Come fare femminismo in versi scritti? Qualche considerazione su modalità e contraddizioni

In questo contributo, Letizia Imola riflette sulle modalità di fare femminismo in versi scritti, partendo da un’esperienza personale e da letture significative. Proponendo tre poesie inedite e considerazioni stilistiche, l’intervento esplora tensioni, resistenze e possibilità legate alla scrittura femminista, formulando ipotesi aperte su forma, militanza e trasmissione.

In pieno testo
Per caso e per privilegio ho vissuto tre mesi ancora più all’estero di quanto non ci viva normalmente. L’agio ha fatto sì che avessi ancora più tempo e più spazio per stare da sola, leggere e scrivere. (L’eccezione a questa triade è stata una nuova amica che credo un’amica per la vita, una compagna). In quei tre mesi ho “fatto ricerca” in più direzioni di quelle che pensavo. Ho scritto sette poesie, una cifra per me sorprendente. Nonostante le guerre sempre nelle orecchie, ho vissuto talmente in pace da acquisire il recul che stavo aspettando. L’attesa necessaria perché un’altra ondata di ordine (interventi che sento immediatamente come giusti) investisse quello che spero presto sarà il mio libro.

Dopo un mese ho scritto un testo credo femminista e mi sono chiesta perché. A posteriori ho pensato che abbia più senso interrogarmi sul come partendo da un dato incontrovertibile, il testo.
Avevo portato con me pochi libri, quasi tutti scritti da donne. Sentivo di averne bisogno. Infatti una somma di scrittici e la nuova amica mi hanno aiutata a resistere nella casa della discordia quel primo mese. Della Ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda avevo già letto le prime cinquanta pagine circa un anno prima. Ero entusiasta, ma quella volta non avevo molto tempo. Ne avevamo comunque parlato con un vecchio amico. Lui ci ha scritto un testo. La stessa cosa è successa a me. Mi era già capitato di scrivere un testo in versi dopo una lettura in prosa. In parte è l’effetto naturale di certe scritture, in parte è una volontà di capire e di tradurre. Per l’amicizia, per quel testo che si intitola «I saggi di F.F.», questo:

Il libro di R.R.

Scrivere in prima persona
con poca umiltà ma senza delirio
dà il senso del limite al singolo;
basta cercare nel genere giusto
e capisci che la finzione
è per chi ha già capito tutto
o per chi non vuole capire.

La pasta sfoglia è termine di paragone
per gli strati d’identità femminile
e per la società che si solleva:
il cerchio del libro si chiude.

Scrivi un appunto nel diario
se riesci persino un piccolo testo
per poi rileggerlo e ripetere
secondo i tuoi tempi nel tempo fermo;
solo grazie al modo francofortese
questa cosa rimane per la vita
ma ricorda: sono cose da poco
le cose che non mutano.

Vorresti essere di poche parole
e non temere la ripetizione;
almeno c’è qualche nuova certezza:
hai studiato troppo gli uomini
una rivista non è un’antologia
testimonianza è il contrario di politica
la forma è inevitabile.

Il testo conta ventisei versi. Circa la metà hanno un rapporto stretto con Rossanda, per i restanti è questione di altro; qualcosa che potrei chiamare l’incontro tra Rossanda e un sostrato di nervi scoperti. Dai nervi credo sia venuto il ‘tu’, che io uso davvero poco. Rileggendo individuo cose che mi sono state fatte notare. La dizione composta e a tratti lapidaria (e il modo in cui essa si esplica in sequenze versali costituite di volumi netti e ben squadrati). Un testo enunciativo controllato formalmente dove è avvenuto mascheramento/ raffreddamento/nascondimento, dove in realtà non è difficile risalire alle fonti, rimangono dei frammenti a mo’ di segnali destinati a essere più o meno impercepiti. Viene da chiedersi: è una postura generazionale? Una modalità di stare? Una modalità di sguardo che filtra la dimensione emotiva? Riconosco un mio uso della punteggiatura. Voglio credere che non c’è scimmiottare, non c’è pastiche. Sento la mia voce formale attraversata solo tematicamente da Rossanda. Forse è per questo che mi sembra che funzioni. Allora è bello riportare le due citazioni sulla pasta sfoglia. La prima si trova a pagina 37: «È stratificata come una pasta sfoglia l’identità femminile.» La seconda a pagina 382: «La società si era sollevata in quei due anni come una pasta sfoglia.» Rossanda è per la pagina scritta che si legge e si rilegge secondo i propri tempi. In questo senso si è definita “francofortese”. Per lei bisogna adattarsi al tempo fermo dello scritto una volta per sempre. Tutto il resto è una trappola. Bisogna fermarsi, tornare indietro. Bisogna rileggere. E così ho chiarito due riferimenti. C’è bisogno di dire altro? Per ora non credo. Né per me, né per chi legge.

Ci vorrebbe l’introduzione
Nel parlare di poesia femminista è fondamentale operare un distinguo – tutt’altro che scontato – rispetto a ciò che viene genericamente definito poesia femminile, nel senso di scritta da donne. La poesia femminista non coincide necessariamente con la scrittura femminile: è una pratica esplicitamente orientata a interrogare, criticare o sovvertire le strutture patriarcali e le dinamiche di potere di genere, e può essere scritta da soggettività non solo femminili, ma anche maschili, trans, non binarie e queer. Questo ambito si declina in forme molteplici e spesso intersezionali, come dimostra la poesia femminista delle minoranze, in cui le dimensioni di genere, razza, classe, orientamento sessuale e identità di genere si intrecciano profondamente. Figure come Audre Lorde, bell hooks e Adrienne Rich, accanto a voci affini come Monique Wittig, Cheryl Clarke, Pat Parker, June Jordan, Eileen Myles o Nicole Brossard, non solo hanno coniugato militanza politica e ricerca formale, ma hanno anche ribadito con forza il valore della poesia come spazio performativo, orale e comunitario. Nella poesia lesbica, in particolare, l’identità sessuale diventa veicolo di resistenza e di reinvenzione del linguaggio, spesso in tensione con la normatività eterosessuale e con le strutture canoniche del discorso poetico. Più recentemente, le scritture poetiche trans, non binarie e queer hanno contribuito ad ampliare ulteriormente l’immaginario e la grammatica della poesia femminista, decostruendo le dicotomie di genere e aprendo nuovi spazi per l’espressione del corpo, della soggettività e della trasformazione. Autor* come Alok Vaid-Menon, Juliana Huxtable, Kae Tempest, Jay Hulme o Danez Smith portano avanti una pratica poetica che è insieme performativa, politica e radicalmente sperimentale, spesso al confine tra poesia orale, spoken word e gesto corporeo.
Accanto a questa linea più propriamente militante si sviluppa, soprattutto nel contesto nordamericano, una forma ibrida e sempre più influente di saggismo lirico femminista che attraversa i confini tra poesia, autobiografia e teoria. Autrici come Anne Carson, Maggie Nelson e Claudia Rankine hanno ridefinito le possibilità del discorso poetico, fondendo riflessione critica e lirismo in un gesto insieme intellettuale e corporeo, che spesso si apre anch’esso alla dimensione performativa. Non è un caso che queste pratiche abbiano trovato particolare diffusione negli Stati Uniti, dove la tradizione orale, la spoken word e le forme ibride di espressione hanno da tempo abbattuto le barriere tra testo scritto e voce. In questo contesto, la poesia torna a essere non solo oggetto di lettura ma gesto incarnato, relazione, azione politica.

