«amuk is a prayer»: declinazioni del lutto nella poesia di Khairani Barokka

Introduzione e traduzione dall’inglese a cura di Chiara Liso, vincitrice della Call for translators “Poesia e Lutto”.

La storia semantica della parola amuk è intrinsecamente legata a quella dei soprusi del colonialismo. Se in indonesiano e malese il termine sta a indicare il sentimento e l’atto di collera, a partire dal sedicesimo secolo si diffonde l’inesatta interpretazione che i coloni europei danno del vocabolo, ovvero di una condizione di furia violenta e omicida diffusa in alcune culture dell’Asia sudorientale. È proprio in questa traduzione erronea che si cela il pretesto per giustificare la criminalizzazione e sottomissione di intere popolazioni, l’accaparramento di terre e la distruzione di ecosistemi. A tutt’oggi, il lascito coloniale di tale mistraduzione è cristallizzato nell’espressione idiomatica inglese to run amok con cui si denota la perdita del raziocinio.

Amuk è anche, significativamente, il titolo della terza e ultima silloge poetica di Khairani Barokka, scrittrice, traduttrice e artista interdisciplinare nata nel 1985 a Giacarta e attualmente residente a Londra. Pubblicata nel marzo 2024 dalla casa editrice indipendente britannica Nine Arches Press, la raccolta si dipana lungo il filo di un’acuta riflessione sulla violenza perpetrata sul e dal linguaggio. La poesia di Barokka si offre, al contempo, come antidoto a qualsivoglia forma di tirannia, nel segno della riappropriazione dell’etimo originario di amuk e della rivendicazione, spiccatamente anticoloniale e femminista, della liceità della rabbia e della sua ancestrale sacralità. La scrittura poetica diventa, dunque, luogo d’elezione per l’elaborazione del lutto, personale e collettivo, e la celebrazione del resistere – di individui e comunità, di lingue e paesaggi – a ogni tentativo di dominazione e distruzione.

Si tratta di un libro, come la stessa autrice dichiara nei ringraziamenti finali, che reca l’impronta sia del dolore della perdita degli affetti che della furente solidarietà con i sopravvissuti e le vittime dei genocidi contemporanei, dalla Palestina al Papua, dal Sudan al Congo, eccidi che hanno come matrice comune il capitalismo coloniale (Barokka 2024: 105). La vena elegiaca pervade soprattutto la seconda delle due sezioni che compongono il volume, intitolata «doa», parola indonesiana di origine arabo-islamica che significa ‹preghiera›.

Come sostiene il critico Jahan Ramazani, introdurre la preghiera musulmana nella poesia di lingua inglese significa sintonizzare un linguaggio letterario saturato dal cristianesimo con l’esperienza discorsiva del mondo islamico (Ramazani 2013: 175). La ritualità e il linguaggio religiosi non vengono svuotati del loro significato divino, bensì la retorica della preghiera si intreccia con la tensione estetica e l’autoriflessività del genere poetico. Inoltre, sebbene profondamente radicati nella tradizione religiosa dell’Islam, i componimenti di questo ciclo delineano, allo stesso tempo, una liturgia ibrida portatrice di un messaggio di lotta e resistenza. Così recita icasticamente un verso della poesia di apertura: «amuk is a prayer» (Barokka 2024: 69).


Quattro poesie da amuk (Nine Arches Press, 2024)

withstanding is a prayer

pain is a prayer, the soulbody screeching
it asks for help in the guise of fire

amuk is a prayer
is a word that prays
and is itself a unit of asking

prayer is a form of rage
while you rage, remember to keep the truth
within these arms: [ ]


il resistere è una preghiera

il dolore è una preghiera, il corpoanima stridente
chiede aiuto in guisa di fuoco

amuk è una preghiera
è una parola che prega
è in sé unità di richiesta

la preghiera è una forma di rabbia
mentre ti arrabbi, ricorda di tenere la verità
tra queste braccia: [ ]


tub

what digs you out with a verdigris scalpel, while a powerful blast ignited in their latest attempt to grow lives in the dirt of your online receipt, human blood carries all kinds of filigreed debris, coexisting with the coffin hinges from grotesquely groping eyes panoptic that brought you your morning kettle-hiss, faucet fiddling now, let loose, hotness coldness, piety, lust, bewilderment, supremacy writ into capital, rent hikes for men oiling hair with your rainforests, corners hiding gaspings for breath, a ladybug swatted away by a tank in gaza, a man with down’s syndrome killed with no consequences, violet memories of neuropathic pain still imprinted on your body you are soaking in a fluid warm enough to let it bleed out, breathe in, deliberately feel the edges of a ghost, the heart already drawn in pencil on your hospital radiator seven years ago, fuzzy twinges bear on your muscle feel these deliberate, you may not bathe in kind waters so lower your head below the surface, part your lips and scream it


vasca

cosa ti estrae con un bisturi verderame, mentre un potente boato innescato nel loro ultimo sforzo espansionistico vive nello sporco della tua ricevuta online, sangue umano trascina detriti filigranati di ogni sorta, coesistendo con le cerniere della bara dalle panottiche pupille grottescamente brancolanti che ti hanno portato il tuo mattutino fischio di bollitore, ora armeggiando con il rubinetto, lascia andare, caldo freddo, pietà, brama, perplessità, supremazia iscritta nel capitale, affitti rincarati per gli uomini che oliano i capelli con le tue foreste pluviali, angoli che celano respiri annaspanti, una coccinella spazzata via da un tank a gaza, un uomo con la sindrome di down ucciso senza conseguenze, ricordi violacei di dolore neuropatico ancora impressi sul tuo corpo a mollo in un fluido caldo abbastanza da dissanguarlo, inspira, senti deliberatamente i contorni di un fantasma, il cuore già disegnato a matita sul tuo radiatore ospedaliero sette anni fa, fitte sfocate pesano sul tuo muscolo sentile deliberate, non ti puoi bagnare in acque docili quindi china il capo sotto la superficie, schiudi le labbra e gridalo


prayer for dzikir as mnemonic device

still all your percussive orbits
and soft-click a thumb
to each third
of each finger

praise
how light
work is, unshirking
remembrance

vicissitudes plant grief
in skin-pricks,
out of the gasping sun
climbs daybreak

crackling, cyclonic
core tenets and ninety-nine names
flooding back
to thick bloodstream

memento mori, recuerda tu vida
ingat, ingat
ingat-ingat


preghiera per lo dzikir come espediente mnemonico

frena tutte le tue orbite percussive
e schiocca lievemente il pollice
su ogni terzo
di ogni dito

ringrazia
quanto leggero
sia il compito, ineludibile
il ricordo

le vicissitudini piantano il lutto
in punture cutanee,
dal sole ansimante
spunta l’aurora

crepitando, ciclonici
capisaldi e novantanove nomi
ritraboccano
in un denso flusso sanguigno

memento mori, recuerda tu vida,
ingat, ingat
ingat-ingat


dust ablution

spreading fingers against a wall then onto self,
what cleansing’s reachable when spent,
followed by what supposedly-holy movements can.

salvation comes from trying
and wanting god as much as from calmer tendon stretch, from anti-affirmation of what,

to much of venal world, a good body should
a good body can a good body best
a best body as though heaven’s narrow-gauged

and god a headmistress rapping rulers against
these many best bodies not marked so by others,
against totalities given to her beneficence.


abluzione pulverale

dita distese contro un muro poi su di sé,
quale purificazione è raggiungibile se a secco,
seguita da ciò che movimenti presumibilmente sacri possono.

la salvezza viene dal provare
e volere dio tanto quanto dall’allungare i tendini con più calma, dall’antiaffermazione di ciò che,

per gran parte del mondo venale, un buon corpo dovrebbe
un buon corpo può un buon corpo meglio
un corpo migliore come se i cieli fossero a scartamento ridotto

e dio una preside che scaglia la bacchetta contro
questi tanti corpi migliori non marchiati così dagli altri,
contro le totalità affidate alla sua beneficenza.


Foto di Khairani Barokka.
amuk di Khairani Barokka (Nine Arches Press, 2024)

“frammenti di storia / che si torcono al sole”: la poesia nativa di Maurice Kenny

Giorgio Drago traduce dall’inglese alcune poesie di Maurice Kenny

Maurice Kenny è stato un poeta Mohawk. Nato a Watertown, New York nel 1929, viene considerato uno degli interpreti più importanti delle istanze politiche e culturali dei popoli nativi americani. Dopo una carriera di sessant’anni dedicata alla poesia e all’insegnamento, muore nel 2016 a Saranac Lake.

Come poeta, Maurice Kenny è stato attivo tanto nel contesto del movimento politico conosciuto come Red Power che in quello letterario della Native American Renaissance, di cui rifiuta l’etichetta, conscio che il termine “rinascimento” presuppone l’idea di una cesura nella tradizione della poesia nativa, di cui invece ha sempre valorizzato la continuità attraverso la sua dimensione orale. Nel corso della sua lunga carriera ha pubblicato innumerevoli raccolte. Le più significative sono state pubblicate dall’editore White Pine Press, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, quando una rinnovata consapevolezza rispetto alle proprie radici lo porta a rifondare il suo mondo poetico, inizialmente vicino alla poesia modernista americana dei suoi maestri Louise Bogan e William Carlos Williams. La gioia della riconnessione con un passato prima ignorato che traspare nella poesia più campestre, dove viene ristabilito un legame sano e organico tra l’uomo e la natura grazie alle tradizioni Irochesi, lascia spazio anche allo sgomento e alla tristezza, alla rabbia e al lamento per un mondo gravemente compromesso dalla violenza coloniale.

Autore del primo saggio e della prima lirica che descrivono in epoca contemporanea le figure tradizionali dei Two-Spirit, rispettivamente «Tinselled Bucks: A Study on Indian Homosexuality» e «Winkte», Kenny ha svolto un infaticabile lavoro di organizzazione e di insegnamento universitario che, insieme ai centinaia di reading annuali organizzati negli Stati Uniti e in Europa, è stato seminale per la creazione della nuova sensibilità scrittoria nativo-americana. In contatto con autori celebri come N. Scott Momaday, Leslie Marmon Silko e Paula Gunn Allen, Kenny non ha vissuto un grande successo editoriale, ma ha attirato l’attenzione dei colleghi e della critica, ottenendo l’American Book Awards (per The Mama Poems) e due nomination al premio Pulitzer per le raccolte Between Two Rivers e Black Robe: Isaac Jogues.

The Mama Poems e Blackrobe rappresentano due modi diversi di risalire alle radici, quello privato e quello storico-comunitario. Questo secondo filone è sviluppato in particolare in quello che Kenny stesso considerava il suo capolavoro Tekonwatonti/Molly Brant: Poems of War dove sono esplorate la violenza e le brutalità coloniali. Pur innestandosi su un apparato retorico ricco di sfumature e su ricerche storiche amalgamate da un poetico revisionismo, la raccolta tenta di far rivivere le antiche passioni e i veri moventi dei protagonisti della guerra franco-indiana e della rivoluzione americana. Il linguaggio rimane semplice e diretto, scandito da un verso libero proteiforme che si piega e si modella sulla voce dei vari personaggi del poema.


Da Tekonwatonti/Molly Brant: Poems of War, 1992

Molly: Report Back to the Village

“Leg
   blackened at the stump with blood

Fingers
   scattered through brush

Torso
   painted and jeweled

                                    porcupine quills
                                    pretty beads

   beads rolling off in a line

                                    ants

   scurrying from a foot;

   torso split open a ripe pumpkin

   entrails

           hang/drip from rib cage

                                                    belly

Swath of black hair

                                   blue

                        from clouds and river water

                                    three feathers stir in the breeze

The head…

               missing

                            kicked off into the brush

                                                          a ball

Name
   unknown/unsung
   there are many
              too many

Buzzards wait in the sky

Why do they call this the Indian war?
It isn’t Indians who want rivers
and land and more pelts to ship to kings
or throats to pour whisky down.

Why?
This is my report. That is all. Niaweh.


Molly: rapporto di ritorno al Villaggio

“Gamba
   nera di sangue sul moncone

Dita
   sparse tra gli sterpi

Torso
   dipinto e ornato

                                   aculei di porcospino

                                   belle perline

   perline che rotolano via in fila

                                   formiche

   scappano da un piede;

   il corpo spaccato una zucca matura

   interiora

                   penzolano/gocciolano dalla gabbia toracica
                                                                                          pancia

Ciocca di capelli neri
                                      blu

                             di nuvole e di fiume

                                        tre penne si spostano nella brezza

La testa…

                mancante

                          calciata via tra gli sterpi
                                                                 una palla

Nome
   ignoto/ignorato
   ce ne sono tanti
                  troppi

Poiane aspettano in cielo

Perché la chiamano la Guerra Indiana?
Non sono gli indiani a volere fiumi
e terra e più pellicce da spedire ai re,
o gole per versarci il whisky.

Perché?
Questo è il mio rapporto. È tutto. Niaweh.”


George Washington: “Town Destroyer”

Flames river the low valleys.

Their music crackles like a kettledrum.

Vines, stalks, orchards on fire.

Melons explode, apples spit sweet

                                                     juice

on broken boughs of dying trees.

Horseflesh and pig fume in the morning air.

Barns wither and topple as insane

                                                          cows

run wild, flames snorting out

                                              their nostrils

and lambs bleat, their wool a coat

                                                         of fire.

Log huts and houses crumble beneath

                                                                 the forest.

The valleys rise in smoke.


George Washington: “Distruttore di Città”

Fiamme inondano le basse valli. 

La loro musica crepita come un timpano. 

Viti, spighe, frutteti a fuoco. 

Meloni esplodono, mele sputano dolce

                                                                    succo

sui rami rotti degli alberi morenti.

Carni di cavallo e maiale fumano nell’aria del mattino.  

Le stalle seccano e crollano mentre mucche

                                                                                   impazzite

corrono via, soffiando fiamme

                                                                     dalle narici

e agnelli belano, la lana un manto

                                               di fuoco.

Capanne di tronchi e case si sgretolano sotto

                                                                            la foresta.

Le valli si alzano in fumo.


Molly

I wish never to live to see

      another war.

I’ve gagged on flesh

      and chocked on blood.

I’ve seen the bones of my brothers

      float in the river,

smelled the stench of their rot.

My nostrils are clogged

      with powder smoke.

My arms are weary from the

      weight of rifles.

Villages are burned to the ground,

old men pierced on stockade posts.

Women and babies sleep on the

      scars of bayonets.

Maggots infest the bed.

General George, town destroyer,

       you have won.

Won and accomplished more in your

       victory

than you ever dreamed.

Our blood is your breakfast.

The flames of your village smoke

       the ham you carve and bring to your lips.

General George, leader of a new

       country,

our stars are yours now,

but our blood stains your flag.

Remember we were once

      powerful, a formidable nation

now on our knees.

Your hatred controls

      our destiny.

May your nation never know

      this unbearable loss, this pain,

      this exodus from home, the smoking 

      earth,

      the sacred graves of the dead.

I bathe in this river to wash

      away the blood of war,

      But no water can

      wash away

      the horrors tattooed

      on my flesh.

I pray I shall never smell

      the cannons of war again,

      nor hear the cries,

      nor see the body of a chief

      mutilated by hate and fear

      and greed.

As your stars, General George, rise

      above the many battlegrounds

I want you to remember all those

      who died

so that your flag may wave

      in tribute.


