dell’alfabeto) e non solo, il libro implica forme di collusione tra violenza e linguaggio. Le parole possono ampliare il campo d’azione della violenza e accelerare il suo progresso. L’abuso crea sempre le proprie narrative. Cosa ci puoi dire in proposito? In che modo il linguaggio serve la violenza?

D.L.: Il linguaggio è un sistema simbolico, uno dei tanti. Sono tutti connessi con la violenza? C’è violenza, ad esempio, nella logica, nella matematica? Forse no, a meno che un insegnante non ci forzi a impararle. In tal caso, però, l’imposizione emana dall’individuo, non dalla disciplina. Tuttavia dobbiamo accettare un tipo di coercizione interiore o esteriore per poter imparare, cioè per essere “formati”. Apprendere comporta un ordine esterno a cui aderire. Nell’allegoria della caverna Platone insiste sul fatto che liberarsi da pregiudizi e false credenze è un processo violento. Penso sia per questo che alcuni di noi non amano la scuola. Per apprendere qualsiasi cosa, linguaggio incluso, il soggetto deve obbedire alle regole, come direbbe Wittgenstein. La violenza in quest’ambito non presuppone aggressione, ovviamente, solo forza. Il soggetto è forzato a (o si sforza di) aderire a un sistema e alle norme che esso comporta.

Qui potresti obiettare: un momento, non hai detto che violenza è ciò che arreca danno? In che modo può nuocerci il fatto di assimilare una struttura simbolica e partecipare a un sistema?

Rousseau ti direbbe che un tempo eravamo nobili selvaggi e la civiltà ci ha corrotti. Il mio punto di vista è diverso: quando entriamo a far parte di un ordine, di un sistema, rinunciamo in suo favore alla nostra parcella, al nostro “diritto alla violenza”. Il sistema se ne impadronisce, riassegnandone l’uso secondo i propri intenti. Al suo interno la violenza è presente, ma astratta. Non le serve manifestarsi concretamente. È l’essenza stessa dello Stato: Κράτος in greco significa Forza/Potere, parola senza dubbio violenta, che ricorda il carattere omonimo nel Prometeo incatenato di Eschilo (il compagno di Βία, Violenza).

È possibile allora che la violenza abbia effetti positivi? Sì e no, direi. Nel corso delle sue camaleontiche metamorfosi che il libro in parte esplora può apparire innocua o nociva a seconda dei punti di vista. Mi chiedo se lo Stato, qualora avesse una coscienza, considererebbe dannoso il monopolio della violenza o se invece riterrebbe (polizia inclusa) che ordine e controllo siano salutari e provochino soltanto un male necessario. Eccoci al punto di partenza: i sistemi, anche quelli simbolici, sono inerentemente costrittivi. Plasmano, modellano, formano: esistono per questo.

T.O.: Quando parli di “assimilare” è immediato pensare al vissuto degli immigrati, per i quali aderire a nuove norme linguistiche è l’unico modo di capire cosa esige e cosa prescrive la cultura di arrivo. Solo assimilando le sue norme, infatti, si può sperare di essere a propria volta assimilati o almeno tollerati.

Il tuo libro sorprende il lettore per l’estrema versatilità espressiva. Coloro che rappresentano Κράτος, come ovvio, sono sistematici e logici nelle loro verbalizzazioni. Quelli che sono incatenati come Prometeo si esprimono altrimenti, attraverso monologhi onirici e frammentari che evocano indimenticabili diari della Shoah. Cosa ci puoi dire del loro linguaggio, delle loro voci?

D.L.: Sono appena tornato dal Museo Storico dell’Olocausto di Yad Vashem al mio alloggio nella zona Ovest di Gerusalemme. Le parole delle vittime, le loro testimonianze e i diari mi risuonano ancora nella testa. Storie di “dentisti” che estraggono denti ai morti prima che siano gettati nei forni, gente che ancora respira dopo essere stata gassata per venticinque minuti. Una donna anziana racconta di essere sopravvissuta, a sette anni, perché arrampicandosi su un muro di corpi è riuscita a uscire dal pozzo. Semplici e scarni resoconti fattuali, incapsulamenti rudimentali dell’orrore in un linguaggio che non ammette ulteriori approfondimenti. Non c’è tempo per elaborazioni linguistiche quando la tua massima aspirazione è quella di tenere a bada la fame in tali circostanze la retorica è irrilevante. È significativo invece che il termine “Shoah” sia emerso nella conversazione: nella Bibbia appare nel libro di Zephaniah che si ritiene abbia particolarmente influenzato l’inno cattolico medioevale Dies Irae – e da lì viene il senso di catastrofe che lo caratterizza. In Zephaniah è menzionato il “giorno di Dio”. All’inizio del primo capitolo la voce divina ripete tre volte: “Egli sterminerà, consumerà uomini e bestie”. Nel secondo capitolo c’è una profezia della distruzione di Gaza: Γάζα διηρπασμένη ἔσται.