Se questa fosse un’introduzione, ci vorrebbe anche un paragrafo sul panorama italiano. Non solo sul versante poetico – e qui dovrebbe figurare un lungo elenco dei nomi giusti da cui mi defilo – ma anche teorico, a partire da tutto quel terreno pregresso che ha preso forma attraverso il pensiero della differenza, e che oggi dovrebbe entrare in dialogo con prospettive intersezionali complesse. Ma soprattutto, bisognerebbe aver letto, ascoltato, attraversato, per potersi riconoscere in un certo pensiero e non solo nominarlo. Per potersi chiedere: che pezzo di strada è stato percorso? E io, nel mio modo di leggere, di guardare il mondo, di scrivere – che spostamento metto in atto?

What’s better ?
Torno al mio interrogativo sul come e magari una risposta provvisoria (in campi come questo molte cose sono transitorie, le proposte si rinnovano) dirà qualcosa sul perché.

Come fare femminismo in versi scritti? [1]

Provo a scomporre la domanda che mi sono posta nelle sue cinque componenti. La prima è appunto il come e riguarda le modalità al plurale, perché la questione implica necessariamente una molteplicità di vie. La seconda è il femminismo come sineddoche di militanza, sperando che il discorso sia trasferibile a un piano intersezionale. La terza componente è la forma versale, escludendo per ora la prosa poetica (questo solo perché la domanda per ora la pongo a me stessa adesso che scrivo poco in prosa). La quarta è la dimensione dello scritto, ovvero versi che non nascono con un intento recitativo, ma già sanno che rimarranno sulla pagina (a parte, forse, qualche presentazione più o meno intima che proverà a uscire dalla nicchia). Il quinto elemento è che si tratta di una domanda: l’interrogativo è contingente quanto lo è il suo decorso qui presentato, meglio ribadirlo.

Se su questa questione a livello terminologico è stato facile parlarmi dentro, non lo è stato a livello esperienziale. Provo a farla semplice anche qui: avverto una sensazione di pericolo di fronte al femminismo in versi. Infatti, è qualcosa che non ho mai cercato, tutt’ora non cerco e ho scoperto che vale altrettanto per una serie di mie coetanee che si definiscono femministe e che scrivono poesie. Cerco il femminismo nella prosa, soprattutto come intenzione primaria dell’opera. Molto banalmente, credo che la prosa riesca a realizzare in maniera compiuta lo snodarsi e il racconto del pensiero femminista. Credo che la prosa sia lo spazio letterario giusto per articolare la denuncia, i problemi di unità, quelli di spessore simbolico e tanto altro. Il pericolo che avverto – la retorica – mi annichilisce. Mi spaventa lo slogan sulla pagina, in corteo invece lo urlo anche io.

Un’amica più adulta mi ha detto police partout, justice nulle part. Mi ha detto sono pochi gli slogan a non essere vittime del tempo. All’interno di una logica di mercato dove si fa mercato di tutto bisogna chiedersi ogni giorno se uno slogan è ancora valido nei suoi termini.

Per ora tutto ciò non mi spinge a posizionarmi in modo reattivo. Ho il sentore che la lotta sarebbe qui una battaglia al contrario, l’importante è che il fuoco non si spenga. E poi dalla nicchia e dal privilegio sempre parliamo.

Un altro amico ha detto credo nell’autonomia dei due momenti, militanza e poesia, ma li considero vasi comunicanti. Prassi e stasi. La questione è: voglio investire una fetta di esistenza e di senso?

Se incanaliamo la cosa nel nostro discorso, il femminismo può essere un vaso comunicante della poesia non solo femminile. Poi, il fatto che a me piacerebbe questa fosse la logica dietro a tutte le raccolte di poesia che tutt* dovremmo avere voglia di scrivere è un’altra questione e ha a che fare con il perché. Resto nel come e cerco di avvicinarmi a un nucleo in cui credo e di cui vorrei parlare, quello di retaggio positivo.

Non cercando poesia ideologica, poesia di reclami esplicitamente femministi, incontro, sostengo, e a questo punto genero anche, una poesia in cui non vengono messe a tema le questioni femministe, ma in cui il testo stesso, per la sua costruzione (visibile e non), mi porta a interrogarmi, mi obbliga a sostare. Uno spazio permeato da un femminismo fertile in cui si rompono automatismi e si fa venire alla luce un impensato rispetto a questioni che sono tra l’altro femministe.

Questo mio amalgama di paure e convinzioni si è imbattuto in una bolla di poetry slam italofono all’estero grazie a un’altra nuova amica. Grazie a lei ho visto una forma e un mondo poetici che mi erano abbastanza sconosciuti. Uno spazio in cui vigono dinamiche diverse da quelle che ho sempre sperimentato e che sono date dalla dimensione corporale e sociale presupposte.

«It’s better to speak» Lorde lo scrive, quindi è vero anche «It’s better to write».

Il megafono fa cool, è talmente ovvio. Siccome noi non siamo in corteo, ma in poesia in versi scritti, sono tanti i rischi: oltre alla retorica e all’incomunicabilità dei due momenti, a me appaiono davvero insidiosi i pericoli del filone e del “criterio amichettistico”, di cui si parla anche nell’editoriale di questa rubrica. Mi sto chiedendo se essere uncool in questo senso sia una forma di resistenza. Se non sia fondamentale anche un’altra forma di contributo. Non occupare lo spazio dei social e scrivere versi con un forte retaggio femminista perché si è propens* a introiettare un’intersezionalità sistemica, è una forma di militanza? Mi sembra che questo femminismo sia solido perché imprevedibile. Dal suo humus possono darsi dissidenze e contronarrative proficue (se si crede nella continua provvisorietà di molte armi e proposte della lotta femminista). Credo che questo femminismo possa agire anche a livelli sconosciuti e imprevisti proprio perché permea e attecchisce in un substrato profondissimo e, così tellurico, riesce a sovvertire.