Molly

Non voglio vivere tanto da vedere

      un’altra guerra.

la carne mi ha asfissiato

      e il sangue soffocato.

Ho visto le ossa dei miei fratelli

      galleggiare nel fiume,

annusato il tanfo del loro putrefarsi.

Le mie narici sono occluse

      dal fumo delle polveri.

Le mie braccia sono sfinite

      dal peso dei fucili.

I villaggi sono rasi al suolo,

i vecchi impalati sulle palizzate.

Donne e bambini dormono sulle

      ferite da baionetta.

Larve infestano il letto.

Generale George, distruttore di città,

      hai vinto tu.

Hai vinto e ottenuto di più dalla tua

      vittoria

di quanto non avessi mai sognato.

Il nostro sangue è la tua colazione.

Le fiamme del tuo villaggio affumicano

      il prosciutto che tagli e porti alle labbra.

Generale George, capo di un nuovo

      paese,

le nostre stelle sono tue ora,

ma il nostro sangue macchia la tua bandiera.

Ricorda che una volta eravamo

      potenti, una nazione formidabile

ora in ginocchio.

Il tuo odio controlla

      il nostro destino.

Possa la tua nazione mai conoscere

      questa perdita insopportabile, questo dolore,

      questo esodo da casa, dalla terra

      fumante,

      dalle sacre tombe dei morti.

Mi bagno in questo fiume per lavare

      via il sangue della guerra,

      ma l’acqua non può

      lavare via

      gli orrori tatuati

      sulla mia carne.

Prego di non dover mai più fiutare

      i cannoni di guerra,

      né udire le grida

      né vedere il corpo di un capo

      mutilato da odio e paura

      e cupidigia.

Mentre le tue stelle, Generale George, sorgono

      sopra i tanti campi di battaglia,

voglio che ricordi tutti

      i morti

così che la tua bandiera sventoli

      in tributo.


Aroniateka/Chief Hendrick at the Battle of lake George

Mountain pool

                    eye of this woods

reflects

                    robin wing

                    smoke of war camps

the march of angry feet which

                    ruffle ripples

Here a birch bends

                    into the clarity

deer takes a drink

fish jumps for flies

Fed by freezing mountain creek

                    winter snows

young boys swim like brown trout

                    warriors canoe

women wash clean the innards of fish

                    for a hot supper

and a general bathes exhausted feet

Mountain pool

                    eye of this woods

reflects

                    eagle wing

perched on a pine

                    a lofty tower

for surveillance

Mountain pool

                    soon

will reflect

                    stains of blood

                    a young soldier’s broken dream

                    an old man’s scattered vision

reflect

                    an absent king’s crown

Pool

                    prism of tomorrow

                    fragments of history

                    twisting in the sun


Aroniateka/Capo Hendrick alla battaglia di Lake George

Lago di montagna

                    occhio di questi boschi

riflette

                    ala di tordo

                    fumo di accampamenti

la marcia di piedi rabbiosi che

                    rimestano increspature

Qui una betulla si piega

                    nel chiarore     

il cervo beve

il pesce salta alle mosche

Nutriti dal gelido torrente di montagna

                    nevi invernali

ragazzini nuotano come trote

                    guerrieri pagaiano su canoe

donne puliscono viscere di pesce

                    per un pasto caldo

e un generale immerge piedi esausti

Lago di montagna

                    occhio di questi boschi

riflette

                    ala d’aquila

appollaiata su un pino

                    un’alta torre

di sorveglianza

Lago di montagna

                    presto

rifletterà

                    macchie di sangue

                    i sogni spezzati di un giovane soldato

                    lo sguardo sperduto di un vecchio

riflette

                    la corona di un re assente

Lago

                    prisma del domani

                    frammenti di storia

                    che si torcono al sole

Tekonwatonti / Molly Brant di Maurice Kenny

 

“Per scrivere poesia che non sia politica”: tre poesie di Marwan Makhoul

Introduzione e traduzioni dall’arabo a cura di Enrica Fei.

Queste traduzioni sono associate a un’intervista condotta al poeta dalla traduttrice Enrica Fei. La trovate qui, sul nostro sito.

Marwan Makhoul (1979) è un poeta palestinese nato nel villaggio di al-Buqaia, nella Galilea settentrionale. Vive nella città israeliana di Maalot Tarshiha e, oltre a mandare avanti la sua attività poetica e letteraria, lavora come ingegnere edile.

Nel 1997, a soli 17 anni, ha vinto il Premio Giovane Scrittore indetto dalla rivista periodica Kul al-Arab. Il suo primo libro, la prosa Una lettera dall’ultimo uomo, è stato pubblicato nel 2002. Nel 2005 ha ricevuto una borsa di studio per la partecipazione a un workshop di traduzione organizzato dalla Helicon Society for the Advancement of Poetry in Israele.

Da allora ha pubblicato numerose raccolte poetiche, libri in prosa e opere teatrali. Tra queste, ricordiamo le raccolte La terra della passiflora triste (che ha conosciuto quattro edizioni tra il 2011 e il 2015 a Baghdad, Beirut, Haifa e Il Cairo), Versi che i poemi hanno dimenticato con me (Raya publishing house, Haifa 2012, e al-Jamal Baghdad e Beirut 2013), Dove è mia madre (Dar al-Saqi, Beirut 2019) e la pièce Non l’arca di Noé (2009). Nel 2011, La terra della passiflora triste ha vinto il prestigioso Premio dell’Associazione Mahmoud Darwish per la Poesia Palestinese.

Le sue raccolte o alcuni estratti sono stati tradotti in inglese, francese, tedesco, spagnolo, italiano, portoghese, ebraico, turco, russo, polacco, albanese, serbo, olandese e hindi. Molta della sua produzione poetica è stata messa in musica e adattata per opere teatrali e cinematografiche. È stato questo il caso, tra gli altri, del poema L’immagine del popolo di Gaza, portato nei teatri dalla regista Dalal Maqari e interpretata da artisti provenienti dalla Palestina, l’Iraq, l’Algeria, la Tunisia e la Libia, Il dio della rivoluzione, da cui è stato realizzato uno spettacolo che combina recitazione poetica, musica e ballo contemporaneo, e La sposa di Galilea, da cui è stato realizzato un documentario omonimo che ha ottenuto il secondo premio al Festival Internazionale del Cinema Documentario di Haifa nel 2006.

Marwan stesso si esibisce su palcoscenici locali e internazionali, spesso in occasione dei festival letterari e poetici in Europa e negli Stati Uniti a cui viene invitato come una delle voci di spicco della poesia palestinese contemporanea.

L’elemento performativo è uno dei tratti distintivi della poetica di Makhoul. Il primo tra i componimenti qui proposti, Un arabo all’aeroporto di Ben Gurion, è un ottimo esempio, ed è infatti stato recitato in numerosi teatri e nelle piazze in occasione delle varie manifestazioni contro l’occupazione dei territori palestinesi e la violenza dello Stato d’Israele, come Makhoul ci ha raccontato nella sua intervista.

Numerose strofe del poemetto hanno un andamento discorsivo, prosaico: il lessico immediato e d’impatto descrive una situazione comune, ordinaria – quella di un palestinese che si trova all’aeroporto di Ben Gurion a Tel Aviv –, che d’improvviso si fa tesa, nervosa. Il ritmo dei versi quindi accelera, la musicalità si fa vibrante, la voce dell’io poetico s’innalza e repentina racconta, denuncia, urla.

Da queste sequenze concitate, Makhoul passa poi con naturalezza a passaggi lirici: il ritmo si fa più avvolgente e disteso, le immagini si rarefanno nella metafora, nelle sospensioni di senso, nella resa più intima e raccolta delle falde del sentimento. L’io poetico è un io collettivo e la lirica si dipana nello spazio e nel tempo. Ai versi di riflessione e nostalgia che superano i confini geografici dell’io – «Dai gemiti dei rifugiati / spiega le ali la nostalgia oltre i confini / non una guardia né mille l’arresteranno» –, si affiancano digressioni storiche dal timbro mitico, leggendario.

Come in altri poemetti di Makhoul, le narrazioni delle Sacre Scritture sono citate non come testi religiosi – il poeta, di famiglia cristiana, ha sempre dichiarato il suo ateismo – ma come espressione della saggezza antica, del tempo ancestrale dell’unità. I testi sacri, dunque, non come testi di Dio ma testamenti del Verbo, della saggezza del tempo che precede l’uomo.

Gli aneddoti quotidiani e ordinari che Makhoul descrive nella sua poesia rappresentano sempre un’occasione narrativa e poetica per descrivere il microcosmo di sopruso e precarietà relativo al tema della «casa», della nostalgia per la patria perduta o sotto attacco, del senso di appartenenza a una comunità in diaspora a cui si nega il legittimo ritorno. Una realtà, questa, che caratterizza la vita quotidiana del popolo palestinese e tutti i gruppi «vulnerabili» del mondo, a cui Makhoul si rivolge e a cui intende dare voce, come ci ha spiegato.

In Paese mio, la seconda poesia qui tradotta – un componimento meno narrativo e più lirico, tratto dalla raccolta Dove è mia madre –, il tema della patria, della diaspora, del senso di appartenenza a un popolo che permane nella nostalgia, nella memoria, nel coraggio e nella dignità di chi lotta per il ritorno si intreccia a quello dell’unità familiare, degli affetti più cari, dell’amore più intimo. «Mani che costruiscono un fronte completo, perfetto. / A te [paese mio, N.d.T.] la speranza, su di te la pace. / Paese mio, bambina mia.»

Per scrivere poesia che non sia politica, l’ultimo breve componimento qui presentato, è una poesia che, da ottobre 2023, è diventata uno slogan invocato da decine di milioni di manifestanti in tutto il mondo: nelle piazze, sui muri, nelle piattaforme social di tutti coloro che denunciano il genocidio in corso. Consapevoli che le nostre parole non saranno mai sufficienti, mai complete, mai all’altezza del dolore e della rabbia che proviamo per quanto sta accadendo a Gaza non solo da ottobre 2023 ma da un numero di giorni, mesi, anni che non peseranno mai abbastanza, nemmeno se li contassimo uno a uno e pronunciassimo, tra un numero all’altro, tutti i nomi di tutte le vittime di tutto il conflitto dal 1948 a oggi, abbiamo deciso, traducendo i suoi versi, che fosse Marwan Makhoul a farlo per noi.


عربي في مطار بن غوريون

!أنا عربي

صحت في باب المطار

،فاختصرتُ لجنديّةِ الأمنِ الطّريقَ إليّ

ذهبتُ إليها وقلتُ: استجوبيني، ولكن

سريعًا، لو سمحتِ، لأنّي لا أريد التّأخّرَ

.عن موعد الطّائرة

قالت: من أين أنت؟

من غساسنةِ الجَولان أصلُ فروسيّتي – قلتُ

جارُ مومِسٍ من أريحا؛

تلك الّتي وشَتْ إلى يوشع بالطّريقِ إلى الضِّفّة الغربيّة

يوم احتلّها فاحتلّها التّاريخُ من بعدهِ

في الصّفحةِ الأولى.

من حَجر الخليل الصُّلبِ أجوبتي

وُلدتُ زمنَ المؤابيّينَ النّازلينَ من قبلكم

،أرضَ الزّمانِ الخانعة

من كَنعانَ أبي

وأمّي فينيقيّةٌ من جنوبِ لبنان في السّابقْ،

ماتت أمُّها، أمّي، قبل شهرين

،ولم تودّعْ جثمانَ أمّها، أمّي، قبل شهرين

بكيتُ بِحضنها كي تؤانسَها الأُلفةُ في البُقَيعَةِ

،عند سفحِ المُصيبة والنّصيب

لبنانُ يا أختُ المستحيلْ، وأنا

أمُّ أمّي الوحيدةُ

!في الشِّمال

***

سألتني: ومن رتَّبَ الحقيبةَ لك؟

!قلتُ: أسامة بنُ لادن، ولكن

،رويدكِ، فهذا مُزاحُ الجراحِ المتاحْ

نكتةٌ يحترفُها الواقعيّونَ مثلي ها هنا

،في الكفاحْ

،أناضلُ منذ ستّينَ عامًا بالكلام عن السّلام

،لا أسطو على المستوطنة

ولستُ أملِكُ مثلَكُم دبّابةً كالّتي

،على متنها، دغدغَ الجنديُّ غزّة

لم أرمِ قنبلةً من الأباتشي في سِجلّيَ الشّخصيّْ

لا لنقصٍ فيّ

بل لأنّي أرى في الأفقِ المدى صدى السّأمِ

من ثورةِ السِّلميِّ في غير موضعها

.ومن حُسن السّلوك

***

،هل أعطاكَ أحدُهُم شيئًا في الطّريق إلى هنا – سألت

قلتُ: هو المنفيُّ في النَّيربْ

أعطانيَ الذّكرياتْ

ومِفتاحَ بيتٍ في الحكاياتْ

صدأُ الحديد على المفتاحِ وَتّرَني ولكنّي

كالمَعدِنِ الأصليِّ؛ أُرجِّعُ ذاتي بذاتي، إن أحنّ،

من أنينِ اللاجئينْ

يَبعثُ الشّوقُ جناحهُ عبر الحدودِ

لا حَرسٌ أو ألفُ يمنعُهُ

.ولا أنتِ، أكيد

***

قالت: هل من أداةٍ حادّةٍ في حيازتك؟

قلتُ: عاطفتي

بَشَرتي.. وملامحُ القمحيِّ فيّْ،

،وُلدتُ هنا بلا ذنبٍ سوى الحظّ

متشائلًا قد كنتُ في السّبعين

أنا المتفائلَ بأنشودتين عصيّتينِ عليكِ الآن

.في سجنِ جِلْبُوَّعْ

أَصْلي

وفصلي من رواياتِ الزّمانِ الفجِّ

جنازةُ الماضي وعرسٌ

في قاعةِ الأملِ القريب،

بلحٌ من الغَورِ رعرعني

.وفسّرني الكلام

في حيازتي طفلٌ أجّلتُه عن موعد التّوليدِ كي يأتي

.إلى صباحٍ لا كهذا الهشِّ يا بنت أوكرانيا

في حيازتي أنّ المؤذّنَ صادحًا يُطربُني رغم إلحادي

أصيحُ كي تَجفُلَ الأنّاتُ في النّاياتْ

.وكي تَصدَحَ الكمنجةُ في الطّبنجةِ من خلودٍ في الوجود

***

تأخذني الجنديّةُ إلى تفتيشِ حاجاتي

،تأمرُني بفتحِ الحقيبة

!أفعلُ ما تشاء

فينِزُّ من قلب الحقيبةِ قلبي، وأغنيتي

.ومعنى المعنى يفُزُّ فصاحةً وفجاجةً منها وفيها كلُّ ما فيّ

***

تسألني: وما هذا؟

،أقولُ: سورةُ الإسراءِ من معراجِ أوردتي وتفسيرُ الجلالين

ديوانُ أبي الطّيّب المتنبّي وأختي مرام، صورةً وحقيقةً في آن،

شالٌ حريريٌّ يدثّرني ويحميني من برد البُعادِ عن الأقاربْ،

تَبغٌ من عرّابة البطّوفِ دَوَّخَني إلى أن حشّشَ المجهولُ فيّْ

وفيَّ وفيٌّ وفيّْ.. زعترٌ بلديّْ

جلّنارُ النّارْ، جليليٌّ بَهيّْ

.عقيقي، كافوري، بَخورُي وأنّيَ حَيّْ

مَرجانُ حيفا المشعُّ المستديمُ المستنيرُ

المستحيلُ المستريحُ في جيبِ عودتنا بلا سببٍ

سوى أنّا عَبَدنا حُسنَ نِيّتنا وأوثقنا

!النّكبةَ السّقطةَ في الماضي وفيّ

***

تُسَلِّمُني الجنديّةُ إلى الشّرطيِّ الّذي

:تحسّسني في فجأةٍ ثمّ صاح

!ما هذا؟

عضويَ الوطنيّْ – أقولُ

ونسلي.. حمى أهلي وبيضتا حمامٍ

تفقّسانِ رجولةً وأنوثةً منّي ولي،

يبحثُ بي

عن كلّ شيء ممكنٍ وخطيرْ

لكنّهُ أعمى هذا الغريبَ الّذي

:ينسى قنابلَ بي أشدَّ مضاضةً وأهمّ

عنفواني، جُموحي، نزقَ النّسور في لهفي وفي جسدي

شامَتي وشهامتي، هذا أنا

كاملًا متكاملًا لن يراني فيما يرى

.هذا الغبيّ

***

الآن، وبعد ساعتينِ من معركة المعنويّاتْ

ألعَقُ جرحي لخمسِ دقائقَ كافياتْ

ثمّ أصعدُ الطّائرة الّتي ارتفعت. لا للذّهاب

،ولا للإياب

بل لأرى جنديّةَ الأمنِ تحتي

الشّرطيَّ في نشيدِ حذائيَ الوطنيِّ تحتي

وتحتي أكذوبة التّاريخِ المعلّبِ مِثلَ

بن غوريون الّذي صارَ كما كان كما كان كما كان

.تحتي

                                                               مروان مخّول

Un arabo all’aeroporto di Ben Gurion

Sono arabo!