Alla fine della mia visita a Yad Vashem sono passato dal guardaroba al piano seminterrato. C’erano zaini sul pavimento e, a fianco, fucili messi ad angolo retto per formare un quadrato, poi un altro quadrato sovrapposto, poi un altro. Una torre di un metro, geometrica e precisa. I soldati che come noi avevano visitato il museo, seguendo attentamente la guida attraverso le gallerie, sono entrati a riprenderli. Li ho guardati bene: ragazzi ebrei, una o due ragazze. Mi chiedo cosa resterà loro di questo incontro con la brutalità cieca della storia, cosa penseranno questi giovani armati delle mani stanche e disperate che hanno scarabocchiato vane parole come ultimo segno di speranza. Non lo so, ma credo che la violenza continuerà a perpetuare sé stessa. Credo che impariamo a fatica, a prescindere dal linguaggio in cui ci giunge la lezione.

T.O.: Il tuo libro sembra dirlo a voce alta… che il ciclo della violenza non ha fine. Lo pensi davvero? La “meno danneggiata” dei tuoi personaggi (la bambina che ha perso il padre) prega nella speranza di ritrovarlo, ma nessuno risponde. Alla fine del libro il protagonista contempla la fuga, ma non lo vediamo scappare, ancor meno arrivare in un luogo che possa chiamare “casa”. Dunque, anche se ribellione e resilienza sussistono, forse non prevarranno.

È questo che vuoi dire? Se invece interrompere il ciclo è un obiettivo possibile, dov’è l’anello debole della catena? Se il linguaggio non può aiutarci (ma davvero non può?) che alternativa abbiamo?

D.L.: Siamo studenti pigri del passato e la sofferenza ci scivola addosso, eppure siamo riusciti a limitare le forme convenzionali di violenza. All’inizio, i livelli statistici di violenza tra umani erano uguali a quelli che esistevano tra gli altri primati: 2%. Nel corso della storia sono diminuiti e oggi sono nettamente minori. Ciò è probabilmente dovuto all’avvento di nuove organizzazioni socio-politiche: negli odierni Stati-società la violenza letale è scesa quasi all’1%. Naturalmente questi numeri hanno un significato parziale. Riguardano soltanto gli omicidi. Dimostrano che, sebbene la nostra specie sia filogeneticamente predisposta alla violenza, la cultura però può in parte limitarne gli effetti. Con un po’ di ottimismo possiamo sperare che li annulli del tutto. Il problema è che la violenza si incarna subdolamente in forme sempre nuove, continua a trasformarsi e moltiplicarsi. Ma ammettiamo di riuscire ugualmente a controllarla: l’altro giorno ho avuto l’onore di essere invitato a un tour privato della nuova Biblioteca Nazionale di Israele. Un piacevole esempio di architettura minimalista-postmoderna, le curve dell’edificio si distendono a incontrare lo sguardo. L’interno è calmo e accogliente: silenzio, spessi tappeti, una colonna di luce con attorno una scala… La colonna ricorda quella che guidò Mosè nel deserto, la scala a spirale ascende verso il cielo. Al seminterrato, milioni di libri che i robot organizzano in perfetto silenzio. È questa la risposta? Il mondo trasformato in una simile biblioteca e noi, lettori calmi e pensosi, sensibili e profondi, collegati da onde di informazione, conoscenza e persino saggezza? Quali prerequisiti, che tipo di “coordinazione” sarebbe necessaria per produrre tale idillico super-organismo? A cosa dovremmo rinunciare? Forse ai conflitti interni che albergano nella nostra psiche? Al nostro io privato, abitato dall’intero spettro delle emozioni animali? In contrasto penso alle stradine del Monte degli Ulivi a Gerusalemme Est, il quartiere arabo in cui fu arrestato Cristo, animato, sporco, con i suoi rumori, le voci, gli odori inconsueti, caotico e creativo. Qual è il senso? Dove dirigersi? Nel capitolo Z di Finché la vittima non sarà nostra il personaggio non fugge da una società “organicamente violenta”. Al contrario, le forme tradizionali di violenza sono state espunte e il problema è risolto. Cos’è che non funziona? Perché si alza e va via?


APPENDICE A CURA DELLA REDAZIONE

Il genocidio in corso a Gaza e la violenza subita dalla popolazione palestinese negli ultimi due anni non sembrano avere fine. La promessa di pace, annunciata per gennaio 2025, è stata disattesa con il riavvio dei bombardamenti da parte di Israle questo 18 marzo. L’intervista di Toti O’Brien, realizzata a luglio 2024, è seguita da due domande della redazione di Almanacco, poste a marzo 2025. Alla luce dell’evoluzione drammatica degli eventi e dell’importanza del tema della violenza nell’opera di Dimitris Lyacos, ci è sembrato necessario riprendere la riflessione su quanto sta accadendo in questi territori.

Redazione. Posto il dominio della violenza. C’è, credi, una differenza nell’uso della violenza da parte dei vinti e dei vincitori? Sono diverse forme dello stesso tipo di violenza, o due violenze diverse? Pensiamo alla descrizione che fai della Biblioteca di Gerusalemme, dove la creatività è scomparsa, e non possiamo non pensare alla violenza che ora si svolge ai danni della vicina Gaza, laddove sembra che la violenza continui a mutare forma da decenni, al limite del mancato riconoscimento da parte di molti.