Forse questa via è anche una scrittura aperta, una poesia abitabile da altr*. (Prevedere la libertà di chi legge. Accettare che non esiste il colpo di grazia.) Se entra nel pubblico, niente esclude che ecceda, prosegua, inneschi, attivi un impensabile altrove, venga interpretata e tradotta in un altro modo, che sarà necessariamente giusto perché possibile, perché espansione, sopravvivenza.

Un dittico
Prima di pensare a tutto questo ho scritto altri due testi credo femministi. Poi mi è venuto da ritoccarli calcando un po’ la mano.

Il gruppo

C’è un gruppo che mi fa molta paura
esiste e al contempo non esiste
potrei disporne in cerchio i membri
ma temo non si riconoscerebbero
nonostante il genere e la generazione.

Alcune di loro ci sanno fare
sono prestanti e le parole le usano
in modo del tutto diverso
si prendono troppo sul serio non sanno
che a fianco bisogna comunque campare.

Si giustificano sempre con formule
che io mi vorrei appuntare
ammesso che ciò che trattengono
le sottragga da morte insicura.

Se provo paura, se sono ostile
è una questione di campo e di spazio.


Il genere

Ho indicato le affinità nel genere
a posteriori, infatti credo
di averne un’esperienza muta e vera
spero di non dovermi mai ricredere
(per ora noi pensiamo unite
ma non scriviamo insieme).

La sommatoria è una persona unica
calda come la prima vocale
che le alterazioni emotive tengono
al di qua dalla produttività.

Senza gelosia per le coincidenze
raccontiamo di nuovo le nostre cose
mentre l’altra è presente e c’è il piacere
di riaprire insieme certi cassetti.

I traumi a quel punto diventano
una stronzata o un privilegio.

I due testi formano un dittico in seno alla mia raccolta, dove però mi auguro instaurino anche un dialogo più ampio con le altre poesie della sezione, oltre che con il resto del libro. La sezione si intitola Abrégés e consta di brevi ritratti (degli abstract, se si vuole, ma è una parola che si è abbruttita spaventosamente) di persone che per me funzionano particolarmente bene come gioco di sponda e allo stesso tempo come apertura di brecce nell’analisi di varie cose, tra cui di me stessa.

Ho incluso questi due testi perché sono stati scritti nei mesi di pace. Sotto al primo, tra le altre cose, adesso intravedo Nathalie Sarraute, che non stavo leggendo, ma che è sempre lì. Nel secondo – e ancora di più in una prosa degli stessi giorni – c’è finita Luisa Muraro, che stavo scandagliando.

Guardandoli bene mi sono resa conto che il retaggio femminista qui era talmente forte da rovesciarsi nel tema. Come annunciavo, sono testi che ho ritoccato. A posteriori mi chiedo: si può fare? Si può lavorare a un testo in direzione femminista? A me è successo, ma quanto del lavoro era cosciente? Mi sono accorta abbastanza chiaramente della cosa a distanza di mesi, dopo aver attribuito due titoli in un certo senso polari e che a me appaiono giusti. Non sono gli unici testi con cui mi è capitato, ma parliamo comunque solo di un paio. Forse anche questo tipo di addensamento, di stratificazione (meglio se imponderabile, mi sembra) può essere una via di fare femminismo in versi scritti. Ma credo ci voglia il lavoro giusto in un momento talmente propizio, che non si dà spesso, anzi.

Di fatto qualche testo è arrivato. Con essi, tante tante domande, qualche scoperta e qualche nuova convinzione. Per le solite paure, viene voglia di lasciare giacere tutto ciò a uno stadio di materia opaca, di esperienza muta, e lasciare fuoriuscire giusto qualche considerazione provvisoria e sommaria. Il cerchio si chiude solo nel libro, nella mia realtà si riapre. È così azzeccata la metafora della pasta sfoglia. Interrogativi e proposte in divenire, questo, mi sembra, è quello che posso formulare per ora. C’è qualcosa che sta lavorando.


[1] Si dovrebbe discutere, certo, anche della formulazione “essere femminista” in luogo di “fare femminismo”: non è solo una variazione linguistica, tocca il rapporto tra identità e pratica.

Poesia e deindividuazione: su alcune tendenze delle scritture contemporanee

In questo contributo, Riccardo Socci riformula alcune questioni che ha già trattato durante un intervento nell’ambito del seminario Poètes-critiques dell’Università di Aix-Marseille e, soprattutto, nel saggio “Modi di deindividuazione” (Mimesis 2022), estendendo i limiti temporali dell’analisi, che in quello studio si fermavano sulla soglia degli anni 2000, ai nostri giorni.

Perché deindividuazione?

Come ho spiegato in maniera più distesa altrove, la preferenza che ho accordato a questo termine rispetto ad altri spesso usati nell’ambito della poesia lirica italiana dell’ultimo Novecento (come desoggettivazione o spersonalizzazione) è dovuta sostanzialmente a due riferimenti: il primo è Le radici dell’io di Charles Taylor – saggio fondamentale, a mio giudizio, per inquadrare la questione dell’io e del soggetto della poesia moderna –, nel quale il filosofo canadese pone un principio di individuazione alla base della costruzione del concetto moderno di soggetto e soggettività nella cultura e nella filosofia occidentali; il secondo riferimento è la celebre formula di Adorno, secondo cui il genere lirico si configurerebbe come il luogo in cui il poeta “spera di conseguire l’universale attraverso un’individuazione senza riserve”.

Che cosa intendo con deindividuazione?

Nelle mie intenzioni, questo termine non vuole delineare una categoria circoscritta ed esclusiva, ma un insieme variegato di fenomeni e di tendenze che attraversano diacronicamente buona parte della poesia italiana del Novecento[1] e che, a partire dagli anni ’80 e ’90, si manifestano a mio modo di vedere in maniera sempre più chiara.