Ho urlato nell’area partenze dell’aeroporto

accorciando alla soldatessa la strada per raggiungermi.

Sono andato da lei e ho detto: interrogami! Ma

in fretta, per favore, perché non voglio fare tardi

e perdere l’aereo.

Ha detto: da dove vieni?

Dai Ghassanidi del Golan discende il mio cavalierato, ho detto io,

il vicino di una meretrice di Gerico.

Colei che indicò a Giosuè la strada per la Cisgiordania,

il giorno in cui la occupò e dopo di lui la occupò la storia

da quel momento a tutti quelli a venire.

Dalla pietra inscalfibile di Hebron le mie risposte,

sono nato al tempo dei Moabiti che scesero prima di voi

sull’antica terra sottomessa.

Da Canaan mio padre,

e mia madre è una fenicia, il sud del Libano in passato.

Mia madre, è morta sua madre, due mesi fa

non ha detto addio al corpo di sua madre, mia madre, due mesi fa.

Ho pianto nel suo grembo perché l’intimità di al-Buqaia la consolasse

ai piedi della calamità, del destino.

Libano, sorella impossibile, e io

unica madre di mia madre

nel nord!                          

Mi ha chiesto: Chi ha preparato la tua valigia?

Ho detto: Osama Bin Laden! Ma,

calma. Questa è uno scherzo di cattivo gusto, l’umorismo delle ferite,

una battuta per i realisti come me, ecco,

al servizio della lotta.

Combatto da sessant’anni con parole di pace

non attacco gli insediamenti

non posseggo come voi un carro armato

sulla cui torretta il militare punzecchia Gaza.

Non ho lanciato una bomba da un elicottero Apache, non è nel mio curriculum

non perché manchi qualcosa in me, no

ma perché vedo all’orizzonte l’eco lontana dell’indifferenza

alla rivoluzione della pace, fuori luogo qui

e alla condotta giusta.

Qualcuno ti ha dato qualcosa mentre venivi qui?, mi ha chiesto

ho detto: l’esule del campo profughi di Neirab

mi ha dato i ricordi

e la chiave di una casa nei racconti,

la ruggine del ferro della chiave mi corrodeva, ma io

come il metallo puro, ritorno a me stesso attraverso me stesso nella malinconia.

Dai gemiti dei rifugiati

spiega le ali la nostalgia oltre i confini

non una guardia né mille l’arresteranno

né tu, è certo.

Ha detto: hai oggetti taglienti in tuo possesso?

Ho detto: la mia passione

la mia pelle, il carnato del grano.

Sono nato qui senza colpa, solo sorte 

ero pessimista, certo, negli anni Settanta

ma sono ottimista per gli inni che si innalzano contro di te proprio adesso,

nella prigione di Gilboa.

La mia origine

e il mio distacco dalle storie false del tempo amaro

sono un funerale del passato e un matrimonio

nella grande sala della speranza, che è vicina.

I datteri di Gawr mi hanno cresciuto

e mi hanno insegnato a parlare.                

Ho un bambino di cui ho ritardato il giorno della nascita perché arrivasse

non una mattina come questa, fragile, figlia dell’Ucraina.

Ho un muezzin la cui preghiera mi allieta, nonostante il mio ateismo.

Grido perché taccia il lamento dei flauti,

e perché il violino risuoni nel fucile in un sempiterno canto.

La soldatessa perquisisce le mie cose,

mi ordina di aprire la valigia

faccio quello che vuole!

Dal cuore della valigia stilla goccia a goccia il mio cuore, la mia musica,

e il senso di tutto zampilla, fecondo e crudo, e dentro di esso tutto ciò che è in me.

Mi chiede: e questo cos’è?

Dico: la sura del Viaggio Notturno, l’ascesa del mio sangue, e il Tafsir di Jalanain,

il diwan di Abu al-Tayyib al-Mutanabbi e mia sorella Maraam, sia foto che realtà,

uno scialle di seta che mi avvolge e protegge dal freddo della distanza dei miei cari,

il tabacco di un chiosco di Arraba che mi ha dato il capogiro, le vertigini e l’ignoto,

la lealtà, la lealtà, la lealtà… il timo selvatico del mio paese,

il fuoco dei chicchi di melograno, fulgidi, della mia Galilea,

la mia agata, la mia canfora, il mio incenso, e me stesso vivo.

Il corallo che è Haifa, radiosa, eterna e illuminata

l’impossibile che riposa nella tasca del nostro ritorno senza alcun motivo

se non la venerazione sacra delle nostre buone intenzioni e il confino

della nakba a un errore del passato e dentro di noi!

La soldatessa mi consegna al poliziotto che

d’improvviso mi perquisisce e urla:

Cos’è questo?!

Gli organi della mia nazione, dico,

e la mia progenie, la protezione della mia famiglia e due uova di colomba.

Covano la mascolinità e la femminilità, da me e per me.

Cerca sul mio corpo, lui

qualsiasi cosa che possa essere pericolosa.

Ma è cieco, questo sconosciuto,

e dimentica le bombe più feroci e capitali:

il mio vigore, il mio disprezzo, i falchi indomiti dello spirito e del corpo,

l’orgoglio e il coraggio. Questo sono io

tutto, completo, non mi vedrà mai in ciò vede

lui, questo ottuso.

Ora, dopo due ore di battaglia di spirito, di significato,

mi lecco le ferite per cinque minuti, quanto basta.

Poi salgo sull’aereo che è partito. Non per andare,

non per tornare.

Ma per vedere la soldatessa ai controlli, sotto di me

il poliziotto nell’inno nazionale delle mie scarpe, sotto di me

e sotto di me la menzogna della storia in una scatoletta di latta,

come Ben Gurion che è rimasto sempre, sempre, sempre,

sotto di me.


بلادي

إليك بلادي
جموحَ الطُّموحِ لسقف انتمائي،
إليك تعود الحَياةُ جَديدة
فتشفي جِراحَ العنيدْ
وتحيي الوئيدةْ

إليك اشتهاءَ الشهامةْ
وكرْمِ الكرامةْ
سواعدَ تبني الأمامَ التّمامْ
إليك المرام عليك السلامْ
بلادي الوليدةْ

Paese mio

A te paese mio

la tenacia ostinata dell’ambizione come tetto della mia appartenenza.

A te la vita ritorna, nuova

guarisce le ferite ostinate,

riporta in vita i racconti antichi.

A te il trasporto del coraggio,

l’onore della generosità.

Mani che costruiscono un fronte completo, perfetto.

A te la speranza, su di te la pace.

Paese mio, bambina mia.


لكي أكتب شعزا ليس سياسيْا يجب

،أن أصغى إلى العصافير

ولكي أسمع العصافير يجب

أن تَخرس طائرة

Per scrivere poesia che non sia politica,

devo ascoltare gli uccelli.

E per sentire gli uccelli

le bombe degli aerei devono tacere.

“Come qualsiasi altro poeta” – Intervista a Marwan Makhoul

Intervista e traduzione dall’arabo a cura di Enrica Fei.

Quest’intervista, avvenuta telefonicamente il 22 marzo del 2024, è associata alla traduzione commentata di tre opere del poeta sempre a cura di Enrica Fei. La trovate qui, sul nostro sito.

Marwan Makhoul (1979), di cui abbiamo analizzato la poetica qui, è un poeta palestinese che vive nello Stato d’Israele. È nato da un padre palestinese e una madre originaria del Libano. Raccontando situazioni ordinarie, comuni, aneddoti apparentemente banali della vita di tutti i giorni, Makhoul racconta la realtà del popolo arabo nello Stato d’Israele, l’identità e diaspora palestinese e i soprusi che subiscono tutte le comunità «vulnerabili» del mondo, per usare le sue parole. Lo abbiamo incontrato per chiedergli cosa significhi essere un palestinese con passaporto israeliano e discutere con lui della sua attività poetica.

EF: Cosa significa essere un poeta arabo e palestinese che vive in Israele?

MM: Ci sono circa due milioni di palestinesi che non hanno lasciato la loro patria nel 1948 durante la guerra tra le organizzazioni sioniste e gli eserciti arabi. Centosessantacinquemila palestinesi sono rimasti a vivere nelle loro città nel 1948 e nel tempo si sono trasformati in due milioni di cittadini. Questo in termini di informazioni storiche, ma in termini di come mi sento come cittadino palestinese o poeta che vive in Israele, credo che non sia certo colpa mia se sono nato nello Stato di Israele.

Sono nato nella mia patria. Israele è lo stato che è venuto dopo e che è stato costruito sulla mia patria, sulla sua cancellazione e sulla cancellazione dei miei antenati. È lo Stato di Israele che è venuto dopo, non sono io che mi sono trasferito in Israele. La mia presenza è legittima. Perché vivo in Israele o perché accetto Israele? Non ho scelto di vivere in Israele, ho scelto di rimanere nella mia patria. La differenza tra patria e stato è enorme. Lo stato è un’istituzione, la patria è la terra, il luogo di un popolo, la sua storia e la sua cultura: io sono rimasto nella mia storia e nella mia cultura continuando a rappresentarne un legittimo membro.

I miei sentimenti a riguardo non sono dei migliori, perché un palestinese che vive all’interno dei territori del 1948, oggi chiamati Israele, è un palestinese che soffre di una crisi: che patria e stato non coincidano e che il popolo, quello palestinese, non governi il proprio paese ma sia governato dalla comunità ebraica.

Vorrei vivere in uno stato di tutti i cittadini; uno stato in cui possiedo gli stessi diritti di qualsiasi altra persona. Non ho gli stessi diritti di un cittadino ebreo. Vorrei vivere in un paese laico, non costruito su base settaria o religiosa. Penso che non ci sia differenza tra Daesh (Stato Islamico dell’Iraq e Siria, ISIS, N.d.T.) e lo Stato ebraico: a mio avviso, sono entrambi stati che si fondano su principi religiosi, ben lontani da uno stato laico. Uno stato civile deve tenere ben distinti le istituzioni statali e la religione. Una delle ragioni dell’arretratezza della comunità araba e islamica è il legame profondo tra religione e stato. Questo è ciò che sento e in cui mi sto impegnando. Alcuni dei miei scritti poetici trattano proprio di questo.

EF: Come si vive giorno per giorno, da persone arabe, nello Stato d’Israele?

MM: Credo che la vita dei palestinesi che risiedono all’interno dei territori del 1948 – all’interno della cosiddetta Linea Verde (linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio del 1949 fra Israele e Siria, Giordania ed Egitto alla fine della guerra del 1948–1949, N.d.T.) – sia migliore dei palestinesi che vivono in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza, e nettamente migliore dei palestinesi che vivono nei campi profughi. I palestinesi che vivono nei territori del 1948 non hanno perso la loro terra, la loro casa. D’altra parte, però, sono cittadini che non godono di tutti i diritti di cui dovrebbero godere in democrazia. Abbiamo visto di recente come lo Stato d’Israele non sia più una democrazia ma una dittatura, che impedisce ai cittadini nei territori del 1948, me compreso, di esprimere la propria appartenenza al suo stesso popolo, di sostenere la propria causa, manifestare per il cessate il fuoco e per fermare l’uccisione dei civili a Gaza.

Gli israeliani vogliono che decidiamo se essere completamente israeliani o completamente palestinesi, ma noi non siamo né l’una né l’altra cosa. Mi spiego: siamo palestinesi a tutti gli effetti tranne che rispetto alla nostra identità civile, intesa come appartenenza nazionale, politica e come vogliamo essere riconosciuti. Siamo israeliani perché viviamo in Israele e abbiamo la cittadinanza israeliana. Non vogliamo rinunciare a questa cittadinanza, perché questa cittadinanza ci permette di rimanere nel nostro paese, nella nostra patria. Vogliamo, però, ottenere tutti i nostri diritti, e questo significa, anche, il cambiamento del nome dello Stato, il cambiamento della sua identità, il cambiamento della sua bandiera, il cambiamento dell’inno nazionale. Solo così questo Stato diventerà lo stato di tutti i suoi cittadini e anche gli altri palestinesi godranno di eguali diritti, che si trovino in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza o nei campi profughi.

EF: Passiamo al tema della diaspora. La diaspora è un elemento che pertiene sia all’identità ebraica che a quella palestinese. In che modo si articola e differenzia tra le due identità? Quali sono gli elementi che distinguono la diaspora nella storia dell’identità ebraica e in quella della storia palestinese?

MM: I musulmani vivono ovunque nel mondo. I cristiani vivono ovunque nel mondo. I buddhisti vivono ovunque nel mondo. Perché gli ebrei vogliono vivere solo in Israele? Perché sostengono che questa terra sia un loro diritto storico, loro e di nessun altro? Se hanno lasciato questo Paese tremila anni fa, perché vogliono tornare in questo Paese che non gli appartiene più, se non in senso strettamente religioso, e sradicare le persone che già vi vivevano tremila anni fa? Tremila anni fa noi eravamo lì come palestinesi.

Perché vogliono sradicarci per il loro ritorno? Io non odio gli ebrei, voglio vivere con gli ebrei perché sono Marwan, una persona non religiosa, e voglio che tutti vivano assieme, ma non sulla base dell’annullamento reciproco. Non voglio che, affinché gli ebrei tornino nella Palestina storica o in uno stato – la Terra di Israele, come la chiamano –, io debba essere sradicato dalla mia casa e il mio popolo debba essere sfollato. Questo avviene da settantasei anni e non è mai stata trovata una soluzione. Questo è il problema e questa è la differenza: Israele è uno Stato di occupazione con il mantello del vittimismo. È l’unica occupazione al mondo che si sente vittima. Non ho alcun problema che il mondo smetta di perseguitare gli ebrei e difenda questa minoranza nel mondo. La soluzione per la difesa di questa minoranza, però, non può andare a scapito del popolo palestinese.