DL. È esattamente così. Gli inglesi, quando qualcosa costa troppo, sono soliti dire: It costs an arm and a leg, “costa un braccio e una gamba”. I ristoranti in Israele, specie a Tel Aviv, sono molto cari – “costano un braccio e una gamba”. Il confronto con la realtà infernale oggi ci porta a riconoscere che evidentemente un braccio e una gamba di una bambina di Gaza ci costano di meno. Infatti i ristoranti continuano a essere affollati, a Tel Aviv come da noi. In un certo senso la risposta a questa domanda è implicita in ciò che ho detto nell’intervista in merito alla violenza passiva. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si era posta la questione se i tedeschi conoscessero quello che succedeva nei campi di sterminio. C’è stato un dibattito. Qui non c’è nessun dibattito. Sappiamo tutti. E siamo tutti complici.

Redazione. Le atrocità che si stanno consumando in Palestina, in particolare a Gaza, sono causate dalla violenza fisica dei bombardamenti e della distruzione, come da una continua deprivazione dei diritti fondamentali, una violenza che perdura da molto prima degli eventi del 7 ottobre 2023. Questa realtà potrebbe essere interpretata come una forma di ‘violenza invisibile’, come quella che esplori nel tuo lavoro? E in che modo questa violenza si relaziona con l’attuale escalation del conflitto, che sembra non conoscere fine?

DL. Come ho detto, è una violenza del tutto visibile. Sappiamo tutti. Diventa invisibile in quanto la nostra passività la mette da parte, quando trasformiamo noi questa violenza in una forma di “noise” che accompagna le nostre vite, in maniera più o meno presente. La sofferenza è lì, ma ognuno di noi sceglie se e come integrarla nel sistema della propria vita personale. Mi viene in mente l’ultimo film di Aki Kaurismäki, Foglie al vento: in varie occasioni i due protagonisti, assillati dai propri problemi, si imbattono negli aggiornamenti dei bombardamenti su Mariupol’. Ascoltano per qualche secondo e poi cambiano la frequenza della radio, continuano la loro vita. Il film lascia aperta la domanda, non fa capire se questi problemi che vengono da lontano li riguardino in qualche modo. Il “noise” della sofferenza lontana diventa un rumore di fondo nelle loro vite. Poi vanno avanti. Sembra che tutti noi, ciascuno a suo modo, riusciamo a metabolizzare le atrocità se non ci riguardano personalmente, a immunizzarci da esse. Quando ci vengono vicine, allora è un’altra cosa. Il mio traduttore israeliano, Ioram Melcer, dopo aver terminato qualche mese fa la traduzione di Finché la vittima non sarà nostra, l’ha presentata a un importante editore israeliano. L’editore non ha apprezzato. “Il libro è molto violento” ha commentato (cosa, naturalmente, non vera). Succede purtroppo che siamo arrivati al punto in cui la rappresentazione della violenza disturba più della violenza stessa, perché tramite la sua rappresentazione la violenza non riesce più a rimanere invisibile o ignorata. E quando non si può più ignorare, non si riesce a mangiare con calma nel ristorante la sera, c’è qualcosa che disturba l’ordine desiderato, come ne Il fascino discreto della Borghesia di Buñuel.


Nota biografica

Dimitris Lyacos (Atene, 1966) è scrittore, poeta e drammaturgo. La trilogia Poena Damni, iniziata trent’anni fa e concepita come un eterno work in progress, è una delle opere più note e rispettate della letteratura europea contemporanea e lo ha reso uno degli autori più significativi del nostro tempo (inserito nel Who’s Who, il database che raccoglie le biografie delle persone più importanti in tutti i campi dell’attività umana). Rinomata per lo stile provocatorio e la combinazione innovatrice di elementi che provengono tanto dalla tradizione letteraria quanto dall’ambito della religione, della filosofia, dell’antropologia, l’opera di Lyacos riesamina il corpus narrativo del canone occidentale nel contesto di alcuni dei suoi motivi più duraturi, in particolare la violenza, la malattia mentale, la redenzione, il capro espiatorio, il ritorno dei morti. Completata nel corso di trent’anni, è stata tradotta in più di venti lingue e ha ispirato creazioni musicali, visive e teatrali. Alcuni capitoli tratti da Finché la vittima non sarà nostra – il “grado zero” della trilogia, che uscirà in anteprima mondiale in Italia a fine aprile per Il Saggiatore – sono stati recentemente pubblicati in inglese su alcune tra le più importanti riviste americane: «MAYDAY», «Image Journal», «River Styx» e «Chicago Review».

Toti O’Brien, nata a Roma e residente a Los Angeles dall’inizio degli anni ’90, è autrice di quattro raccolte di poesia e tre di prosa.  Alter Alter, una raccolta di racconti, è stato pubblicato  da Elyssar Press nel 2024. O’Brien collabora con riviste specializzate nei settori di arte, cultura e società. Traduce testi letterari dall’italiano, dallo spagnolo e dal francese.

“Una margherita sboccia nel campo del Merz”: Cinque poesie di Margret Kreidl

Introduzione e traduzioni a cura di Marta Maria Ricci

Nata a Salisburgo, Margret Kreidl vive a Vienna dal ’96. È autrice di poesia e prosa, scrive per la radio e per il teatro. Ha collaborato con il collettivo “Rhizom”, con numerosi scrittor*, artist*, musicist*, e alla creazione di installazioni in spazi pubblici. Dal 2015 insegna presso il Max Reinhardt Seminar di Vienna.