Questi fenomeni riguardano da un lato i contenuti (l’aspetto forse meno interessante), dall’altro la forma. Sul piano contenutistico, riconduco alla deindividuazione tendenze e temi come l’eclissi dell’io empirico del poeta (e quindi dell’autobiografismo), l’ostentazione della marginalità del soggetto poetante, l’alienazione e l’estraneazione della prima persona, l’inconsistenza della sua identità, il carattere frammentario della sua esperienza nel mondo. Com’è evidente, questi sono discorsi che caratterizzano in vari modi molta poesia italiana del Novecento, dai crepuscolari in avanti.

Sul piano della forma e dello stile, possiamo invece rintracciare costanti quali la rimozione (totale o parziale) dell’io poetico, ossia della prima persona quale soggetto dell’enunciazione, il ricorso a “formule di debolezza conoscitiva” e a “interposte persone”[2], l’uso sistematico di pronomi personali indefiniti e di verbi impersonali e, più in generale, meccanismi testuali atti a relativizzare continuamente il discorso svolto del soggetto.

Si tratta di costanti che, combinate in maniera diversa da autore a autore, emergono con particolare evidenza nella poesia (e specificamente nella lirica) italiana degli anni’80 e ’90, ad esempio nei lavori di Mario Benedetti o Umberto Fiori. Questi poeti, come altri della generazione dei nati fra anni ’50 e ’60, sembrano in effetti negare la sintesi adorniana in due modi, fra loro complementari: in alcuni casi viene meno il principio stesso di individuazione, e la lirica cessa di essere un discorso dell’io, o abolendo del tutto la prima persona o adottando un soggetto dell’enunciazione impersonale e privo di tratti identitari e distintivi; in altri casi, l’individuazione ha luogo con riserva, ovvero soltanto se accompagnata da una serie di strategie discorsive atte a metterne in mostra la natura soggettiva, e dunque la parzialità.

A mio giudizio, il periodo compreso fra anni ’80 e ’90 rappresenta davvero uno spartiacque: la fine, sempre più definitiva, della tradizione centrale del nostro Novecento poetico e dei suoi paradigmi (il “classicismo lirico moderno”, come lo definisce Guido Mazzoni) ha comportato cambiamenti intervenuti nello statuto stesso di genere del discorso lirico. Questi cambiamenti hanno coinvolto in particolare la questione fondamentale del soggetto della poesia, un soggetto che già tra anni ’50 e ’60, com’è noto, era entrato in crisi: da un lato, in maniera esplicita, nelle opere della Neoavanguardia (la “riduzione dell’io quale produttore di significati”, secondo la formula di Alfredo Giuliani, e la “spersonalizzazione della scrittura” di cui parla Lucio Vetri), dall’altro, in maniera meno evidente ma più articolata – e per questo, a mio avviso, più interessante –  in quelle di autori ancora legati a un’idea tutto sommato tradizionale di poesia, come Vittorio Sereni, Amelia Rosselli, Giorgio Caproni o Mario Luzi.

L’importanza della Neoavanguardia, in particolare nel confutare quel principio di sovrapponibilità tra poesia e lirica di matrice romantica, è un dato ormai acquisito e ampiamente storicizzato. Tuttavia, com’è stato già fatto notare[3], se consideriamo la logica che sorregge il discorso letterario, il lavoro della Neoavanguardia non appare essere così innovativo rispetto a quanto avevano già fatto le avanguardie storiche in Italia e in Europa. Una differenza importante riguarda però gli effetti che i due movimenti sono riusciti a ottenere: mentre le seconde hanno segnato un momento di rottura circoscritto, che di fatto ha preceduto la stagione più importante della lirica novecentesca italiana, i primi hanno determinato davvero un’estensione decisiva e irreversibile del campo della poesia, giungendo nel momento in cui quella stagione stava ormai volgendo al termine e un nuovo periodo della storia della poesia italiana stava iniziando. Tra le varie cose, a mutare era stato innanzitutto il contesto dal punto di vista della sociologia della letteratura.

I cambiamenti di cui parlavo prima, intervenuti nel corso degli ultimi vent’anni del Novecento, vanno interpretati anche (forse soprattutto) come una forma di reazione a circostanze mutate, e in particolare alla perdita definitiva del mandato sociale del poeta, del suo ruolo istituzionalmente e pubblicamente riconosciuto, di cui molto si è già discusso.

C’è la consapevolezza, insomma, da parte degli autori di non potere più attuare nella scrittura poetica in generale e in quella lirica in particolare, il genere che per definizione e tradizione costituisce il discorso privato e idiosincratico di un io, quell’individuazione senza riserve di cui parlava Adorno. Questa presa di coscienza ha comportato una crisi che ha investito innanzitutto il soggetto stesso della poesia, determinando in alcuni autori una vera e propria fuoriuscita, almeno sul piano pronominale, dalla prima persona – penso ad esempio ai primi libri di Umberto Fiori.

Per arrivare ai nostri giorni, mi sembra che molte scritture poetiche contemporanee, liriche e non soltanto, partano proprio da questa domanda: come rientrare nella soggettività (o quantomeno, in una soggettività) in maniera credibile e non ingenua?

Chiaramente questo non è un discorso che vale per tutti. Molti autori si trovano ancora benissimo in posture oracolari e ipersoggettive, aggrappate al “mito delle origini” di cui parla Gianluigi Simonetti e ai riti magici della parola poetica, oppure in testi smaccatamente lirici, ingenuamente (o peggio, maliziosamente) espressivi o confessionali. Molti autori, in sostanza, non si pongono affatto il problema di come dire “io”, o del perché il lettore debba ascoltare la voce di questo io che gli parla degli affari propri, delle proprie idiosincrasie, delle proprie trasfigurazioni, e va bene così. Ma la mia simpatia di lettore non va per questo tipo di scritture, che mi sembrano del tutto anacronistiche e che pure, se consideriamo il totale dei libri di poesia pubblicati oggi in Italia, rappresentano ancora l’ampia maggioranza.