EF: Parliamo adesso della tua attività poetica. Come esprimi i tuoi messaggi sociali e politici attraverso la tua poesia?

MM: Quando scrivo poesie, non penso a inviare messaggi. Scrivo solo poesie. Ciò che emerge dalla mia poesia è che non esprime solo me stesso, ma anche altri. Tutti i palestinesi si sentono discriminati, che vivano all’interno (della Linea Verde, N.d.T.), sotto l’occupazione, a Gaza, in Cisgiordania, o in diaspora. E questo vale per tutte le minoranze vulnerabili del mondo. Questo è l’elemento che caratterizza la mia poetica; qualsiasi essere umano che si trova sotto occupazione o in un luogo che li discrimina come minoranza vulnerabile e i cui diritti non vengono garantiti può provare empatia e identificarsi: i nativi americani, gli abitanti del continente africano, i tibetani, il popolo basco, gli irlandesi, gli scozzesi, i ciprioti, e così via. Non sono solo un poeta politico, però: sono anche un poeta ordinario che scrive di tutto, che affronta tutti gli ambiti della vita.

EF: Quali sono i tuoi modelli? Quando pensiamo alla poesia palestinese, pensiamo subito a Mahmoud Darwish. Ma la poesia palestinese, e quella araba in generale, ha una lunga storia e una ricchissima tradizione. Che impatto ha avuto su di te?

MM: Credo che una persona o un popolo che citi un solo poeta o un singolo modello sia un popolo poco istruito, un popolo con una consapevolezza limitata. È un popolo che imita: imita un poeta, o un cantante, un ballerino, un leader. Un poeta arabo dovrebbe essere come un poeta francese, nella cui tradizione letteraria rientrano decine di poeti, decine di musicisti, decine di artisti e decine di politici. Se ci aggrappiamo a nomi specifici e trasformiamo il creativo o il politico in un dio – un’icona elevata a qualità di star –, è perché non abbiamo particolari successi o raggiungimenti degni di nota.

Io sono come qualsiasi altro poeta: sono influenzato da tutti e non sono direttamente influenzato da nessuno. Sono influenzato da tutti a più livelli e in vario modo, proprio come nella vita negli ambiti più diversi.

L’autoproclamato “poeta laureato del nonsense”: quattro poesie di Edward Lear

Introduzione e traduzione dall’inglese a cura di Sara Caretta e Alessandro Valenti

Per la rubrica #mortəcheparlano, vi presentiamo quattro poesie di Edward Lear (1812 – 1888), scelte, tradotte dall’inglese e introdotte da Sara Caretta e Alessandro Valenti.

Nell’approcciarsi alla poesia di Edward Lear (1812-1888), lettori adulti e bambini si trovano di fronte a creature che inesorabilmente attraversano il confine che separa il convenzionale dal bizzarro, e l’abituale dall’eccentrico. È in questa scentratura che acquista il suo senso il delizioso nonsense di Lear, il quale all’interno dei suoi schemi metrici rigidamente prevedibili inserisce la cifra dell’incongruo – e quindi della sorpresa, a cavallo fra comicità, incertezza e simpatia.

Queste figure eccentriche, infatti, non sono oggetto di satira o derisione, pur non acquistando alcuna dimensione di pathos: nella loro configurazione più essenziale, affrontano vicissitudini che mettono in scena il confronto con una dura realtà, la quale rivela infine la loro incompatibilità con il mondo circostante. Nella prima poesia qui selezionata, “Gli abiti nuovi”, l’incongruo nasce dall’incontro assurdo tra due dei bisogni primari dell’uomo: al posto dei soliti vestiti, il protagonista in questione sfoggia un outfit interamente commestibile, e si trova poi, una volta uscito in pubblico, ad affrontare le conseguenze della sua scelta.

La selezione include poi tre limerick, la forma poetica che Lear stesso ha contribuito a popolarizzare tra il pubblico di lettori vittoriani; in questi componimenti (di quattro o di cinque versi a seconda dello spazio disponibile in sede di stampa per le illustrazioni di Lear) si ripete un’identica esperienza di straniamento, seguita quindi dal confronto (e dal conflitto) con le leggi di una realtà condivisa da tutti, men che dall’eccentrico personaggio in questione. Nello scegliere alcuni tra i numerosissimi limerick composti da Lear, abbiamo voluto privilegiare tre location situate in Italia (rispettivamente Abruzzo, Lucca e Aosta); ciò a testimonianza degli anni trascorsi da Lear nella penisola, ritratta in molti dei suoi appunti e delle sue illustrazioni. Non ci sembra inverosimile suggerire che l’esperienza artisticamente poliedrica e geograficamente vagabonda di Lear possa trovare un suo corrispondente nella popolazione eccentrica che abita i suoi versi, composta da audaci fashion designer, donzelle dal cuore spezzato, e pastori sbadati.


The New Vestments

p. 245

There lived an old man in the Kingdom of Tess,
Who invented a purely original dress;
And when it was perfectly made and complete,
He opened the door, and walked into the street.
By way of a hat, he’d a loaf of Brown Bread,
In the middle of which he inserted his head;—
His Shirt was made up of no end of dead Mice,
The warmth of whose skins was quite fluffy and nice;—
His Drawers were of Rabbit-skins;— so were his Shoes;—
His Stockings were skins,— but it is not known whose;—
His Waistcoat and Trowsers were made of Pork Chops;—
His Buttons were Jujubes, and Chocolate Drops;—
His Coat was all Pancakes with Jam for a border,
And a girdle of Biscuits to keep it in order;
And he wore over all, as a screen from bad weather,
A Cloak of green Cabbage-leaves stitched all together.
He had walked a short way, when he heard a great noise,
Of all sorts of Beasticles, Birdlings, and Boys;—
And from every long street and dark lane in the town
Beasts, Birdles, and Boys in a tumult rushed down.
Two Cows and a half ate his Cabbage-leaf Cloak;—
Four Apes seized his Girdle, which vanished like smoke;—
Three Kids ate up half of his Pancaky coat,—
And the tails were devour’d by an ancient He Goat;—
An army of Dogs in a twinkling tore up his
Pork Waistcoat and Trowsers to give to their Puppies;—
And while they were growling, and mumbling the Chops,
Ten Boys prigged the Jujubes and Chocolate Drops.—
He tried to run back to his house, but in vain,
For Scores of fat Pigs came again and again;—
They rushed out of stables and hovels and doors,—
They tore off his stockings, his shoes, and his drawers;—
And now from the housetops with screechings descend,
Striped, spotted, white, black, and gray Cats without end,
They jumped on his shoulders and knocked off his hat,—
When Crows, Ducks, and Hens made a mincemeat of that;—
They speedily flew at his sleeves in a trice,
And utterly tore up his Shirt of dead Mice;—
They swallowed the last of his Shirt with a squall,—
Whereon he ran home with no clothes on at all.
And he said to himself as he bolted the door,
‘I will not wear a similar dress any more,
‘Any more, any more, any more, never more!’

Gli abiti nuovi

Viveva un vecchietto in un villaggio reale
Che s’inventò un vestito assai originale;
Quando fu pronto e calzante a pennello,
Aprì il suo portone e uscì dal cancello.
Come cappello aveva una pagnotta integrale,
In mezzo alla quale mise la sua testa ovale;
La camicia era fatta di topolini stecchiti,
Così morbida da lasciar tutti sbalorditi;
I mutandoni erano pelli di coniglio, così come gli stivali;
Anche le calze erano di pelle, ma forse non di animali;
Gilè e pantaloni eran di carne grigliata;
I bottoni giuggiole, e gocce di cioccolata;
Pancake e marmellata gli facevan da cappotto,
Il tutto sorretto da una pancera di biscotto;
Un mantello, infine, per ripararsi dal vento,
Di foglie di cavolo, cucite con talento.
Camminava da un po’, quando udì tremendi schiamazzi,
Di ogni sorta di bestie, uccellacci e ragazzi;
E arrivarono da ogni vicolo e strada della grande città
Bestie, uccellacci e ragazzi con gran rapidità.
Due mucche e mezzo gli brucarono il mantello;
Quattro scimmie scapparono con la pancera nel borsello;
Tre bimbi si sbafarono i pancake del suo cappotto,
E le briciole andarono a un caprone vecchiotto;
Dei cani in un lampo sbranarono pantaloni e gilè
Per portar braciole e costine ai loro bebè;
E mentre questi banchettavano con la carne grigliata,
Dieci ragazzi sgraffignavano giuggiole e cioccolata.
Provò a tornare a casa di corsa, ma fu tutto invano:
Orde di maiali lo inseguivano a tutto spiano;
Arrivavano a frotte da stalle, porcili e portoni,
Per strappargli calze, stivali, e persino i mutandoni;
Con acuti miagolii scendevano ora dai tetti
Gatti striati, maculati, bianchi, neri e grigetti,
Gli saltaron sulle spalle e gli gettaron via il cappello,
Tra corvi, anitre e galline ne rimase un sol brandello;
S’avvinghiarono poi alle maniche, come impazziti,
Fino a strappare la camicia di topi stecchiti;
Con gran gusto papparono anche l’ultimo topino,
Così corse a casa nudo, senza neanche un calzino.
Si ripromise allora, barricandosi laggiù,
“Con un tale vestito non ci esco mai più,
Mai più, mai più, mai più, mai più!”


Tre limerick

(p. 27, 29, 57)

There was an Old Man of th’ Abruzzi,
So blind that he couldn’t his foot see;
⁠When they said, “That’s your toe,” he replied, “Is it so?”
That doubtful Old Man of th’ Abruzzi.

C’era un vecchio signore degli Abruzzi,
Così miope ch’i piedi gli sembravan merluzzi;
Quando gli dissero, “Ma è il tuo ditone,” lui rispose, “Ma come?”
Quel dubbioso vecchio signore degli Abruzzi.


There was a Young Lady of Lucca,
Whose lovers completely forsook her;
⁠She ran up a tree, and said, “Fiddle-de-dee!”
Which embarrassed the people of Lucca.

C’era una giovane donna di Lucca,
Dagli amanti piantata, come una vecchia bacucca;
Su di un albero si arrampicò, e disse “Piripì! Piripò!”
Il che imbarazzò la gente di Lucca.


There was an Old Man of Aôsta,
Who possessed a large cow, but he lost her;
⁠But they said, “Don’t you see, she has rushed up a tree?
You invidious Old Man of Aôsta!”

C’era un vecchio signore di Aosta,
Che perse una mucca, ma non apposta;
Gli dissero, “Ma non la vedi? È su quell’albero, in piedi!
Vecchio bilioso signore di Aosta!”


Edizione di riferimento: E. LEAR, The Complete Nonsense of Edward Lear, a cura di H. Jackson, New York, Dover Publications Inc.

“Per grandi occasioni scelgo volentieri le nervature”: alcune poesie di Natalia Malek

Introduzione e traduzioni dal polacco di alcune poesie di Natalia Malek a cura di Marta Wanicka per l’Almanacco.

In questo articolo dell’Almanacco vi invitiamo a leggere, per la prima volta in italiano, una delle più importanti voci liriche del panorama polacco contemporaneo. Malek è vincitrice dei premi letterari Adam Włodek 2017 e Gdynia 2021, ed è stata nominata anche ai premi letterari Nike e Wisława Szymborska.

“Na wielkie okazje chętnie wybieram szczypanki”, allo stile “di pizzo”: delicato, elegante e elaborato contrapporre le nervature, le pieghe del materiale. Questa è la dichiarazione poetica di Natalia Malek, che risuona ancor più limpida in polacco dove la parola “szczypanki” rinvia a “szczypać”, “dare dei pizzicotti”. Questi brevi componimenti vanno letti proprio così: come dei pizzicotti in grado di svegliare, sconvolgere, far passare il singhiozzo, rimanendo, lontanissimi, però, dalla pomposità. Giocosi e serissimi, tutti i testi qui presentati provengono dallo stesso Kord (Corda), il terzo libro di poesie di Natalia Malek, uscito da WBPiCAK nel 2017, dopo Pracowite Południa (Pomeriggi intensi) del 2010 e Szaber (Bottino) del 2014.

Kord è una sorta di indagine su un mondo caotico, su una confusione di lingue, paesi, migrazioni, piante, frasi interrotte, ricordi sovrapposti, significati che si diramano, prendendo strade diverse. La chiave compositiva è l’esperienza dell’io lirico, dei suoi viaggi e spostamenti (“la vita interiore dei migranti”), nella convinzione che per scrivere sia necessario lasciare libere le ciocche dei capelli e vivere (“Ci devo pensare/ E lo devo vivere”) senza imporre rigidità al materiale. Così l’esperienza fa sì che l’accumulo di oggetti non porti all’indistinto, ma, al contrario, faccia risaltare connessioni non evidenti tra le cose (i fiumi e i lacci; le api e i distici). 

Quella di Malek è una ricerca radicale di termini precisi, uno sguardo quasi filologico sulle parole, che trasuda l’esperienza traduttiva della poetessa; lei è, infatti, la voce polacca di Louise Glück, Tyrone Williams e Sandra Cisneros, per citarne alcune. Malek sceglie spesso parole rare, polacche e straniere, sfruttando la loro polisemia (“nervature”, “colloide”) e la loro sonorità (“jararaca”, “Hendrix”, “oolong”). L’attenzione allo strato sonoro è evidente in particolare nella poesia “Bardo e baraonda”, che ha come tema proprio la confusione di suoni in una città dove i rumori di passi, api e piatti della batteria contribuiscono a creare uno sfondo musicale a “una pallottola di uomo e saliva, la rabbia su due piedi”. Tutta questa “baraonda” di cose e suoni è governata da una voce lirica limpida, si direbbe quasi intransigente (“figlia di una jararaca”), consapevole della propria forza.

Cosa fare quando tacciono gli intellettuali di sinistra?

Gambe divaricate alla larghezza dei fianchi.
Leggermente piegate.
Braccia distese in avanti – come un rotolo di tessuto, una lastra lucente di un molo.

Ripeti:

Sono libera come una jararaca
Sono pericolosa come una figlia di jararaca
Nessuno mi ha mai desiderata così.

Co robić, gdy milczy liberalna inteligencja?

Rozstawić nogi na szerokość bioder.
Lekko zgiąć.
Ręce wyprostować przed siebie – niech tworzą belę materiału, jaśniejszą dechę pirsu.

Powtórzyć:

Jestem wolna jak żararaka.
Jestem groźna jak córka żararaki.
Jeszcze nikt mnie tak nie pożądał.

Bardo e baraonda

Hanno cambiato il mondo: le api, i distici, i piatti.
Della batteria.

Le scarpe di vernice hanno cambiato la città.
Quando vola una pallottola di uomo e saliva, la rabbia su due piedi, fa pensare a qualcosa di fonico.

Non ha nucleo
né troposfera. A volte è questo che vogliamo.

Bard i bardak

Zmieniły świat: pszczoły, dystychy, talerze.
Perkusyjne.