Kreidl ha partecipato a residenze d’artista in Germania, Serbia e Svizzera ed è stata visiting professor negli Stati Uniti; ha ricevuto numerosi premi e sovvenzioni per il suo lavoro, tra cui l’Elias-Canetti-Stipendium della città di Vienna (2016-17), il Robert-Musil-Stipendium (2017), l’Outstanding Artist Award per la letteratura della Cancelleria federale (2018), il premio per la letteratura della città di Vienna (2021) e nel 2024 il premio H. C. – Artmann.

I testi presentati qui di seguito sono tutti inclusi in Mehr Frauen als Antworten. Gedichte mit Fußnoten [Più donne che risposte. Poesie con note a piè di pagina], la più recente raccolta poetica dell’autrice, pubblicata nel 2023 con Edition Korrespondenzen (Vienna).

Il titolo del libro ricalca il modo di dire, che è poi un confronto quantitativo, “mehr Fragen als Antworten”, l’equivalente tedesco letterale dell’italiano “più domande che risposte”. Un intervento minimo – la sostituzione di una sola lettera – cambia tutto, e “Fragen” diventa “Frauen”, donne. Ed è così che molti testi poetici della raccolta sembrano procedere: per assonanze, consonanze, somiglianze foniche e scarti semantici. Quello che Kreidl instaura con la lingua è rapporto giocoso, dinamico. Le poesie sono vivaci, sembrano avere un carattere mobile, una flessibilità, e sono spesso imprevedibili; da una riga all’altra le immagini volgono nel surreale, gli accostamenti sono inattesi, eppure a chi legge sembrerà di capire, stupendosi.

Sicuramente inconfondibile è il tono delle poesie, l’acume, il Witz. L’essenzialità e la concisione dei testi, asciutti, limpidi, diretti, la massima condensazione semantica, la scelta di lessico che si direbbe semplice, comune, sono cifre stilistiche che strutturano la raccolta, la quale è piuttosto una composizione coerente e coesa, con un suo sviluppo; da raccordo alcuni motivi e colori risuonano in contesti diversi, creando una rete di connessioni, paralleli, variazioni e contrasti.

Caratterizza inoltre Mehr Frauen als Antworten una certa varietà tematica. Una molteplicità di esperienze umane trova voce nei versi e li informa: un sogno, un ricordo, un fatto di cronaca, una notizia di attualità, una cartolina, un incontro, un onomastico, una foglia, tante letture e immagini. Tra le pagine compaiono sia uomini che donne: Lucia Joyce, ma anche Silvio Berlusconi. Così Kreidl ci mostra che tutto può essere materiale poetico, tutto può essere filtrato e trasfigurato, mutarsi e addensarsi in un bel pezzetto d’oro; che la poesia è qualcosa di vicino, accessibile, reale, che viene dalle frequentazioni della vita, anche quotidiana – e che è una pratica, ed è normale che come tutti gli artisti pure i poeti abbiano i loro “materiali”: ex nihilo nihil fit.

Una particolarità di questa raccolta poetica è la presenza di quelle che l’autrice nel sottotitolo identifica come note a piè di pagina, una per ogni testo. Non numerate e nello stesso carattere e dimensione delle poesie, non sono, com’è consuetudine nella letteratura scientifica, una parte esterna, disgiunta dal testo, in cui si indicano fonti, si forniscono informazioni aggiuntive, ulteriori riferimenti d’approfondimento e spiegazioni. Le note assolvono qui solo in parte queste funzioni, e sono a tutti gli effetti parte integrante dei testi poetici: vi sono menzionati scrittori e artisti, titoli di libri, articoli di giornale, opere d’arte; si possono intendere come commenti a posteriori, ripensamenti ironici che testimoniano anche l’umorismo ricco di sfumature di Kreidl, o sono postille, frasi a chiosa della poesia che seguono, talvolta indizi sulla scintilla dell’ispirazione, la scaturigine di un’immagine, rivelando così segreti del processo creativo; a volte “localizzano” il testo, lo inseriscono in un contesto… Si può scegliere di leggerle o no, leggerle subito o alla fine, andare a verificare ogni riferimento, interrogarsi su possibili nessi. Certo è che questo libro consente al lettore di esercitare la sua mitschöpferische Tätigkeit (attività co-creativa), come la chiamava Ingarden – lettore dal cui contributo attivo dipende la costruzione del significato. Le note a piè di pagina in definitiva tengono aperto lo spazio della poesia affinché si possa leggere ulteriormente, cercare, interpretare, incuriosirsi, ragionare – intento chiaro anche nel titolo, che, è vero, esclude la parola “domande” ma non intende indebolirle, al contrario lasciarle aperte, suggerire che c’è sempre qualcosa che eccede le risposte.


Der Sänger singt von einem Bett im Gras

und einem weißen weißen Arsch.

Der Mond ist gelb, der Klee schmeckt süß.

Der Sänger spielt mit Hand und Füßen:

Für eine Dame braucht man mehr als

einen Schlüssel. Ein Ring aus Glas, ein Kranz

aus Margeriten, Duft von Lindenblüten,

ein Lied mit Reimen, Mond und Arsch in einer Zeile.