Allo stesso modo, però, in molti casi non mi entusiasmano quelle scritture poetiche che rinnegano in assoluto e a priori la soggettività, preferendo all’espressione della prima persona – o comunque di una qualche forma di voce individualizzata – la pura “mimesi della schizofrenia” collettiva del nostro tempo (per riprendere le parole dello stesso Giuliani), dell’impersonalità del linguaggio dal quale siamo parlati, dell’intercambiabilità e dell’insensatezza delle nostre esistenze private e così via. In buona sostanza, quelle scritture vocate all’oltranzismo che scelgono l’orizzontalità, l’omologazione e la neutralità di linguaggio e stile per rappresentare l’orizzontalità e l’omologazione della nostra società, l’apparente neutralità dei rapporti di forza che la governano o delle vite che gli individui conducono al suo interno. Mi sembra una limitazione autoimposta, troppo stringente e asfittica, sul piano stilistico, delle possibilità della scrittura, che rischia in molti casi di risolversi in un mero atto combinatorio, ripetibile all’infinito, e che aggiunge poco o nulla all’esperienza di mondo che già faccio.

Dove va la mia preferenza di lettore?

In estrema sintesi, per quelle scritture che mantengono vivo un certo grado di intenzionalità dell’autore, di soggettività del personaggio che prende la parola nel testo e del linguaggio e dello stile che usa per esprimersi. Quelle scritture, insomma, che, rifiutando l’idea anacronistica e postuma della poesia come pura espressione del sé, costruiscono forme di soggettività nuove attraverso un continuo atto di mediazione, di relativizzazione dello stesso soggetto poetante. Ecco, con deindividuazione intendo in sostanza questo tentativo che ha luogo nella scrittura poetica, e che si realizza sul piano formale e tematico secondo i modi che descrivevo brevemente all’inizio.

Qualche esempio testuale potrà forse essere utile a precisare il discorso.

Se, come detto, la prima persona egoriferita e autobiografica della lirica tradizionale non occupa più il centro della scena, possiamo chiederci quale sia il ruolo del soggetto poetico in questo tipo di scritture contemporanee. Sicuramente non è il portatore di esperienze eccezionali o esemplari (una postura, questa, che oggi sarebbe ridicola); piuttosto, è un individuo estroflesso che condivide una visione e un’esperienza parziali, estremamente limitate (quando non del tutto indeterminate), ma non per questo necessariamente insignificanti. Una delle costanti di molte scritture è quindi lo sdoppiamento (in certi casi la moltiplicazione) e la frammentazione del soggetto, che si guarda da fuori perché sa che non può correre il rischio di assolutizzare il proprio discorso, sprofondando in sé stesso, di esercitare la propria “fantasia dittatoriale”, secondo una formula di Friedrich, come avviene nella cosiddetta poesia pura, simbolista, ermetica, orfica, neo-orfica ecc. Questa fuoriuscita dall’io, rintracciabile in opere anche molto diverse fra loro (da quelle più liriche a quelle più vicine a un grado zero della scrittura), assume di frequente una connotazione esplicitamente metapoetica:

Guardo le nuvole sopra di me, sono un’idea,
sono l’immagine di un intero che mi sovrasta,
vedo me stesso come qualcuno che coglie
l’immagine di un intero dentro le nuvole che lo sovrastano.
[G. Mazzoni, La pura superficie, 2017]

Vorrei disfarmi dell’io è la moda che prescrive la critica
ma la povertà è tale che possiedo solo un pronome. […]
Alla fine torno all’io che finge di esistere,
ma è una busta come quelle usate per la spesa
piena di verdura o pesce surgelato.
Io con l’io mi nascondo.
[A. Anedda, Historiae, 2018]

Ho sedici anni.
Questa bestia che ho dentro in qualche modo deve uscire.
Ho zero anni.
Perdo i denti. A volte anche i capelli. Mi smarrisco nei labirinti. Sono su una macchina che non so guidare e mi vado a schiantare. La folla. Cado col lettino dal ballatoio della nonna. Non sono in picchiata ma il letto si disfa progressivamente fino a quando l’unica protezione contro lo schianto è la mia impronta sul materasso. Polvere e cenere in turbini. Mi va malissimo il compito in classe di matematica che devo svolgere.
Ho ventisei anni.
Ho molta paura. Giorni senza soluzione, senza fine. Come se il mondo fosse finito.
Ho ventisette anni.
Mi sono buttata dalla finestra: tre mesi di sedia a rotelle con le ossa rotte, prova solo a immaginarti la rabbia di una che si vuole ammazzare e resta imprigionata.
[P. S. Dolci, Diario del sonno, 2021]

Rendendosi conto che la propria esperienza di mondo non ha nulla di eccezionale o di esemplificativo, il soggetto della poesia cessa perlopiù di collocarsi al centro della scena, che spesso viene occupato da personaggi diversi dall’io. In molti casi, chi prende la parola esplicita la distinzione fra io empirico e io lirico (il legame fra questi due io cessa di svolgere una funzione normativa proprio fra anni ’70 e ’80), e si identifica di frequente con il ruolo di autore, più che quello di protagonista, esercitando nei testi la propria funzione normativa e intervenendo nel discorso come farebbe una sorta di narratore, più che un io lirico tradizionale:

Sono uscito a camminare verso il mare, ma devo negarlo
perché ero uscito e in realtà quasi subito
ho incontrato un platano e mi tocca di scriverlo,
anche se scrivere è di più che raccontare,
anche se raccontare è già difficile,
anche se il difficile è rientrare
a scrivere del platano,
a raccontare il platano
senza averlo davanti,
cercando di ricordare […].
[S. Dal Bianco, Ritorno a Planaval, 2001]

L’autrice si domanda
se sarà possibile parlare
della morte
senza parlare di dolore […].

Credo che verrò meno
a quel mio proposito iniziale;
non possiamo fingerci eterni […].

L’io è uscito
forse dal canale orale e la figura pare
ora tanto leggera, di carta.
Eppure non manca niente al corpo
è tutto ancora dentro,
uguale a prima, sì, ma spento.
[M. Lotter, Atlante di chi non parla, 2022]

In altri casi, il soggetto dell’enunciazione si identifica con figure marginali, o mescola la propria esperienza a quelle di molti altri personaggi, secondo un’impostazione del tutto orizzontale, creando effetti deindividuanti pur senza rinunciare a un grado minimo di soggettività del discorso, ossia rispettando l’inevitabile triangolazione fra scrittore, testo e lettore – laddove la lirica ipersoggettiva pretende di annullare l’ultimo, mentre la scrittura forzatamente impersonale, tendente a un grado zero della comunicazione, vorrebbe fingere che il primo non esista:

Collins che resta a orbitare sul Columbia mentre Armstrong e Aldrin scendono verso la Luna e lui li fotografa con la Terra sullo sfondo, in un’immagine che contiene l’umanità presente, passata e futura, tutti i vivi e i morti tranne lui, Collins, che parla con la radio e cerca conforto a Houston, fino a quando la massa della Luna si interpone tra lui e la Terra tagliando il collegamento e lasciandolo solo come nessun altro essere umano è mai stato tranne i sepolti vivi […]; Collins, il terzo astronauta, quello che pochi conoscono, quello che non è mai stato veramente sulla Luna, come gli verrà ricordato in tutte le interviste del futuro […]. Parlavo della possibilità che lei morisse, della paura, della non-paura che questa idea mi suscita, come se non appartenessi mai veramente, come se non amassi mai qualcosa per intero […].
[G. Mazzoni, Scatola nera, 2023]

Per un anno, quando ne hai trentadue, ti improv­visi imprenditore nel comparto dolciario, hai otte­nuto la qualifica di operatore edile alle strutture, ti sei fatto una posizione. Sei un esperto di taglio cabochon, di cloisonné e di archeologia indu­striale – hai pescato in un fiumicello uno storione mostruoso. Di fianco a te, nel bagno pubblico, il vecchio Humbert ha lasciato l’orinatoio sporco di sangue. Sei in coma farmacologico a seguito di un intervento d’emergenza, allettato in ospedale in una città che non conosci. 
Ti sei soffocata con un boccone in un’angurieria, procurata un ascesso al fegato o un enfisema su una petroliera. Soffri di un’affezione sconosciuta, sei cianotica, esanime. L’anomala secrezione di sostanze ormonali nel tuo organismo ha denunciato una recente insorgenza tumorale: stai morendo poco più che cinquantenne per una malattia che non lascia scampo; hai com­prato una djellaba come la volevi tu in un bazar in cui non entravi da anni, gettato con un’alzata di spalle il tuo grembiule guajiro…
[A. Broggi, , 2024]

Le voci in stazione si accumulano
in un modo che ti sovrasta in uno spazio
che non sai contenere. La torre è troppo alta
le mura si sono moltiplicate. Non sappiamo
parlare, intendo con questo entrare disarmati
nel vuoto, superato il primo inganno elementare.
L’impressione di riconoscersi è un fossile da cui
soffi via la terra la polvere. Una voce sola
lampeggia: non superare la linea gialla.
[S. Branca, Interferenze, 2024]

Un’ultima tendenza, per me molto significativa, riguarda i modi di costruzione del contesto enunciativo. Come ha illustrato Bernardelli[4], quello lirico tradizionale è un discorso che si svolge “in presenza”, ovvero assumendo aprioristicamente la presenza del lettore all’interno della scena enunciativa; facendo insomma finta che il lettore sia davvero lì, accanto al soggetto che parla. L’uso dei deittici che caratterizza l’incipit dell’Infinito di Leopardi è un caso esemplare: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle / e questa siepe”. Se ci trovassimo all’interno di una situazione comunicativa normale, le prime domande che sorgerebbero spontanee sarebbero: quale colle? Quale siepe? Chi parla nel testo di Leopardi finge che il lettore sia presente lì accanto, che veda lo stesso paesaggio e che stia condividendo la stessa esperienza della prima persona.

In molti testi contemporanei avviene invece il contrario. Non essendo più la presenza di un lettore garantita, il soggetto costruisce la situazione e il contesto enunciativi mentre parla o, meglio, dopo avere iniziato a parlare. È un modo, a mio avviso, di cercare un piano condiviso di incontro con il lettore stesso, senza pretendere che l’altro da sé entri “senza riserve” all’interno del mondo del soggetto, senza esercitare in maniera ingenua e dittatoriale la propria fantasia, senza imporre all’altro, in nome di una supposta oggettività del discorso, la propria visione del mondo:

Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.
Ho freddo, ma come se non fossi io.

Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come un suo spessore.
[M. Benedetti, Umana gloria, 2004]

La strada è accidentata. Piove. Stiamo entrando nel paesaggio e cominciamo a distrarci camminando: a volte pensiamo a una persona in particolare, altre volte è solo l’idea di una persona. Seguiamo puntualmente il percorso: cosa c’è di fronte a noi? La linea azzurra di un corso d’acqua riflette le prospettive, la visuale si schiarisce. Non smettiamo di ridere, la cosa più importante per noi è che succeda qualcosa. […] In uno scenario che chiameremo “il paesaggio” è notte. Non ci interessano i dettagli geografici né qualsiasi specifica localizzazione, progrediamo attraverso la vegetazione. […] Cominceremo parlando sinceramente: non riuscivamo a uscire per strada a causa dell’eccesso di informazioni. Ogni persona che incontravamo o che vedevamo era un nuovo mondo possibile, una biografia in corso.
[A. Broggi, Noi, 2021]

La costruzione del contesto enunciativo, all’interno del quale ha luogo la comunicazione, è dunque un atto che spesso viene condiviso con il lettore nel testo, non prima. L’idea che tutti abbiano visto il mondo (il Natale, il parco, la strada) come lo ha visto il soggetto dell’enunciazione, nel suo modo parziale e individuale, non può essere data per scontata: con questa consapevolezza della propria parzialità è necessario fare i conti, pena l’ingenuità.

Tornando alla domanda iniziale – perché deindividuazione, e non desoggettivazione?–, la risposta, a questo punto, potrà forse essere più chiara: in questo insieme di scritture contemporanee, a volte anche molto diverse fra loro per forma e stile, a venire meno non è la soggettività, ma quel principio di individuazione che, stando a Adorno, dovrebbe caratterizzare in poesia il soggetto che prende la parola.

La poesia contemporanea che più mi interessa e mi appassiona come lettore non rinuncia al soggetto: lo problematizza, lo relativizza, lo attraversa. Rifiuta la verticalità del discorso esemplare e onnisciente, ma al contempo non rinnega la possibilità di una voce. Cerca di costruire forme plurali, parziali e non totalizzanti di esperienza (ma non per questo prive di senso), uno spazio di relazione con il lettore che può esistere solo quando chi comincia a scrivere esplicita innanzitutto la propria posizione nel mondo.


[1] Per una ricostruzione storica più completa e articolata di ciò che chiamo deindividuazione rimando al saggio citato all’inizio.

[2] Enrico Testa, Dopo la lirica (2005) e Per interposta persona (1999).

[3] Si veda ad esempio Carlucci: https://www.nazioneindiana.com/2013/03/11/note-sullinfluenza-della-neoavanguardia-italiana/

[4] Giuseppe Bernardelli, Il testo lirico. Logica e forma di un tipo letterario (2002).