Lakierki zmieniły miasto.
Gdy leci kula z człowieka i śliny, wściekłość na dwóch nogach – kojarzy się fonicznie.

Nie ma jądra
ani troposfery. Tak czasem chcemy.

Oolong

La vita interiore dei migranti: prendere una macchina in prestito
per venerdì sera. Cercare uno spazzolino per le unghie.

Come si dice colloide in inglese? La vita, per la quale l’industria da tempo ha il vaccino –
o solo fagioli e riso?

Saltare fuori dal nulla, schiantarsi a terra: bam! Così come inizia la città!
Una delle persone del posto può comparire dodici volte

in dodici pelli diverse,
e presentarsi come Rilke e come Hendrix. Non lo portano da nessuna parte: né all’ospedale, né a scuola,

né in quel buco con i cognac,
che ho scoperto a caso grazie a te. Un altro può setacciare

l’intera cucina per farci vedere qualcosa di unico: il thè.
(Persino le più coraggiose delle piante ignorano la composizione del prato)

Ulung

Życie wewnętrzne emigrantów: pożyczyć samochód
na piątek wieczór. Rozejrzeć się za szczoteczką do paznokci.

Jak jest koloid po angielsku? Życie, na które przemysł od dawna zna szczepionkę –
czy tylko fasola i ryż?

Wystrzelić znikąd i obrócić się na płask! Tak, jak zaczyna się miasto!
Jeden z tutejszych ludzi umie przyjść dwanaście razy

w dwunastu skórach,
i przedstawić się jako Rilke i jako Hendrix. Nigdzie go nie zabierają; ani do szpitala, ani do szkoły

ani do dziury z koniaczkami,
o jakiej wiem przypadkiem od ciebie. Inny potrafi przetrząsnąć

całą kuchnię, by nam pokazać coś wyjątkowego: herbatę.
(Najśmielsze rośliny nie znają rozkładu łąki)

Margine

comprare venti barattoli di marmellata rossa,
non rasare le gambe,
lasciare la chiave ai vicini,

i quali, si sa, stanno costruendo una casa sul confine.
E passare la notte, e distillare il giorno-
come persone ragionevoli, ornamentali, incapaci di tornare indietro, ma ancora curiose di sapere: è l’ora?

Margines

kupić 20 słoików czerwonego dżemu,
nóg nie golić,
klucz dać sąsiadom,

o których wiadomo, że się budują na granicy.
I nocować, i pędzić dzień-
jak osoby rozumne, ozdobne, niezdolne do ruchu w tył, ale nadal zainteresowane pytaniem: to już?

Il volto della letteratura

Chiedeva di ascoltare le persone. Si pettinava le ciocche.
(Da poco le lasciava libere)

Scriveva lettere – e a loro venivano
delle macchioline sul dorso. Quando arrivavano proposte, dalle carceri o dagli scout, vigilava:

Ci devo pensare.
E lo devo vivere.

Twarz literatury

Prosiła, żeby ludzi słuchać. Poprawiała pukle.
(Od niedawna dawała im luzu)

Pisała listy – a one dostawały od tego
plamek na grzbiecie. Gdy wpływały propozycje, z ZK lub z harcerstwa, czuwała:

Muszę to przemyśleć.
I muszę to przeżyć.

Nervature

Stavo spiegando a un bambino come un paese che comincia con la B non possa essere Bruxelles.
(Non cambio nulla nel mondo, drammatizzava Giovanna prima di Pasqua)

E poi, che i fiumi non funzionano così bene come i lacci,
anche se legano le persone più delle feste di compleanno.

A te non piace lo stile di pizzo delle donne che scrivono.
E io ho scoperto da poco: Per grandi occasioni scelgo volentieri le nervature.

Szczypanki

Tłumaczyłam chłopcu, że państwem na be nie może być Bruksela.
(Niczego nie zmieniam w świecie, dramatyzowała przed Wielkanocą Joanna)

A potem, że rzeki nie działają tak dobrze jak sznurówki,
choć wiążą ludzi mocniej niż przyjęcia urodzinowe.

Ty nie lubisz koronkowego stylu piszących kobiet.
A ja odkryłam niedawno: Na duże okazje chętnie wybieram szczypanki.

«Un budín que lo endulzaba»: alcune poesie di María Ragonese

Introduzione e traduzioni dallo spagnolo di quattro poesie di María Ragonese a cura di Martina Muci, vincitrice della call for translators “Poesia e Violenza”.

La parola poetica di María Ragonese risuona circolare, concentrica, quasi riecheggia la risacca incessante di quel «cerchio azzurro acciaio» di cui scrive Virginia Woolf ne Le Onde. Più che di parola poetica, bisognerebbe parlare di materia poetica; di una materia dolorosa che esonda, sporge, o meglio, si sporge oltre la sua mera espressione linguistica. La metrica alogica, tipica dei line-breaks teorizzati da Denise Levertov,[1]1 coreografa una lettura apparentemente aritmica, contraria al melos della tradizione canonica, che tuttavia conferisce un battito preciso, un gusto rotondo, ad ogni scelta lessicale. Questa ritmica liquida, che scivola da una parola all’altra, e sguscia un verso nell’altro, fa sì che le poesie della poetessa argentina si mantengano allo stato grezzo, raccontandosi da sole.

María Ragonese nasce e studia scienze umanistiche a Buenos Aires, dove poi si dedica a laboratori di scrittura, arti plastiche e fotografia. Ragonese è co-fondatrice di Agua Viva Ediciones, casa editrice argentina per cui lavora anche come editrice: nel 2020, insieme a Jorgelina Soulet, pubblica infatti Otras Nosotras Mismas, un’antologia in omaggio a Olga Orozco. La stessa María Ragonese fa parte di diverse antologie poetiche, tra cui Diarios de encierro (Índigo Editoras 2020), Flotar y Jardín (Camalote 2020 y 2021), e Poetas argentinas (1981-2000), raccolta poetica per cui Ragonese è stata recentemente selezionata e pubblicata nel 2023 da Ediciones Del Dock. Nell’agosto 2021 pubblica Brilla, sombra, il suo primo libro di poesie edito Índigo Editoras, casa editrice con sede in Spagna, uno spazio che invita a coltivare un tipo di sorellanza a-territoriale, con l’obiettivo finale di tessere una genealogia letteraria femminista e inclusiva.   

La poetica di María Ragonese ha un intento tutt’altro che esegetico, essa si manifesta piuttosto sottoforma di materia vertebrata, e ciò si evince tanto da un punto di vista contenutistico quanto a livello formale: all’interno di Brilla, sombra ogni poesia prende il nome dal primo verso della composizione poetica che viene dunque riportato in grassetto. La scelta di non dare un titolo ai propri testi deve intendersi come una sorta di giustizia poetica affine all’idea di poesia intesa come presenza viva e diffusa, capace di autoconvocarsi. L’io poetico in Brilla, sombra trascende la nostra tradizione logocentrica, per dirla con Derrida,2 e ci colloca in mezzo alle cose, o più precisamente, tra i loro margini, confini che costituiscono un nostro stesso prolungamento, piuttosto che dei limiti intersezionali: la parola poetica ci rammenta e rammenda con cura la nostra discendenza e animale e vegetale.

Si propone così un’ontologia di tipo relazionale, che spodesta l’ideale antropocentrico tipico della narrativa occidentale e umanistica, e promuove un livellamento tra l’essere umano e le cose che mancano di parole. I tarocchi, il velo, il cucchiaio d’argento, il canarino morto, fiore a testa in giù, tutte le cose, non esistono nella loro forma asintattica. Con le sue poesie Ragonese tenta di de-sclerotizzarle dal loro mutismo nominale, e regala ad ognuna lo statuto di oggetto-segno, oltre che di oggetto-presenza. Un segno che è il senso di una violenza che solo la dolcezza è capace di disinfettare – o di cariare –, sia che si tratti di succo di more, che di un budino per l’ora del tè.

Come ci suggerisce il titolo stesso dell’intera raccolta, l’apparente opacità semantica dei versi di Brilla, sombra, non costituisce una falla del linguaggio, bensì racchiude una promessa di luce che batte all’ombra della perdita, dei traumi infantili, e della violenza endemica e sistemica di cui è figlia un’intera genealogia di donne. La materia poetica svetta in senso politropo, prismatico, essa è asintoticamente confinante, non inciampa mai nella monosemia di stretti paradigmi interpretativi. Brilla, sombra inscena dunque un ossimoro fecondo e dialogante, umido di possibilità. La vita e la morte, per María Ragonese, intrattengono una relazione tutt’altro che dialettica, non si escludono reciprocamente, i loro toni trascolorano tanto che l’esperienza dolorosa non ci scomoda, anzi, ci accomoda sotto l’ombra fertile e pulsante del sentire umano.


  1. Levertov, D. (1979). On the Function of the Line. Chicago Review, 30(3), 30–36. https://doi.org/10.2307/25303862 ↩︎
  2. Smith, R. C. (1985). BACHELARD’S LOGOSPHERE AND DERRIDA’S LOGOCENTRISM: IS THERE A “DIFFERANCE?”. French Forum10(2), 225–234. ↩︎

La Fuerza (poema inédito)

En la tumba mi tío abuelo Deogracias Manuel
dejó un velo que agitaba las nubes y a veces movía
las almas, las almas de nubes, de hermanos, de hermanas,
las almas de tierra y recuerdos de campos.
Hermoso era el velo otro punto de fuga,
mamá lo tomó y me lo dio con sus cartas adentro.
Esa noche a mi sueño llegó la mujer de cabellos alados;
en el sueño las cartas, la primera va al centro
y ella pregunta si conozco la mía, le afirmo
y extiende la carta a mi mano, La Fuerza, la once
la miro, la apoyo en la mesa;
con los ojos del sueño le saco una foto
y me llevo la foto por fuera del sueño,
recuerdo tirada completa: la tengo guardada en el pelo.
Amante me tapa los ojos con velo
y con velo en los ojos tapados se abre una luz
es un hueco en el patio en la tierra que cubre la pérgola
de la panza me sale una bola de luz y después es la luna tan llena
que se aleja de mí, yo me alejo de amante
y me meto en lo oscuro en el hueco en la tierra,
amante se queda en la cama y roza mi velo y mi luz,
a mí no me toca, sus dedos se olvidan, la luz le ha quemado la piel,
memoria en sus huellas regresa a los días.
Mujer de cabellos alados da rumbo a mi vuelo,
aterrizo en el patio que cubre la pérgola,
todo es oscuro y me corto las venas
y arranco las moras que caen en la tierra.
Me exprimo la sangre y como las moras,
la tierra me come, me llama la bruma y la boca de león
se abre y me invita a pasar y yo paso.
Aún voy con velo, me cubre los ojos de gasa
y yo veo: me meto en el fondo del hades de muertos:
primero ladridos que lanza mi perro y los píos del pájaro
amarillo, canario, se escuchan de fondo. Una voz
muy antigua me mira mi velo, Deogracias Manuel
me dice es mi velo y ahora es tu velo, María;
le cuento del pueblo que había fundado y después se fundió,
le digo que quiero hablar con mi abuela, le pido
indicame el camino a Manuela y me dice que allá
crecen flores naranjas y se prenden de fuego,
señala y me indica el camino de humo.
Mi mano chorrea la sangre y el jugo de mora
despierta a mi abuela que habla delirios y corta
pezuñas de vaca (en el hades no sirve a mi abuelo José)
y me habla y se queda callada, se olvida palabras
también en el hades. Menciono a mamá y me mira a los ojos,
me dice: insufrible la muerte de un hijo
y vuelve al delirio. Victoria, su madre, la observa de lejos
y lleva la cuenta de ovejas y de hijos, primero de ovejas
y luego de hijos, son seis, uno Deogracias Manuel,
el mayor, y el segundo Adolfo,
tercero es Aníbal,
Luis, Elena,
Manuela la última, un círculo perfecto,
un círculo perfecto no sirvió, le dije una vez a mamá.
Le grita con fuego mi abuela a su madre:
repartir a los hijos es cosa insufrible
y se sumerge en agua de plancton
brillante, brillante y nada es brillante acá abajo
conservan palabras sin cuerpo y no brillan sin cuerpo
no encarnan, recuerdan, Manuela olvidó,
ella brilla, a veces. Va errante.
Ahora su carne es de humo y vapor y de fuego tan blanco;
y hay otros de carne, no carne, de huesos,
o su carne es la misma al revés.
Hilachas de sangre, mi sangre,
me cubro las venas, no quiero despierte cualquiera,
despierto a mi hermano mayor
y le advierto es un rato que vine a este hades,
no quiero morir de tristeza: le pido los pasos.
Me dice que tengo los pasos y recuerda su última
aparición en mis sueños, la cosa es así:
lo familiar se convierte en extraño, no vivas
en lo extraño, me viste volviendo y supiste
que ya no era yo
la marca en la frente y sonrisa de mueca
no eran las mías del mundo,
cerraste la puerta en mi cara
y así estuvo bien;
no guardes la cosa siniestra en las manos cerradas,
soltálas, juntá el equilibrio
que yo no tenía
tocá tus palabras, hacé
cosas nuevas.