Minne hat keinen Sinn, in der blauen Stunde

ist die Dame grün, sagt Walther von der Vogelweide,

die Halme blühn, das Wasser rinnt, die Fische

schwimmen im Gras. Hier ist mein Lied zu Ende,

der Sänger lacht, ich habe von der Welt getrunken,

schön wars, du bist als nächster dran,

ich steig jetzt in den Brunnen.

Cantarai d’aquestz trobadors

sang von den tolpatzen troubadouren

Peire D’Alvernhe, Uljana Wolf, Schreibheft 89/2017.

Il cantore canta di un letto nell’erba

e di un culo bianco bianco.

La luna è gialla, dolce il sapore del trifoglio.

Il cantore suona con piedi e mani:

per una signora non bastano

le chiavi. Un anello di vetro, una corona

di margherite, profumo di fiori di tiglio,

una canzone in rima, luna e culo sulla stessa riga.

L’amor cortese non ha senso, nell’ora azzurra

la signora è verde, dice Walther von der Vogelweide,

gli steli crescono, l’acqua scorre, i pesci

nuotano nell’erba. Qui finisce la mia canzone,

ride il cantore, ho bevuto dal mondo,

è stato bello, tu sei il prossimo,

adesso entro nel pozzo.

   

Cantarai d’aquestz trobadors

sang von den tolpatzen troubadouren

Peire D’Alvernhe, Uljana Wolf, Schreibheft 89/2017.

Gestern habe ich um dein Gesicht getrauert –

was für ein Charakter!

Heute hast du ein anderes Gesicht.

Es ist also wahr:

Das Gesicht von gestern steigt in den Himmel auf.

Ein heller Moment:

Die Wolken reißen ein Loch ins Gesicht.

Wolkenlicht,

Lichtbüschel,

Büschelentladung:

Das Gesicht ist wolkig aufgewühlt,

durchlichtet.

Bertolt Brecht, Erinnerung an die Marie A., 1920.

Ieri ero tanto afflitta per il tuo viso –

straordinario!

Oggi hai un altro viso.

E allora è vero:

il viso di ieri se ne va in cielo.

Un momento terso:

Le nuvole ti strappano un buco sul viso.

Luce fosca,

lampi di luce,

scarica di lampi:

il viso inquieto, annuvolato

traluce.

Bertolt Brecht, Ricordo di Marie A., 1920.

Eine Margerite blüht im Merzrevier,

ich liebe dir und du liebst mir,

du heißt Hase, ich heiße Schatz,

wir nehmen auf der Wiese Platz,

die Sonne tropft ins grüne Gras,

zehn gelbe Tropfen und einer ist elf,

gelb ist die Farbe deines Fells,

dein Name schmeckt nach Karamell,

du süßes heißes Tier, vergiss dich und die

rührenden, weiblichen, die reinen,

die einsilbigen und die unreinen Reime,

du bist mir einer und ich bin deine

von vorne und von hinten,

oben, unten, ohne Titel, hier:

deine Margarete blüht im Merzrevier.

Kurt Schwitters, Ohne Titel (Sich öffnende Blüte), Gips bemalt, 1942/1945.

Una margherita sboccia nel campo del Merz,

io amo a te e tu ami a me,

tu sei lepre, io sono tesoro,

ci sediamo sul manto erboso,

il sole gocciola sul prato verde,

dieci gocce gialle e una fanno undici,

giallo è il colore del tuo vello,

il tuo nome sa di caramello,

tu dolce bestia calda, dimentica te stessa e le

rime toccanti, femminili, quelle pure,

le rime monosillabe e quelle impure,

per me tu sei il solo e io sono tua

da davanti e da dietro,

sopra, sotto, senza titolo, qui:

la tua margherita sboccia nel campo del Merz.

Kurt Schwitters, Senza titolo (Fiore che sboccia), gesso dipinto, 1942/1945.

Ich erinnere mich an das Licht

zwischen den Bäumen. Der Wind

ist der Wind in meinen Haaren.

Ich weiß, dass ich ein Gesicht habe.

Ich rede mit meiner linken Hand.

Eine Antwort bleibt aus.

Ich reite auf einem Schaf durch das Haus.

Ein Haus kommt zum andern.

Ich zähle mich in das Wir hinein.

Wir spielen das lange Spiel.

Es ist sieben Uhr früh.

Ich bin mit meinem Mund allein.

Augusta Laar, MITTEILUNGEN GEGEN DEN SCHLAF. Träume, Lieder, Skizzen, 2021.

Mi ricordo la luce

tra gli alberi. Il vento

è il vento tra i miei capelli.

So di avere un volto.

Parlo con la mano sinistra.

Nessuna risposta.

Cavalco una pecora per la casa.

Una casa va incontro all’altra.

Mi considero parte del “noi”.

Giochiamo al gioco lungo.

Le sette di mattina.

Sono sola con la mia bocca.

Augusta Laar, MITTEILUNGEN GEGEN DEN SCHLAF. Träume, Lieder, Skizzen, [COMUNICAZIONI CONTRO IL SONNO. Sogni, canzoni, schizzi], 2021.