 

Il lato nascosto della violenza. Una conversazione con Dimitris Lyacos

a cura di Toti O’Brien.
Con un’appendice a cura della redazione di Almanacco.

Già apparsa in «The Common», 8 luglio 2024, con il titolo Violence and Its Other

Finché la vittima non sarà nostra di Dimitris Lyacos uscirà per Il Saggiatore il prossimo 29 aprile. Si tratta, secondo l’autore, di un “libro zero” da anteporre all’ormai celebre trilogia Poena Damni, che ha per protagonista un uomo in fuga ma non spiega da chi, da cosa, da dove stia scappando, omettendo di definire il passato, rivelando solo le cicatrici residue. Sarà il libro nuovo a tracciare una mappa dell’universo pre-fuga, il quale – come sorprendersi? – non è altro che la civiltà occidentale, di cui Lyacos ci fornisce sia uno scavo archeologico che una panoramica aerea (a partire dalle origini giudaico-cristiane, attraverso industrializzazione e capitalismo, fino alla digital-globale era presente).

Nonostante si stesse recando in Israele e in Cisgiordania quando gli ho proposto questa intervista, Lyacos ha accettato di svolgerla durante il viaggio. Gliene sono particolarmente grata.

Toti O’Brien:La società che evochi, alternando voci di leader e seguaci, vincitori e vinti, è intrisa di violenza concetto controverso, diversamente inteso a seconda dei punti di vista. Solo a partire dagli anni Sessanta, ad esempio, si è iniziato a discutere di violenza psicologica, di violenza istituzionale. A tali questioni sono stati dedicati fiumi d’inchiostro che non hanno inciso molto, però, sull’opinione comune. L’atto di rompere una vetrina durante una protesta è tuttora ritenuto più violento dei secoli d’abuso che ne sono la causa. Il tuo nuovo libro esplora la dialettica tra violenza visibile e violenza invisibile, tra aggressione fisica e manipolazione nascosta, nelle sue pieghe più intime. Secondo te, che cos’è la violenza se la si spoglia degli abiti di scena? Come la definisci dal tuo punto di vista?

Dimitris Lyacos: “Arrecare danno attraverso l’uso della forza” potrebbe essere una definizione adeguata. Tuttavia, sebbene la violenza sia in genere connessa alla forza fisica, quest’ultima non deve necessariamente esprimersi in forma attiva. Negligenza deliberata e omissione possono essere altrettanto nocive. Pensa al supplizio di Tantalo: era immerso in uno stagno da cui non poteva bere e l’albero che gli cresceva accanto sfuggiva alla presa quando tentava di raccoglierne i frutti. Non subiva alcun tipo di “forzatura”. La natura, al contrario, lo evitava, come fosse a conoscenza delle sue colpe. Questo esempio eccede l’ambito mitologico… Pensa a quanti divieti d’accesso incontrano individui e gruppi di classi subalterne nelle società attuali: i mega supermercati e i centri commerciali non sono certo fatti per i meno abbienti…  Possono risultare loro tanto inaccessibili quanto i grandi saloni dei castelli lo erano per i servi che lavoravano i campi. I nostri sistemi socioeconomici contemplano varie forme di esclusione, di cui la mancanza di accesso a prodotti e servizi è forse la più benigna.

L’esclusione, del resto, è espressione archetipica di violenza dai tempi della Bibbia: Dio non punisce corporalmente Caino per l’assassinio del fratello, ma lo “priva della sua presenza” condannandolo a quella Poena Damni (titolo della trilogia) che comporta la perdita della visione divina, dell’aiuto “paterno”, la caduta dalla grazia e il conseguente abbandono in un mondo ostile quello che un genitore impietoso farebbe a suo figlio. Tali forme di crudeltà non sono invenzioni umane. Le troviamo anche nel mondo animale. Ad esempio, tra i pesci gatto è stato osservato ostracismo verso gli esemplari albini, mentre Jane Goodall ha raccontato come gli scimpanzé evitino individui malati o estranei al gruppo. Ma il merito di elevare l’esclusione a metodo punitivo primario senz’altro ci appartiene. Per tornare a Finché la vittima non sarà nostra, esclusione e violenza fisica sono entrambe presenti dall’inizio. Quel che chiamo il frammento pre-iniziale descrive una scena cruenta. Il capitolo A, subito dopo, introduce espulsione ed esilio: la terra di Nod, in cui la violenza diventa un indispensabile mezzo di sopravvivenza.

T.O.: Stai esponendo temi essenziali che il tuo libro affronta in modo a volte velato e più spesso diretto. Tutti hanno radici nel passato, ma appartengono senza dubbio anche al nostro presente. La violenza-negligenza evoca inevitabilmente il problema dei residui tossici, che non nomini, eppure sfigurano in modo inequivocabile i paesaggi che descrivi nel libro. La violenza-deprivazione è oggi una forma di tortura legale: una delle scene più intense di Finché la vittima non sarà nostra si svolge in un carcere di massima sicurezza, offrendone uno squarcio indimenticabile. Mi ha colpito il fatto che il libro indichi l’espulsione come “castigo originale”: sembra che l’idea di casa e quella di esilio siano letteralmente nate insieme. La violenza che descrivi spesso consiste nel proibire alle vittime l’accesso a certi luoghi e nell’imporre loro la permanenza in altri, definendo dove hanno o non hanno il diritto di essere. Esodi, diaspore e genocidi derivano da tale principio, ma anche ghetti e prigioni, reali o virtuali.

Metaforicamente (i capitoli sono identificati dalle lettere dell’alfabeto) e non solo, il libro implica forme di collusione tra violenza e linguaggio. Le parole possono ampliare il campo d’azione della violenza e accelerare il suo progresso. L’abuso crea sempre le proprie narrative. Cosa ci puoi dire in proposito? In che modo il linguaggio serve la violenza?

D.L.: Il linguaggio è un sistema simbolico, uno dei tanti. Sono tutti connessi con la violenza? C’è violenza, ad esempio, nella logica, nella matematica? Forse no, a meno che un insegnante non ci forzi a impararle. In tal caso, però, l’imposizione emana dall’individuo, non dalla disciplina. Tuttavia dobbiamo accettare un tipo di coercizione interiore o esteriore per poter imparare, cioè per essere “formati”. Apprendere comporta un ordine esterno a cui aderire. Nell’allegoria della caverna Platone insiste sul fatto che liberarsi da pregiudizi e false credenze è un processo violento. Penso sia per questo che alcuni di noi non amano la scuola. Per apprendere qualsiasi cosa, linguaggio incluso, il soggetto deve obbedire alle regole, come direbbe Wittgenstein. La violenza in quest’ambito non presuppone aggressione, ovviamente, solo forza. Il soggetto è forzato a (o si sforza di) aderire a un sistema e alle norme che esso comporta.