La Forza (poesia inedita)

Sulla tomba il mio prozio Deogracias Manuel
lasciò un velo che agitava le nuvole e a volte muoveva
le anime, anime di nuvole, fratelli, sorelle,
anime di terra e ricordi di campi.
Com’era bello il velo altro punto di fuga,
mamma lo prese e me lo diede con dentro i suoi tarocchi.
Quella notte mi venne in sogno la donna dai capelli alati;
sogno i tarocchi, la prima carta va al centro
lei mi chiede se so qual è la mia, annuisco
mi avvicina la carta, La Forza, la numero undici
la guardo, la appoggio sul tavolo;
con gli occhi di sogno gli scatto una foto
porto la foto fuori dal sogno,
ricordo la lettura completa: la custodisco tra i capelli.
Amante mi copre gli occhi con il velo
e con il velo sugli occhi intravedo una luce
è un solco nel giardino nella terra all’ombra del pergolato
dalla pancia mi cresce una palla di luce che si fa luna piena
così piena che si allontana da me, io mi allontano da amante
e mi calo nell’oscurità nel solco dentro la terra,
amante resta a letto e sfiora il mio velo e la mia luce,
a me no, non mi tocca, le sue dita mi dimenticano, la luce
gli ha bruciato la pelle,
il ricordo dei suoi passi gli torna alla mente.
La donna dai capelli alati dirige il mio volo,
atterro nel giardino all’ombra del pergolato,
è tutto buio e mi taglio le vene
e stacco le more che cadono sul terreno.
Spremo il sangue e mangio le more,
la terra mi inghiotte, mi convoca la nebbia e la bocca del leone
si apre e mi invita ad entrare ed io entro.
Indosso ancora il velo, mi ingarza gli occhi
ed io vedo: mi insinuo in fondo al regno dei morti:
subito sento abbaiare il mio cane, in sottofondo il cinguettio
del canarino giallo. Una voce
molto antica guarda il mio velo, Deogracias Manuel
mi dice è il mio velo e adesso è il tuo velo, María;
gli racconto del villaggio che aveva fondato per poi disgregarsi,
gli dico che voglio parlare con mia nonna, gli chiedo
di indicarmi la strada verso Manuela e mi dice che lì
crescono fiori arancioni e infuocati,
punta il dito e mi indica il cammino di fumo.
La mia mano cola sangue e succo di more
svegliando mia nonna che delirante taglia
gli zoccoli a una mucca (negli inferi non è serva di mio nonno José)
e mi parla e resta zitta, dimentica le parole
anche all’inferno. Nomino mamma e mi guarda negli occhi,
mi dice: insopportabile, la morte di un figlio
e ricomincia a delirare. Victoria, sua madre, la osserva da lontano
e porta il conto delle pecore e dei figli, prima delle pecore
e poi dei figli, sono sei, per primo Deogracias Manuel,
il maggiore, e per secondo Adolfo,
il terzo è Aníbal,
Luis, Elena,
Manuela è l’ultima, il cerchio perfetto,
un inutile cerchio perfetto, dissi a mamma una volta.
Le urla di fuoco di mia nonna a sua madre:
separare i propri figli è qualcosa di insopportabile
e si immerge in acqua di plancton
che luccica, luccica, nulla luccica qui giù
si conservano parole senza corpo che senza un corpo
luccicanti non sono non significano, ricordano, Manuela dimentica,
brilla, a volte. Vaga.
Adesso la sua carne è fumo e vapore e fuoco bianchissimo;
e ce ne sono altri di corpi, non di carne, di ossa,
forse il rovescio della loro carne è lo stesso.
Il sangue si sfilaccia, il mio sangue,
mi copro le vene, non voglio che svegli qualcuno,
sveglio mio fratello maggiore
e gli faccio notare che abito questo inferno da un po’,
non voglio morire di tristezza: gli chiedo qual è la strada.
Dice che la strada la conosco già, e mi ricorda la sua ultima
apparizione in un mio sogno, succede questo:
ciò che di familiare esiste diventa estraneo, non vivere
nell’indifferenza, mi hai visto tornare e sapevi
che non ero più io
il segno sulla fronte e la smorfia sul viso
non erano mie ma del mondo,
mi hai chiuso la porta in faccia
e andava bene così;
non trattenere le preoccupazioni nei pugni delle mani,
liberale, raccogli l’equilibrio
che a me mancava
toccale le tue parole, fai
cose nuove.


dA BRILLA, SOMBRA (índigo Editoras, 2021)

Una jaula para mi canario doméstico

otra para los pichones que caían
en el jardín, desde el pino
antes de tiempo.

Arrancando la corteza
esperaba el vuelo de los pájaros,
partía las costras
hasta dar con la savia.

Un verano vi un manojo de plumas
amarillas, no parecía alado
la boca con tierra fue la muerte
una flor al revés.


Una gabbietta per il mio canarino

un’altra per i passerotti che cadevano
sul prato, dal pino
prima del tempo.

Aggrappata alla corteccia
aspettavo il volo degli uccelli
strappavo la crosta
fino a che non trovavo la linfa.

Un’estate vidi un ciuffo di piume
gialle, non sembrava avesse le ali
con in bocca la terra fu la morte
un fiore a testa in giù.


Heredé una cuchara de plata

que usό una abuela para servir
el té con las amigas. Años cinquenta,
las mujeres se reunían a contar
botones de nácar.

A veces
deslizaban otras palabras,
un ojo morado
cubierto de polvo,

un budín que lo endulzaba.


Ereditai un cucchiaio d’argento

che una mia nonna usava per prendere
il tè con le amiche. Anni cinquanta,
le donne si incontravano per contare
bottoni di madreperla.

A volte
si lasciavano sfuggire altre cose,
un occhio nero
coperto di cipria,

ad addolcirlo, un budino.


En la naturaleza

todo es transformaciόn.
para nosotras hay muerte
dentro una bolsa
sin oxígeno
en el campo.

Lugares con plantas aún nativas
zarza sin descanso.

Cuando vi a mi amiga muerta
el sol puso en mi boca
una joya de dolor.


In natura

tutto si trasforma.
Per noi altre la morte
sta dentro una sacca
senza ossigeno
nei campi.

Esistono ancora luoghi con piante native
cespugli instancabili.

Quando vidi la mia amica morta
il sole posò sulla mia bocca
una gemma di dolore.

Copertina di Brilla, sombra di Marìa Ragonese
brilla, sombra di Marìa Ragonese (Índigo Editoras, 2021)

Un diario poetico in divenire: la poesia del corpo di Stéphane Lambion

Introduzione e traduzione dal francese a cura di Elena Casadio Tozzi.

Stéphane Lambion è un poeta e traduttore francese. Nato a Bruxelles nel 1997, ha pubblicato la sua prima raccolta, dal titolo Bleue et je te veux bleue, nel 2019 per la casa editrice L’Échappée belle, con una prefazione di Jean-Michel Maulpoix. Nel 2022 è uscita per la casa editrice La Crypte la sua seconda raccolta, presque siècle, vincitrice del Prix des Trouvères Lycéens. Suoi testi inediti sono apparsi regolarmente su diverse riviste, tra le quali «Arpa», «Traversées», «Contre-allées». Dal 2020 è curatore delle riviste «Point de chute» e «Canal», quest’ultima nata nel 2022 e dedicata agli scambi tra poesia francofona e britannica. Lambion accompagna il lavoro di scrittura a quello di traduzione dal rumeno e dall’inglese: ha curato le raccolte 04:00 Canti domestiques di Radu Vancu (Vanneux, 2019) e Plantations di Constant Tonegaru (Abordo, 2022).

Dal 2021 è ricercatore presso l’Université d’Aix-Marseille dove sta svolgendo una tesi di ricerca e creazione sulla malattia nella poesia contemporanea, di cui è possibile consultare un diario sempre aggiornato sulla rivista online «remue.net». Questo lavoro si affianca alla poetica de l’intime di Lambion, volta a indagare il rapporto con il corpo “urtato”. La sua scrittura nasce, infatti, dall’esperienza vissuta e si sviluppa nello spazio della pagina con un ritmo, quasi un soffio, a cui corrispondono esperienze vive, sia artistiche che personali, come dimostra la sua attuale propensione alle forme poetiche e narrative ibride, all’arte visiva e alle arti plastiche.

Scaturita da un ambiente plurilingue e attraversata da più lingue, la scrittura di Lambion prende come oggetto di indagine privilegiato il corpo nelle sue diverse accezioni. La ricerca di una poesia incarnata, lontana da ogni astrazione, porta Lambion a fare del corpo uno strumento per dare carne a sensazioni ed emozioni, come in “le seul calcul est le sommeil”, dove emerge la volontà di dare corpo alla notte, di tagliarla e metterla in rapporto con la fisicità umana; o ancora in “. . .”, dove lo slancio vitale, la vergogna e la paura sono emozioni rappresentate in funzione del corpo e dei suoi movimenti. Questa ricerca fisica in poesia si spinge fino alla fascinazione per le potenziali trasformazioni del corpo, che siano dovute al tempo o alla malattia, e di cui la raccolta presque siècle e il testo En cœur costituiscono un diario poetico in divenire.


le seul calcul est le sommeil

la nuit s’est cassée
.
en mille morceaux
.
lorsqu’elle est tombée
.
sur ma maison.

je la dévisse,
elle a une odeur d’os.

je pose la nuit
sur une plaque millimétrée,

y découpe
la forme de ma chambre,
la forme de mon sommeil.

l’étends
par terre.

la nuit respire
sur le sol

, doucement.

se soulève
à peine.

si l’on coupe un cube de nuit de gauche à droite,


puis chaque moitié de haut en bas,

par combien multiplie-t-on
la surface de la nuit

, il demande.

pleine,
la nuit sera – pleine
.

ils

vérifieront
cette hypothèse.

testeront
ses corolaires.

chercheront le contre-exemple.

discuteront
son bien-fondé.

je

prendrai
les outils à la cave,

remettrai
la nuit en place.

elle sentira
le propre,

ce sera une
nuit neuve

comme il y en a tous les
deux-mille-neuf-cent-soixante-seize ans

, environ.

j’y collerai
mon visage
sans couleur.

la nuit

courra
sur mes tempes,

se faufilera
dans mes yeux,

se glissera sous mes ongles,

entière.

elle

deviendra
une prière

, dite
le long
des os.

la nuit aura
la surface de ma peau

, ce sera l’heure de dormir.

le sommeil sera le seul calcul


l’unico calcolo è il sonno

la notte si è rotta
.
in mille pezzi
.
quando è caduta
.
sulla mia casa

la svito
ha un odore d’ossa

poggio la notte
su un tavolo millimetrato,

vi ritaglio
la forma della mia stanza
la forma del mio sonno.

la stendo
per terra.

la notte respira
sul suolo

, dolcemente

si solleva
appena.

se tagliamo un cubo di notte da sinistra a destra,
poi ogni metà dall’alto in basso,

per quanto moltiplichiamo
la superficie della notte

, lui chiede.

piena,
la notte sarà – piena
.

loro

verificheranno
questa ipotesi.

testeranno
i suoi corollari.

cercheranno il contro-esempio.

discuteranno
la sua fondatezza.

io

prenderò
gli strumenti in cantina

rimetterò
la notte a posto.

lei sentirà
il pulito,

sarà una
notte nuova

come ce ne sono ogni
due-mila-nove-cento-sessanta-sei anni

, circa.

vi incollerò
il mio viso
senza colore.

la notte

correrà
sulle mie tempie,

s’intrufolerà
nei miei occhi,

scivolerà sotto le mie unghie,

intera.

lei

diventerà
una preghiera

, detta
lungo
le ossa.

la notte avrà
la superficie della mia pelle

, sarà ora di dormire.

il sonno sarà l’unico calcolo


La tristesse dans le pied

ma maison est une boîte
de nuit j’y danse
de jour aussi

, c’est la fête rue berthe,

tout le temps c’est la fête
charlotte de witte à trois
heures du matin spaghettis
au petit-déjeuner je danse

, toujours je danse
sans voir que

depuis quelques semaines
quand je

, quand je danse rue berthe
j’ai la tristesse dans le pied.

depuis quelques semaines je danse
en battant des pieds

, rue berthe je danse
comme un enfant qui ne veut pas
que sa tête aille sous l’eau

, danse comme un garçon
qui demande à charlotte
de l’aider à clouer
la tristesse au sol.

*

hier soir rue berthe mes jambes
étaient si lourdes que j’ai cru
couler

mes pieds s’enfonçaient
dans le parquet je
déjà me noyais

, battais fort
– la pointe le talon le plat
de tout le pied battais

et mes jambes de douleur
sont devenues pierres

, le bois du parquet
est devenu pierre

, la pierre
cognait la pierre

et un feu petit
à petit s’est allumé
sous la tristesse
de mes pieds

, hier soir rue berthe un feu
s’est allumé et mes pieds
ne s’enfonçaient
plus et je ne
coulais plus
hier soir

, j’ai dansé rue berthe
avec charlotte comme
un noyé qui prend feu
à six heures j’ai mis l’eau
à bouillir pour les pâtes

et j’ai dormi
dans ma boîte où
je vis je danse
rue berthe

, dans le pied la trace
d’une tristesse brûlée.


La tristezza nel piede

la mia casa è un locale
notturno in cui ballo
anche di giorno,

, è festa in rue berthe,

è sempre festa
charlotte de witte alle tre
del mattino spaghetti
per colazione io ballo

, ballo sempre
senza vedere che

da qualche settimana
quando io

, quando io ballo in rue berthe
ho la tristezza nel piede

da qualche settimana io ballo
battendo i piedi

, in rue berthe io ballo
come un bambino che non vuole
avere la testa sott’acqua

, io ballo come un ragazzo
che chiede a charlotte
di aiutarlo a inchiodare
la tristezza al suolo.

*

ieri sera in rue berthe le mie gambe
erano così pesanti che mi sembrava di
affondare

i miei piedi sprofondavano
nel parquet io
già annegavo

, battevo forte
– la punta il tallone la pianta
di tutto il piede battevo

e le mie gambe di dolore
sono diventate pietre

, il legno del parquet
è diventato pietra

, la pietra
colpiva la pietra

e un fuoco a poco
a poco si è acceso
sotto la tristezza
dei miei piedi

, ieri sera in rue berthe un fuoco
si è acceso e i miei piedi
non sprofondavano
più e io non
affondavo più
ieri sera

, ho ballato in rue berthe
con charlotte come
un annegato che prende fuoco
alle sei ho messo l’acqua
a bollire per la pasta

e ho dormito
nel locale dove
vivo ballo
in rue berthe

, nel piede la traccia
di una tristezza bruciata.


. . .

tape tape prend prend prend
tape prend prend tape tape
prend prend prend tape
prend prend tape tape
tape tape prend
prend tape
tape tape
prend
tape


      en un lancer,
      mélanger l’espace et le temps


          se nourrir du rythme,
          du plein, du vide, des
          éclairs de silence
          entre deux


tisser l’air
de mouvement


          (au creux du coude, bloquer :
          rien, ni même le vent, ne
          bougera le monde
         jusque-là roulé)


droit debout,
poursuivre


          tenir la mesure,
          la cadence à
          deux mains


respirer et ne pas oublier
d’avoir peur


         nécessairement, chuter :
         ramasser sans rougir et
         recommencer encore


du bout des doigts,
construire un
château d’air


         prêt à accueillir le visiteur
         à l’instant où il frappera :
         serrer la main


                la paume ouverte en
                trois petits
                 points


tape
prend
tape tape
prend tape
tape tape prend
prend prend tape tape
prend prend prend tape
tape prend prend tape tape
tape tape prend prend prend


. . .

batti batti prendi prendi prendi
batti prendi prendi batti batti
prendi prendi prendi batti
prendi prendi batti batti
batti batti prendi
prendi batti
batti batti
prendi
batti

        in un lancio,
        mischiare lo spazio e il tempo

         nutrirsi del ritmo,
         del pieno, del vuoto, dei
         barlumi di silenzio
         tra i due

tessere l’aria
di movimento

         (nella cavità del gomito, bloccare:
         niente, nemmeno il vento,
         muoverà il mondo
         fin lì rotolato)

dritto in piedi,
proseguire

         tenere il tempo,
         la cadenza con
          due mani

respirare e non dimenticare
di aver paura

         necessariamente, cadere:
         raccogliere senza arrossire e
         ricominciare ancora

dalla punta delle dita
costruire un
castello d’aria

          pronto ad accogliere il visitatore
          nel momento in cui busserà:
          stringere la mano

                il palmo aperto in
                tre piccoli
                punti

batti
prendi
batti batti
prendi batti
batti batti prendi
prendi prendi batti batti
prendi prendi prendi batti
atti prendi prendi batti batti
batti batti prendi prendi prendi


Copertina di Presque Siècle di Stephane Lambion
presque siècle di Stéphane Lambion (La Crypte, 2022)

Rimanere “ancorati alle stelle” in un mondo di soprusi: quattro poesie di Fady Joudah

Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Flavia Zerbini, vincitrice della Call for Translators “Poesia e Violenza”.

Fady Joudah è un poeta, traduttore e medico statunitense, figlio di rifugiati palestinesi. Nato nel 1971 a Austin, Texas, ha vissuto in Libia e in Arabia Saudita; ha poi frequentato la facoltà di medicina presso l’Università della Georgia e oggi lavora come medico d’urgenza a Houston, Texas. È membro di Medici Senza Frontiere dal 2001, e in quanto tale ha preso parte alle loro missioni umanitarie in giro per il mondo.