Er nannte mich eine Landschaft,

es fehlte das Wort Asphalt,

wir tanzten auf einer Ansichtskarte,

bis es hell wurde. Die Luft war blau,

als er sagte: Rehbraune Augen

hat mein Schatz. Ich habe seinen

Namen vergessen. Es war Sommer.

Das Schwimmbad war eine Baustelle.

Ich musste den Kran zusammenfalten.

Eine Ansichtskarte von Thalgau mit Naturschwimmbad, Kirche und Trachtenmusikkapelle.

Diceva che ero un paesaggio,

mancava la parola asfalto,

danzammo su una cartolina,

finché non fu giorno. L’aria era blu

quando disse: occhi di cerbiatto

ha il mio tesoro. Ho dimenticato

il suo nome. Era estate.

La piscina era un cantiere.

Ho dovuto smontare la gru.

Una cartolina di Thalgau con piscina naturale, chiesa e banda musicale tradizionale.

Frontiere

editoriale a cura di Riccardo Innocenti.

Frontiere è una rubrica mensile a cura di Francesco Brancati, Riccardo Innocenti e Riccardo Socci che raccoglierà interventi scritti da poet3 che sono stat3 invitat3 a riflettere sulla loro opera in relazione all’orizzonte delle scritture contemporanee. I contributi si concentreranno su questioni formali e teoriche come: libro-progetto e raccolta; prosa e versi; cut up e riscrittura; poesia e fotografia; la vergogna della poesia; lirica e transfemminismo; espressivismo e saggismo; ecfrasi; poesia e pedagogia. Sono argomenti noti e noi non ci poniamo l’obiettivo di esaurirli, vogliamo invece proporre uno spazio in cui ragionare sulle forme che diamo ai nostri testi e sulle poetiche che motivano le nostre scelte.

La poesia tende all’ autoreferenzialità e allo specialismo, fatto che assumiamo senza autoindulgenza e senza arrampicamenti retorici e ipocriti. Non ci interessa capire come continuare a ri-funzionalizzare la poesia per renderla un mero veicolo di ‘pensierini’ o dell’azione politica. Rivendichiamo invece il nostro interesse per la letteratura come fatto estetico che non necessita di essere legittimato dalla sua spendibilità sociale. 

L3 poet3 affronteranno quindi le problematiche della scrittura di oggi in riferimento alla propria opera e a quella altrui. Abbiamo richiesto delle riflessioni critiche spontanee e libere, sicuri della possibilità di arricchimento che può derivare da un confronto su temi troppo spesso oggetto di discorsi retorici e riti esausti.

Pensiamo che la dimensione politica, esistenziale, speculativa  della scrittura debba essere sostanziata da un ricerca sulle forme e siamo convinti che la migliore poesia sia sempre accompagnata dal tentativo di rispondere a problemi formali e teorici. Per questi motivi abbiamo concepito la rubrica Frontiere come un laboratorio che offra una riflessione collettiva su ciò che facciamo in quanto poet3: scrivere.

La riflessione sui fenomeni che interessano la scrittura e il gesto che la produce deve per forza di cose tenere in considerazione il contesto in cui questa nasce, non perché sia doveroso ma perché non può fare altrimenti. Non vogliamo quindi ripudiare tutto ciò che sta fuori dal testo e che comunque è spesso oggetto di rubriche valide e riflessioni che apprezziamo.

Tuttavia è ormai evidente che il discorso ‘critico’ proposto dalle riviste online,  dalle presentazioni o dai semplici post sulle piattaforme social, si sia spostato dalla lettera al concetto. Le opinioni che stanno dietro al testo sembrano giustificare la sua esistenza più che motivarlo. Un fenomeno che, amplificato dalle possibilità autofittive dei social, comporta in poesia la riproposizione di pose istrioniche che speravamo di esserci lasciate alle spalle. La speranza è che, fuori dall’occhio di bue sotto il quale qualcuno si contende a colpi di virtue signaling le briciole di quel che resta di una civiltà letteraria, si possa discorrere più liberamente.

Chi progetta una rubrica pensa anche a un pubblico al quale rivolgersi. Ci immaginiamo di dialogare con un pubblico potenzialmente indifferenziato, ovviamente quello delle persone interessate alla poesia. Vorremmo dare a questa rubrica un taglio personale, procedendo secondo il nostro gusto e senza avanzare pretese universalistiche che difficilmente riusciremmo a rispettare.

Chi non è alle prime armi ha imparato che in un contesto di produzione ristretta come quello della poesia solitamente si ragiona secondo un criterio ‘amichettistico’, il quale garantisce la pace e il fluire di legittimazioni reciproche. Questo equilibrio frutta solo recensioni lodevoli o innocue, perché colpiscono una persona morta alla poesia (leggi: Franco Arminio) o una fazione notoriamente avversa. Noi proveremo a privilegiare i nostri gusti e le nostre idiosincrasie, prendendoci la libertà di coinvolgere persone che secondo noi hanno qualcosa di interessante da dire. Cercheremo di scoraggiare discorsi che evitano di affrontare onestamente il lavoro della scrittura, stimolando invece riflessioni sui compromessi che quotidianamente dobbiamo fronteggiare.

Scrivere significa mediare fra ciò che ci viene naturale, ciò a cui puntiamo idealmente e quello che il nostro pubblico può accettare. Possiamo gestire questo compito con più leggerezza grazie alla legittimazione di chi occupa una posizione forte nel campo letterario, oppure percorrendo una strada sicura, aperta e battuta da altr3 prima di noi. La collaborazione e la stima disinteressata di un gruppo di pari, invece, permette di avanzare nell’orizzonte, comprendendo verso quali frontiere conducono le vie che stiamo percorrendo e quali strade ci sono ancora precluse.

Gli amori emarginati: un’antologia poetica di Pino Pograjc

Introduzione e traduzioni a cura di Giorgia Maurovich

Pino Pograjc (1997, Lubiana) si è laureato in inglese e letterature comparate presso l’Università di Ljubljana. È cresciuto a Kamnik, dove ha letto per la prima volta le sue poesie davanti a un pubblico in occasione di gare di slam poetry, vincendo diverse volte.

Nel 2022 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie, Trgetanje (unione dei termini trganje, strappo, e drgetanje, brivido), per cui ha vinto il premio per il miglior esordio letterario al 38° Salone del Libro sloveno. Nel 2024 è uscita la sua seconda raccolta, Trepete (anch’esso un gioco di parole con trepetaje, trepidazione, e repete, bis, a richiamare per assonanza il titolo dell’opera prima) con la quale si è aggiudicato il premio Mlado pero.

Nella sua poesia Pograjc si concentra sulle sfaccettature della sua identità e delle sue esperienze con approccio confessionale e diaristico: scrive della sua sessualità, della sua diagnosi di schizofrenia paranoide, dell’essere figlio di un padre alcolizzato e di una madre sopravvissuta al cancro. La sua poetica è attenta alla creazione di circostanze in cui predomina l’intento di immedesimazione, che restituisce al lettore uno spaccato di quotidianità di categorie spesso rimosse dal discorso pubblico, come i malati o i pazienti psichiatrici, o a cui sono stati preclusi accesso e compartecipazione all’immaginario letterario.

Troviamo così versi che raccontano, con enfasi sull’elemento dialogico-narrativo, più che su quello visivo, l’infanzia e l’adolescenza nella cittadina di Kamnik, la complessa situazione familiare, che rispecchia una realtà sottaciuta ma condivisa da gran parte della sua generazione, i resoconti crudi e al contempo teneri dei ricoveri in reparto, dove alla freddezza e alla violenza del personale ospedaliero Pograjc oppone la trasparenza della sua volontà testimoniale e l’empatia dei rapporti intessuti con i degenti; infine, l’educazione sentimentale e sessuale in un contesto rurale, in cui l’esistenza di un tipo diverso di mascolinità stride con le aspettative e le consuetudini sociali.

L’io lirico opera allora su due fronti: quello della narrazione, a restituire la fedeltà della sua esperienza nel modo più rarefatto e attento alle emozioni possibile, ricorrendo anche a immagini scabrose a spregio di ogni politica del decoro; e quello della lingua, sempre più sperimentale nell’inserimento di incisi, apostrofi, allitterazioni e scomposizione delle parole in sillabe e assonanze frammentarie, elemento ormai di punta nelle raccolte e nei testi successivi all’esordio, che consolidano la posizione di Pograjc sulla scena letteraria come una delle figure di spicco della letteratura queer.

È grazie al lavoro portato avanti negli scorsi decenni da nomi preminenti come Brane Mozetič, Nataša Velikonja e Suzana Tratnik che è stato possibile ritagliare uno spazio per la produzione letteraria queer sulla scena slovena. Alla casa editrice ŠKUC e alle sue collane Vizibilija e Lambda, che vantano una tradizione pluridecennale di editoria queer slovena di vario genere, si stanno affiancando case editrici più piccole, come l’indipendente Črna skrinjica, che nell’ultimo anno ha pubblicato tre raccolte di poeti queer sloveni, due delle quali esordienti.

Non mancano tuttavia critiche soprattutto da nomi autorevoli della vecchia guardia, che lamentano pubblicamente la premiazione delle opere queer slovene o l’esistenza di consigli di lettura sulle “migliori opere queer slovene” nei principali mezzi d’informazione, e che mettono in guardia i lettori dal declino della “scrittura slovena forte e maschile” per il timore che il paese si trasformi in “una nazione di poetesse vulnerabili”.

Le poesie qui tradotte sono tratte dalla raccolta Trgetanje (ed. Črna skrinjica, 2022).