Secondo Joudah, «all life is an act of translation»: dalla capacità di dare corpo al reale attraverso il linguaggio, alla semplificazione necessaria nella comunicazione coi pazienti, al lavoro di traduzione dei poeti in lingua araba, tutte le attività della sua vita girano attorno a questo sforzo di trasmissione, di costruzione di legami nel rapporto con l’Altro. È un’apertura verso l’esterno di tipo cosmico, dal momento che l’autore fa sì che la sua poesia non rimanga incastrata nell’interpretazione tipica della poesia palestinese, legata alle vicissitudini di questo popolo e quindi di valore limitato alla contingenza, ma includa in sé il passato e il presente, l’Occidente e l’Oriente, rivolgendosi all’umanità intera nel racconto di esperienze e memorie universali.

A questo scopo, Joudah mette in opera nelle sue poesie un’elaborata ricerca linguistica che riguarda in particolare l’uso di vocaboli ad alto grado di specializzazione provenienti dall’ambito medico e naturale: l’autore crea così nel dettato poetico delle isole metaforiche sulle quali il lettore è spinto a soffermarsi e che contengono il significato ultimo del testo. Come nel linguaggio post-grammaticale di Pascoli, Joudah cerca la precisione per creare effetti di straniamento e significazione. La forte attenzione verso gli elementi fisici, naturali e corporali, viene dalla volontà dell’autore di mettere in scena la realtà come fatta di carne e sangue, universalmente segnata dalla malattia, dall’infermità e dai cicli di vita-morte. Il lavoro di Joudah si impernia quindi sul tema della sofferenza come luogo fisico e mentale che unisce i popoli, i generi, le specie e le persone; la storia di sradicamento, esilio e morte del popolo palestinese diventa il punto di partenza di un’interrogazione sulle modalità in cui la violenza, percepita come fatalità ineluttabile, si dispiega su tutte le creature terrestri, dalla natura martoriata dall’uomo ai popoli oppressi da guerre e sopraffazioni e costretti alla migrazione. Tutto questo avviene in prospettiva dialettica, in cui l’autore rifiuta la fissità delle risposte e decide di porsi tra «sfumatura e semplificazione» confrontandosi direttamente con il lettore, il “noi” che è il fine ultimo di queste liriche. Qui presentiamo alcune poesie del suo terzo e quarto libro di poesie, Footnotes in the order of disappearance (2018), e Tethered to stars (2021), scritto a cavallo della pandemia di Covid-19.


Da Tethered to stars, 2021

Gemini

After yoga, I took my car to the shop.

Coils, spark plugs, computer chips, and a two-mile walk

home, our fossilized public transportation, elementary

school recess hour, kids whirling joy, the all-familiar

neighborhood. And then another newly demolished house.

How long since I’ve been out walking? A message appeared

on my phone: an American literary magazine

calling for a special issue on Jerusalem, deadline approaching,

art and the ashes of light. At the construction site

the live oak that appeared my age when I became a father

was now being dismembered. The machinery and its men:

almost always men, poor or cheap labor, colored

with American dreams. The permit to snuff the tree

was legally obtained. The new house is likely destined

for a nice couple with children. Their children

won’t know there was a tree. I paused to watch

the live oak brutalized limb by limb until its trunk stood

hanged, and the wind couldn’t bear the place:

who loves the smell of fresh sap in the morning,

the waft of SOS the tree’s been sending

to other trees? How many feathers will relocate

since nearby can absorb the birds?

Farewell for days on end. They were digging a hole

around the tree’s base to uproot and chop it

then repurpose its life.

Gemelli

Dopo lo yoga, portai la macchina al negozio.

Bobine, candele d’accensione, chip di computer, e due miglia a piedi

per tornare a casa, i nostri trasporti pubblici fossilizzati, l’intervallo

delle scuole elementari, i bambini in un turbinio di gioia, il quartiere

così familiare. E poi un’altra casa demolita da poco.

Da quant’è che camminavo? Sul mio telefono

comparve un messaggio: una rivista letteraria americana

cercava contributi per un’edizione speciale su Gerusalemme, e la scadenza era vicina,

arte e le ceneri della luce. Nel cantiere

la quercia viva che sembrava avere la mia età quando divenni padre

veniva ora smembrata. La macchina e i suoi uomini:

quasi sempre uomini, manodopera a basso costo, povera, del colore

del sogno americano. Il permesso di estirpare l’albero dal suolo

era stato legalmente ottenuto. La nuova casa sarà probabilmente assegnata

a una cordiale coppia con figli. I loro bambini

non sapranno che lì c’era un albero. Mi fermai a guardare

la quercia viva brutalizzata ramo per ramo finché il tronco non rimase

esposto, e il vento non poté più tollerare il luogo:

chi ama l’odore di linfa fresca al mattino,

un SOS esalato che l’albero stava inviando

agli altri alberi? Quante piume si trasferiranno

potendo le vicinanze farsi carico degli uccelli?

Addio per giorni e giorni. Stavano scavando un buco

attorno alla base dell’albero per sradicarlo e tagliarlo a pezzi

poi rivenderne la vita.


House of Mercury

The storm funneled through town with destructive intent.

Fractured tree limbs, toppled fences, ripped shingles

like tufts of hair. Dad woke up to snaps and creaks,

the two live oaks in the front yard,

but in the backyard the nearly uprooted fig tree

brought him to tears. In the morning

two neighbors, one Black, one White

came over to bandage the oaks after debridement.

A third, an Indian, stabilized the fig tree,

pitched it like a tent with rope and stake.

On the second day, I cut up the rest of the branches,

deepened the earth for the fig, enjoyed a long lazy

lunch with my parents, and on the way home heard

a radio report on whether the sky is bluer

during a pandemic. The third day

I took my son and daughter back,

we bundled up the heaps, nursed the flower beds,

delighted in another languid lunch,

hummus, falafel, shakshuka

followed by tea and stories about fear

that comes to nothing. The kids said it was the best falafel

they’d ever had. And Mom said that going forward

her morning glories will get the light they deserve.

Casa di Mercurio

La tempesta attraversò la città con l’intenzione di distruggere.

Arti di albero fratturati, steccati abbattuti, tegole strappate

come ciocche di capelli. Papà si sveglio al suono di schiocchi e crepitii,

le due querce vive in cortile,

ma nel giardino dietro casa l’albero di fico quasi sradicato

lo fece piangere. In mattinata

due vicini, uno Nero, uno Bianco

vennero a fasciare le querce dopo lo sbrigliamento.

Un terzo, un indiano, stabilizzò le condizioni del fico,

lo piantò come una tenda con corda e pali.

Il secondo giorno, tagliai il resto dei rami,

sprofondai il fico nella terra, godetti di un lungo pranzo

pigro con i miei genitori, e sulla strada di casa sentii

un servizio radio sulla possibilità di un cielo più blu

durante una pandemia. Il terzo giorno

riportai a casa mio figlio e mia figlia,

legammo insieme i sacchi, badammo alle aiuole,

ci deliziammo con un altro languido pranzo,

hummus, falafel, shakshuka

seguiti da tè e storie sulla paura

che si dilegua. I bambini dissero che era il miglior falafel

che avessero mai mangiato. E mamma disse che d’ora in poi

le sue campanule avrebbero avuto la luce che meritavano.


Sandra Bland, Texas

On the highway home last night

you reappeared to me opposite where I was headed,

so tell me, was it

a cigarette that bothered your jailer so?

(They let me go the one time I blew smoke

into a trooper’s face.) In the footage

your final revolt. I stood before you

more than once, more than sex

and color separated us, and why

should you call a doctor kin. Sandra Bland,

we broke you down,

I say your name, how broke. You died

on the day the Hollywood sign

was dedicated. For you I name

this town, and after every woman

the police killed, a town.

*

Dear Sandra,

I just got done with hours

of Civil War documentaries. “Useless,

useless,” John Wilkes Booth said

of his hands as his final words. An echo

of Kurtz’s “horror.” The Civil War, it turns out,

set a standard for modern wars,

one century into another.

And as the Confederate commander

of Andersonville prison camp felt the noose

around his neck, he, too, said

he was merely obeying orders.

Armies said. The police said.

The doctor, triaging collaterals, said.

The historian, wanting us to be the greatest,

said. The Civil War is a pointer to

future liberation for all kinds of folk, a milestone

in which no clear victor emerges,

since time is the master to whom

even literature submits.

*

We have schools,

counties, forts, clinics,

and at one point a hospital

named after Jefferson

Davis in Texas.

We have nothing

named after you.

Will you excuse me,

Sandra, for naming a poem

an imaginary place that,

as with any home,

one doesn’t inhabit

all alone, even if

in a coffin one is

all that there is?

And one, not even,

and far more.

*

Which “we” is it I speak of? Those of us

who didn’t play a part in your disintegration know

that we play a part. Not all players even

the field. We’re a catalog that goes on like hypha.

If it is resuscitation I seek

through your citation

it isn’t resuscitation I seek. Your mother called you

Sandy and with countless others loved your smile

beyond my arithmetic of commemoration.

Sioux City, Tucson, Tuskegee, Seattle.

*

To persuade me that war is retribution

for unspeakable sins, a comeuppance, a bit

theological for me all this. But to think

of war as entropy’s work, order

and disorder in a waltz that sees

not the identities we historicize into chains

of absolute ghosts? How is it that

women (to mention one example) have always

suffered greater injustice, endured

more pain than men have,

what entropy is this

that singles out?

*

History has rendered this kind of math incalculable.

History manufactured out of and against our biology,

seduced as a dog is lured with a treat.

Between nuance and essentialization, I sing myself.

Between cost-benefit ratio and the unattainable

I see freedom in amendments I further amend.

Between my trauma and another’s passage,

speaking and the spoken for.

*

It’s clear you’re my pretext, Sandra, you were

an Aquarius (my dad’s as well). But do zodiacs exist

for birth into the underworld? If so, then on the date

your breath no longer tethered your body, you became

a Cancer, proliferative, this nation’s sign.

*

Under that sign, ten years before your murder,

I asked myself in Darfur, What is the threshold

for suffering to create us equal? It’s low

enough for anyone to dance the limbo

and stay on their feet the whole

song through, if we choose. I fear our twin

consciousness cannot hold. Our voodoo

and epigenetics, our quantum and wizards,

snakes and ladders. Yet my weakest faith

(when I remember it) is that I don’t visit

my grief upon those whose pain is more acute

than mine, or is chronic with more frequent flares.

Is there an equation to help me exempt

others from my loyalty oath to taxonomy,

a step in my deliverance from woe?

*

Nuance, too, competes with generality

for erasure, a visibility each mode can perform

well: where is that threshold?

So that prudent justice isn’t laundered

against the baler angels of our nature, Sandra,

I rise up from my apoptosis under

a cherry tree into an olive. What crimes

won’t I pardon or dissipate into energy

if suffering is folded in space-time?

Is our empathy’s nebula pacifist

or a ruse of the tongue sat in dentition?

I reckon the ten words in which Honest Abe

counted “the people” a trinity at Gettysburg

are what the Black Panthers heard.

*

Ms. Bland,

I also learned

that singularity

is achieved only

when one is torn

to irreconcilable

pieces, decomposed

six fathoms up,

down, lateral,

unflagged, indivisible,

undertow for all.

Ms Bland,

how much

of me is you

and you is we?

Sandra Bland, Texas

Sulla strada di casa la scorsa notte

mi sei riapparsa di fronte a dov’ero diretto,

allora dimmi, è stata

una sigaretta a far dare di matto il tuo carceriere?

(Avevano lasciato perdere quella volta che ho soffiato il fumo

in faccia a un soldato). Nel filmato

la tua ultima protesta. Siamo stati faccia a faccia

più di una volta, più di quanto il sesso

e il colore ci separassero, e perché

dovresti chiamare fratello un dottore. Sandra Bland,

ti abbiamo spezzato,

io dico il tuo nome, così spezzato. Sei morta

il giorno in cui il cartello di Hollywood

è stato inaugurato. Col tuo nome battezzo

questa città, e col nome di ogni donna

che la polizia ha ucciso, una città.

*

Cara Sandra,

vengo da ore di documentari

sulla Guerra civile. «Inutili,

inutili», John Wilkes Booth disse

delle sue mani come ultime parole. Un’eco

dell’«orrore» di Kurtz. La Guerra civile

ha definito lo standard per le guerre moderne,

un secolo dopo l’altro.

E mentre il comandante confederato

del campo di prigionia di Andersonville sentiva il cappio

attorno al collo, anche lui disse

che stava solo eseguendo gli ordini.

Gli eserciti dissero. La polizia disse.

Il dottore, diagnosticando garanzie, disse.

Lo storico sognando che siamo la più grande potenza

disse. La Guerra civile è un avviso

per la futura liberazione di ogni tipo di popolo, una pietra miliare

in cui non emerge un chiaro vincitore,

perché il tempo è il padrone a cui

anche la letteratura si sottomette.

*

Abbiamo scuole,

contee, basi militari, cliniche,

e a un certo punto un ospedale

che si chiama Jefferson

Davis in Texas.

Non abbiamo dato

il tuo nome a nulla.

Mi scuserai

per aver intitolato una poesia

a un luogo immaginario in cui,

come in qualunque altra casa,

uno non abita

tutto solo, anche se

in una bara uno è

tutto ciò che c’è?

E uno, neppure,

e uno, molto di più.

*

Di quale “noi” sto parlando? Quelli di noi

che non giocarono una parte nella tua disintegrazione sanno

che giochiamo una parte. Non siamo tutti giocatori ma anche

campo. Siamo un catalogo che si espande come un’ifa.

Se è la rianimazione che cerco

attraverso la tua citazione

non è la rianimazione che cerco. Tua madre ti ha chiamato

Sandy e con innumerevoli altri ha amato il tuo sorriso

al di là della mia matematica della commemorazione.

Sioux City, Tucson, Tuskegee, Seattle.

*

Persuadermi che la guerra sia retribuzione

per peccati ineffabili, un giusto castigo, un po’

teologico per me tutto questo. Ma pensare

della guerra come lavoro dell’entropia, ordine

e disordine in un valzer che non

vede le identità che storicizziamo in catene

di fantasmi assoluti? Com’è che

le donne (per dirne una) hanno

sofferto un’ingiustizia più grande, sopportato

più dolore degli uomini, che entropia è questa

che seleziona?

*

La storia ha reso questo tipo di matematica incalcolabile.

La storia fabbricata fuori da e contro la nostra biologia,

sedotta come un cane è attirato con un premio.

Tra sfumatura e semplificazione mi canto.

Tra il rapporto costi-benefici e l’irraggiungibile

vedo libertà in emendamenti che ulteriormente emendo.

Tra il mio trauma e il passaggio di un altro,

colui che parla e colui a nome del quale si parla.

*

È chiaro che sei il mio pretesto, Sandra, eri

un Aquario (come lo è mio padre), ma esistono gli zodiaci

per la nascita nell’aldilà? Se fosse così, allora nel giorno

in cui il tuo respiro non ha più legato insieme il tuo corpo, sei diventata

Cancro, proliferante, segno di questa nazione.