bratstvo

moj brat študira ekonomijo
in analitično pristopa
k problemom sveta

tonina je volil, ker
koga bi pa on zajebal?
samo poglej njegov fris

ko kupi bejzbolski kij,
ga vprašam, zakaj,
in pojasni mi
včasih je treba koga zjebat

ko ga vprašam,
zakaj ne objavlja slik
na socialnih omrežjih
in nikomur ničesar ne lajka
mi obrazloži
treba je ohranjat misterij

ko ga vprašam,
zakaj v nahrbtniku za šolo
nosi uteži,
me razsvetli
treba je bit lep

star je bil 12 let,
ko sem mu želel povedati,
da imam rad moške
cel teden sem si pulil lase,
goltal bruhanje
in pripravljal govor

na morju sem ga posedel za mizo,
začel s tem, da želim,
da nekaj izve od mene,
ne od drugih

prekinil me je
si gej, ane?
in me objel,
medtem ko so solze tekle
po mojih licih

fratellanza

mio fratello studia economia
e ha un approccio analitico
ai problemi del mondo

ha votato per tonin, perché
a chi mai lo metterebbe in culo uno così?
basta guardarlo in faccia, dai

quando compra una mazza da baseball
gli chiedo perché,
e mi spiega
ogni tanto a qualcuno bisogna metterlo nel culo

quando gli chiedo
perché non pubblica foto
sui social network
e non mette like a niente e a nessuno
mi illustra
bisogna mantenere un alone di mistero

e quando gli chiedo
perché nello zaino di scuola
si porta dei manubri,
mi illumina
bisogna essere belli

aveva 12 anni,
quando decisi di dirgli
che mi piacciono gli uomini

mi strappai i capelli per una settimana,
trattenendo il vomito
e preparandomi un discorso

lo portai a un tavolo davanti al mare,
esordii dicendo che volevo
lo venisse a sapere da me,
non da altri

mi interruppe
sei gay, vero?
e mi abbracciò,
mentre sulle mie guance
scorrevano le lacrime

enkrat

dovolj sem pijan,
da ga ljubim,
zato greva med grmovje,
ki raste iz betona

vodim ga za roko,
v temi se je lahko izgubiti,
skejterji pogledujejo,
zavohajo, da sva začasna

poročil bi se z njegovimi prsti,
močnimi, razbeljenimi
jutri ga bom blokiral

odpenjanje gumbov je razodetje,
na kolenih nastajata stigmati
jutri se bom sovražil

pogledam v uretro
in vidim
najinega otroka

una volta

sono abbastanza ubriaco
da far l’amore con lui,
così avanziamo tra gli arbusti
che crescono dal cemento
lo porto per mano,
al buio è facile smarrirsi,
gli skater ci osservano,
lo avvertono, che siamo qui solo per poco

sposerei quelle sue dita,
forti, bianche e calde,
domani lo bloccherò

sbottonarlo è una rivelazione
sulle ginocchia si formano le stigmate
domani mi detesterò
gli guardo nell’uretra
e vedo
il nostro bambino

samonadzor

zjutraj ti lahko natočim mleko
in njemu skuham kavo,
še nisi slišal?
nekateri imajo ljubezni na pretek

lahko delim
(kar je ostalo od moje)
lupine zaužitega sadja

hrani prostor zame

njegova koža je tapeta,
tvoje kosti so temelji
hiše, ki bi jo udomačili

nič takega

ponoči se lahko stisnem med vaju,
brez odeje, ki bi me pokrila,
natančno na sredino

autocontrollo

al mattino posso versare il latte a te
e preparare il caffè a lui
non lo sapevi?
c’è chi ha fin troppo amore da dare
posso spartire
(quel che resta del mio)
la scorza di un frutto già mangiato

fai spazio anche a me

la sua pelle è carta da parati
le tue ossa le fondamenta
di una casa che vorrebbero domare

niente di che

la notte posso stringermi tra voi due,
senza una trapunta che mi copra,
proprio nel mezzo

več

bil si edini,
ki je tako tiho zdrobil svet

vsak teden se na novo zaljubim
ista šivanka
prebada gumb,
plete obsedenosti,
ovija me v plin

voham testosteron
in oči pokažejo belo

začelo se je v osnovni šoli

sedel je zraven mene
pri treh predmetih,
vsak dan mi je bolj bílo srce
ponoči sem sanjal, da svoje telo pustim
v postelji
in poletim do njegovega okna
le da ga vidim

nekega poletja sva se
malo zadeta
sprehajala
po kamniških gričih

nasmehnil sem se vsaki njegovi besedi

obljubil mi je,
da mi pokaže shotgun,
izdihne dim
v moja usta

ko sva prišla na samo,
nama je že zmanjkalo trave
in ostala je zgolj obljuba

prva obsesija je popustila
zelo počasi,
uvedla cikle hrepenenja
z različnimi igralci

moje male psihoze

di più

sei stato l’unico
a farmi a pezzi il mondo senza fare rumore

ogni settimana mi innamoro da capo
sempre la stessa sarta
che mi cuce il bottone,
le maglie dell’ossessione,
mi avvolge nel vapore

sento l’odore del testosterone
e gli occhi già mostrano il bianco

iniziò alle elementari

sedeva accanto a me
in tre materie,
il cuore mi batteva ogni giorno più forte
la notte sognavo di abbandonare
il corpo
il letto
e di volare alla sua finestra
soltanto per vederlo

era estate, eravamo
un po’ fatti
camminavamo
per le colline di kamnik

ridevo a ogni sua parola

mi promise
di mostrarmi il suo shotgun,
di esalarne il fumo
nella mia bocca

arrivammo a un luogo isolato
quando l’erba era già finita
e ci era rimasta solo la promessa

la prima ossessione si allentò
poco per volta,
inaugurando cicli di desiderio
con gli attori più diversi

le mie piccole psicosi