*

Sotto quel segno, dieci anni prima del tuo omicidio,

mi sono chiesto a Darfur, qual è la soglia

della sofferenza che ci fa uguali? È bassa

abbastanza per chiunque per ballare il limbo

e restare in piedi fino alla fine della

canzone se lo scegliamo. Temo che le nostre coscienze

gemelle non possano resistere. Il nostro voodoo

e l’epigenetica, il nostro quanto e i maghi,

gioco dell’oca. Eppure il mio dogma più debole

(quando me ne ricordo) è che non visito

il mio dolore presso coloro il cui dolore è più acuto

del mio, o è cronico con più frequenti fitte.

C’è un’equazione che mi aiuti a esentare

gli altri dal mio giuramento di lealtà alla tassonomia,

un passo in avanti nella mia liberazione dalla pena?

*

La sfumatura, pure, fa a gara con la genericità

per cancellare, una visibilità che entrambi i modi sanno performare

bene: dov’è quella soglia?

Perché la giustizia prudente non sia lavata e stirata

contro gli angeli-pressa della nostra natura, Sandra,

riemergo dalla mia apoptosi sotto

un ciliegio in un’oliva. Quali crimini

non condonerò o dissiperò in energia

se la sofferenza è ripiegata nello spazio-tempo?

È la nebulosa della nostra empatia pacifista

o uno stratagemma della lingua chiusa nei denti?

Immagino che le dieci parole con cui Honest Abe

contò «the people» in una trinità a Gettysburg

siano quello che le Black Panthers sentirono.

*

Ms. Bland,

ho anche imparato che l’eccezionalità si raggiunge solo

quando uno è lacerato

in pezzi irreconciliabili, decomposto

sei braccia verso l’alto,

verso il basso, di lato,

instancabile, indivisibile,

corrente di ritorno per tutti.

Ms. Bland,

quanto

di me sei tu

e tu sei noi?


Da Footnotes in the order of disappearance, 2018

Beanstalk

I was twelve when I asked my older brother about the clitoris. He told me it was a structure on the outside of a woman’s vagina that was the size of a chickpea. If you hold it between your fingers, he said, a woman instantly melts, and he made a soft gesture of rubbing his index finger and thumb together, as if he were dusting off flour after eating a piece of bread, or stroking the wing of a moth. He’d never seen one, I was sure of it, but I could sense he wasn’t lying. He’d felt one maybe in the stairwell of some building that wasn’t fully housed on the campus where we lived in Riyadh. He had a reputation for being a Don Juan, which got him in trouble with the local boys. But the size of a chickpea? When I went to medical school the dimension never left my mind. If his fingers were accurate, objective, not subject to the delirium of pleasure at fourteen, then there’s only one explanation: he must have encountered a girl with clitoromegaly. A cadaver had a large penis in our anatomy lab the first year of medical school. The tiniest woman in class, who went on to become a pathologist, could not get over the size of it. She kept saying, “Look at the size of it! How can that fit?” Two years earlier, while taking premed anatomy, when it was penis time, and the cloth was removed, I don’t know why I uttered these words under my breath: “So small yet so many troubles.” A classmate who was standing right behind me approached me after class to tell me she was moved by my remark. She had been a victim of rape. I was stunned. She wanted to talk. She told me she lived in a house in the middle of Nowhere Road, in Athens, Georgia.

Pianta di fagioli

Avevo dodici anni quando chiesi a mio fratello maggiore cos’era il clitoride. Mi disse che era una struttura all’esterno della vagina di una donna grande come un cece. Se lo tieni tra le dita, disse, una donna si scioglie all’istante, e delicatamente sfregò insieme l’ indice e il pollice, come se si stesse togliendo dalle mani la farina dopo aver mangiato un pezzo di pane, o accarezzando le ali di una falena. Lui non ne aveva mai visto uno, ne ero sicuro, ma capii che non stava mentendo. Ne aveva sfiorato uno forse nella tromba delle scale di qualche edificio sfitto nel campus dove vivevamo a Riyadh. Aveva la reputazione di essere un Don Giovanni, cosa che lo aveva messo nei guai con i ragazzi locali. Ma un cece? Mentre frequentavo la facoltà di medicina queste dimensioni non lasciarono mai la mia mente. Se le sue dita erano precise, obiettive, non soggette al delirio del piacere di un quattordicenne , allora c’era una sola spiegazione: aveva incontrato una ragazza con clitoromegalia. Il primo anno della facoltà di medicina, nel nostro laboratorio di anatomia c’era un cadavere con un pene molto grande. La donna più minuta della classe, che divenne poi una patologa, non riusciva ad accettarne la misura. Continuava a dire, «Guarda quant’è grande! Come fa a entrare?». Due anni prima, mentre seguivo anatomia in premed, quando arrivò il momento del pene, e fu rimosso il telo, non so perché dissi queste parole sottovoce: «Così piccolo eppure così tanti guai». Una compagna di classe che era dietro di me mi si avvicinò dopo lezione per dirmi che si era commossa per la mia osservazione. Era stata vittima di uno stupro. Rimasi sbalordito. Lei voleva parlare. Mi disse che viveva in una casa nel bel mezzo di Nowhere Road, a Athens, Georgia.

I gabbiani e l’acciaio. Su “La terra di ferro” di Pasquale Pinto

Nota di lettura a cura di Simone De Lorenzi.

La pubblicazione de La terra di ferro e altre poesie (1971-1992) di Pasquale Pinto, avvenuta lo scorso ottobre per i tipi di Marcos y Marcos, riempie più di un vuoto. Innanzitutto la scelta antologica, curata da Stefano Modeo, prosegue l’operazione portata avanti dalla casa editrice – cominciata nel 2019 con le Poesie scelte (1953-2010) di Luigi Di Ruscio – di riscoperta e divulgazione della cosiddetta “letteratura operaia”, il filone di testimonianze dell’esperienza di fabbrica che solo ultimamente sta ricevendo adeguata ricognizione critica. Ma soprattutto riporta alla luce un autore dimenticato e caratterizzato anche in vita da una certa marginalità; marginalità che può essere documentata anche solo scorrendo le sedi di pubblicazione dei suoi libri, usciti per edizioni minori (In Primo Piano, Pentapress) e atipiche (il Centro sociale Magna Grecia, l’Assessorato alla Cultura del Comune di Taranto e la Biblioteca della Provincia di Taranto); di una raccolta, Il parco depresso, non si è neppure a conoscenza della data di pubblicazione.

Pasquale Pinto (1940-2004), operaio alla Italsider di Taranto dal 1964 al 1990, scrive della propria esperienza di fabbrica, ma ancora prima scrive del Sud nel quale vive: l’esperienza operaia di Pinto in quella che ora è conosciuta come l’ex-Ilva ancora non si affaccia nei suoi primi versi, impegnati piuttosto a registrare le risposte della sua terra alle sollecitazioni del tempo. La Puglia di Pinto è animata da un’umanità semplice, sabiana (donne, uomini, vecchi e bambini che sono spose, vedove, madri, sorelle e figli; marinai, naufraghi, mendicanti e infermiere): «Era la vita / che cade umida nelle tasche / e s’avvicina ai moli / scalciando l’ombra dei muri». Sono figure ferite e abbattute, ma che emergono vive e presenti in queste pagine assai frequentate dalla morte: «Ho trovato giorni / che per la loro magrezza / volavano più in alto dei morti».

Pinto mette in versi quello che Simone Giorgino, nell’introduzione, chiama un «idillio incrostato di ruggine»: la sua voce non ignora la bellezza di una terra che, sulla via dell’industrializzazione, conosce profondi cambiamenti – tanto a livello paesaggistico quanto sociale e antropologico – e il dipinto della Taranto antica, magnogreca, si intreccia a quello della Taranto contemporanea. L’ambientazione principe di In fondo ad ogni specchio (1976) e Il capo sull’agave (1979) è infatti un paese indeterminato ma chiaramente meridionale, nel quale fa la sua comparsa una dimensione moderna che affianca, contrastandolo, l’idillio atemporale tarantino: «Ho visto in un market / crisantemi con rugiade artificiali / e garofani di plastica / turbarsi per l’odore di una mano»; «C’è una luna su una terrazza / ferita da programmi televisivi».

Ai consueti mitologemi paesaggistici delegati alla rappresentazione del Meridione, che giocano con il cliché senza impigliarsi nelle sue maglie – il mare, il sole, le piante, i gabbiani, la luna, i tramonti – affianca e sovrappone elementi che si è solitamente portati ad associare al Nord Italia urbano. Così il «cielo di vetro» e «piombo» tarantino non è dissimile dal «cielo contemporaneo […] colore di lamiera» o «d’acciaio» della periferia milanese ne La ragazza Carla di Pagliarani (e agli «ufficio a ufficio b ufficio c» frequentati dalla dattilografa fa eco la «portineria “A”» della fabbrica), mentre la vita tra gli altiforni è equiparabile agli «asettici inferni» della Pirelli messi in scena da Sereni in Una visita in fabbrica (non più, però, osservata dal punto di vista straniato del visitatore, ma testimoniata dal suo interno). D’altronde un operaio può essere, indistintamente, «forse del Nord / forse del Sud», perché l’esperienza restituita sulla pagina – che pure parte da un dato vissuto personalissimo – nelle sue coordinate di fondo è transregionale: ovvero, in un certo senso, universale.

È con La terra di ferro (1992) che entra a gran voce la denuncia operaia, già anticipata in alcuni Frammenti senza titolo del 1978. In uno scenario caratterizzato da alienazione, ripetitività e sfruttamento, la morte si fa concreta («Un giovane che gli lavorava accanto / è corso in un lavandino / a svuotargli / una scarpa di sangue») e non è più solo naturale o esistenziale. Attore del poemetto è un soggetto massificato («20.000 cartellini / attendono una stretta di mano / all’alba a sera a notte»), che resta generico anche quando individuato («Tu Walter / Tu Pino / e tu Mario / alla fine di ogni turno / ricompravate intatta la vita»; «Salvatore / classe ’41 / appendicite del ’57 / riaperta con un colpo / di tosse / su un lenzuolo rosso»). L’acciaieria non è però mai presa come luogo asettico chiuso in sé, è piuttosto in dialogo – per quanto negativo – con la natura esterna ad essa («Una gru / s’è capovolta sui binari. / […] / Su un fianco / il suo numero / si meraviglia / del cielo») a perturbare definitivamente quel che di idillico è rimasto nel paesaggio tarantino, in un’amara presa d’atto: «Più nessuno ha l’erba negli occhi».

Nonostante il doppio status di poeta e di operaio, Pinto non si sente latore di un mandato sociale e con lucida consapevolezza denuncia l’insufficienza della letteratura: «Non vi porto certezze. / (mai i poeti modificarono il sangue) / Ho solo da parlarvi sottovoce / con l’abito consunto di parole». Lungi dall’essere un intellettuale engagé, Pinto scrive per dare voce a un’esigenza innanzitutto privata, ma che può diventare solidaristica condivisione di esperienze altrui: «Chi parlerà di voi uomini rossi / senza età senza bestemmie? / Chi parlerà dei vostri Natali / accanto alla ghisa lontano dai canneti / ove vivono gli ultimi gabbiani? // Pasquale Pinto è solo un uomo / costantemente denunciato / dai rivoli delle vostre fronti».

Lo stile di Pinto, in bilico tra andature narrativo-prosastiche e soluzioni liricheggianti, incorpora diverse suggestioni: alterna dizioni crude («Un fusto è scoppiato in acciaieria / come una palla d’acciaio / su un birillo di carne») e delicate («I bimbi mettono in equilibrio il primo mamma / sulle corde delle ugole»), pronunce sentenziose ma senza gravità («La folla ha sempre studiate miopie / per gli uomini che si amano») e scalfitture ironiche («I suoi figli hanno pantaloni / appena sopra le ginocchia / a 8 anni / hanno già letto / tutto Fleming»). È una poesia legata alla materialità («sguardi di vetro», «porcellana di mattini», «morti di ferro», «piombo dei tramonti», «vetri di luna», «lamiere di burro») e ai colori, che mescola tinte dal significato multiplo: il giallo è del sole ma anche della ghisa, l’azzurro del mare e del cielo ma anche dei vetri taglienti e il rosso può indicare tanto i tramonti quanto il sangue.

Nonostante la sostanziale marginalità dell’autore all’interno del panorama letterario, Pinto era in dialogo con autori e critici del tempo: due liriche sono indirizzate a Giorgio Caproni e Giacinto Spagnoletti, tra gli esegeti che intercettarono il valore della sua poesia. Il merito del lavoro di Stefano Modeo sta anche nell’aver sopperito, almeno parzialmente, all’accessibilità dell’opera di un autore i cui scritti restano ancora adesso di difficile reperimento nelle biblioteche al di fuori della Puglia; l’auspicio è quello di riportare l’attenzione anche critica su una figura che – bastano i frammenti testuali qui presentati a mostrarlo chiaramente – sarebbe limitante incasellare sotto l’etichetta di “poeta operaio”.


Da In fondo ad ogni specchio (1976)

C’è una nudità di rami

C’è una nudità di rami
che cerca il suo sangue in un tramonto
e piume ancora calde
di uccelli senza nome

C’è un paese rotto dal vento
una porcellana di mattini immobili
che corrono sulle ringhiere dei ponti

Ed una madre
ha ripulito gli spigoli del volto
per sorreggere il figlio lontano

Da Il capo sull’agave (1979)

Ho un cuore dalla rilegatura antica
che cerca la sua polvere in una pagina.
Ma forse ho solo parole
per dare ad ogni morto il suo nome.
Mi salvarono talvolta le tue mani
che da sole bastavano
a sorreggere il piombo dei tramonti.
Io parlo
per tutte le foglie cadute sulla terra
per tutto il sangue sceso nei chiusini
e per tutti i morti
che si lamentano dell’urina nelle mani.

Da La terra di ferro (1992)

[…]
Nelle officine i saldatori inveiscono nelle pupille
e sulle lamiere di burro.
A tutte le ore si prepara una squadra.
Il tempo fa fagotto ogni ora
si appartiene ad uno stesso
sudore.
[…]
C’è un operaio
classe 1922
che scarica pacchi
da 40 anni.
[…]
Sud mio sud
ove t’hanno portato
i riverberi delle colate?
[…]
Mentre l’estate si suicida nel sangue dei papaveri
una testa è rotolata
su un traversino ferroviario
i capelli in ordine
una ruga improvvisa di taglio sui binari.
[…]


Stefano Modeo (Taranto, 1990) vive e lavora come insegnante a Treviso. Ha esordito nel 2018 con La terra del rimorso (Italic Pequod). Compare nelle antologie Abitare la parola – Poeti nati negli anni ’90 (Ladolfi editore 2019) e I cieli della preistoria. La nuovissima poesia pugliese (Marco Saya 2022). Fa parte della redazione della rivista di poesia «Atelier», del blog «Universo poesia – Strisciarossa» e si occupa di poesia italiana contemporanea per la rivista di critica letteraria norvegese «Krabben – Tidsskrift for poesikritikk».

Oltre a La terra di ferro e altre poesie di Pasquale Pinto, nel 2023 ha curato l’antologia di Raffaele Carrieri Un doppio limpido zero (Interno Poesia) ed è comparso nel sedicesimo volume dei Quaderni italiani di poesia contemporanea editi da Marcos y Marcos. Di recente per l’Almanacco de Lo Spazio letterario ha risposto alle domande di In teoria e in pratica, l’inchiesta a cura della nostra rassegna di poesia contemporanea Raggi γ.