Qui potresti obiettare: un momento, non hai detto che violenza è ciò che arreca danno? In che modo può nuocerci il fatto di assimilare una struttura simbolica e partecipare a un sistema?

Rousseau ti direbbe che un tempo eravamo nobili selvaggi e la civiltà ci ha corrotti. Il mio punto di vista è diverso: quando entriamo a far parte di un ordine, di un sistema, rinunciamo in suo favore alla nostra parcella, al nostro “diritto alla violenza”. Il sistema se ne impadronisce, riassegnandone l’uso secondo i propri intenti. Al suo interno la violenza è presente, ma astratta. Non le serve manifestarsi concretamente. È l’essenza stessa dello Stato: Κράτος in greco significa Forza/Potere, parola senza dubbio violenta, che ricorda il carattere omonimo nel Prometeo incatenato di Eschilo (il compagno di Βία, Violenza).

È possibile allora che la violenza abbia effetti positivi? Sì e no, direi. Nel corso delle sue camaleontiche metamorfosi che il libro in parte esplora può apparire innocua o nociva a seconda dei punti di vista. Mi chiedo se lo Stato, qualora avesse una coscienza, considererebbe dannoso il monopolio della violenza o se invece riterrebbe (polizia inclusa) che ordine e controllo siano salutari e provochino soltanto un male necessario. Eccoci al punto di partenza: i sistemi, anche quelli simbolici, sono inerentemente costrittivi. Plasmano, modellano, formano: esistono per questo.

T.O.: Quando parli di “assimilare” è immediato pensare al vissuto degli immigrati, per i quali aderire a nuove norme linguistiche è l’unico modo di capire cosa esige e cosa prescrive la cultura di arrivo. Solo assimilando le sue norme, infatti, si può sperare di essere a propria volta assimilati o almeno tollerati.

Il tuo libro sorprende il lettore per l’estrema versatilità espressiva. Coloro che rappresentano Κράτος, come ovvio, sono sistematici e logici nelle loro verbalizzazioni. Quelli che sono incatenati come Prometeo si esprimono altrimenti, attraverso monologhi onirici e frammentari che evocano indimenticabili diari della Shoah. Cosa ci puoi dire del loro linguaggio, delle loro voci?

D.L.: Sono appena tornato dal Museo Storico dell’Olocausto di Yad Vashem al mio alloggio nella zona Ovest di Gerusalemme. Le parole delle vittime, le loro testimonianze e i diari mi risuonano ancora nella testa. Storie di “dentisti” che estraggono denti ai morti prima che siano gettati nei forni, gente che ancora respira dopo essere stata gassata per venticinque minuti. Una donna anziana racconta di essere sopravvissuta, a sette anni, perché arrampicandosi su un muro di corpi è riuscita a uscire dal pozzo. Semplici e scarni resoconti fattuali, incapsulamenti rudimentali dell’orrore in un linguaggio che non ammette ulteriori approfondimenti. Non c’è tempo per elaborazioni linguistiche quando la tua massima aspirazione è quella di tenere a bada la fame in tali circostanze la retorica è irrilevante. È significativo invece che il termine “Shoah” sia emerso nella conversazione: nella Bibbia appare nel libro di Zephaniah che si ritiene abbia particolarmente influenzato l’inno cattolico medioevale Dies Irae – e da lì viene il senso di catastrofe che lo caratterizza. In Zephaniah è menzionato il “giorno di Dio”. All’inizio del primo capitolo la voce divina ripete tre volte: “Egli sterminerà, consumerà uomini e bestie”. Nel secondo capitolo c’è una profezia della distruzione di Gaza: Γάζα διηρπασμένη ἔσται.

Alla fine della mia visita a Yad Vashem sono passato dal guardaroba al piano seminterrato. C’erano zaini sul pavimento e, a fianco, fucili messi ad angolo retto per formare un quadrato, poi un altro quadrato sovrapposto, poi un altro. Una torre di un metro, geometrica e precisa. I soldati che come noi avevano visitato il museo, seguendo attentamente la guida attraverso le gallerie, sono entrati a riprenderli. Li ho guardati bene: ragazzi ebrei, una o due ragazze. Mi chiedo cosa resterà loro di questo incontro con la brutalità cieca della storia, cosa penseranno questi giovani armati delle mani stanche e disperate che hanno scarabocchiato vane parole come ultimo segno di speranza. Non lo so, ma credo che la violenza continuerà a perpetuare sé stessa. Credo che impariamo a fatica, a prescindere dal linguaggio in cui ci giunge la lezione.

T.O.: Il tuo libro sembra dirlo a voce alta… che il ciclo della violenza non ha fine. Lo pensi davvero? La “meno danneggiata” dei tuoi personaggi (la bambina che ha perso il padre) prega nella speranza di ritrovarlo, ma nessuno risponde. Alla fine del libro il protagonista contempla la fuga, ma non lo vediamo scappare, ancor meno arrivare in un luogo che possa chiamare “casa”. Dunque, anche se ribellione e resilienza sussistono, forse non prevarranno.

È questo che vuoi dire? Se invece interrompere il ciclo è un obiettivo possibile, dov’è l’anello debole della catena? Se il linguaggio non può aiutarci (ma davvero non può?) che alternativa abbiamo?

D.L.: Siamo studenti pigri del passato e la sofferenza ci scivola addosso, eppure siamo riusciti a limitare le forme convenzionali di violenza. All’inizio, i livelli statistici di violenza tra umani erano uguali a quelli che esistevano tra gli altri primati: 2%. Nel corso della storia sono diminuiti e oggi sono nettamente minori. Ciò è probabilmente dovuto all’avvento di nuove organizzazioni socio-politiche: negli odierni Stati-società la violenza letale è scesa quasi all’1%. Naturalmente questi numeri hanno un significato parziale. Riguardano soltanto gli omicidi. Dimostrano che, sebbene la nostra specie sia filogeneticamente predisposta alla violenza, la cultura però può in parte limitarne gli effetti. Con un po’ di ottimismo possiamo sperare che li annulli del tutto. Il problema è che la violenza si incarna subdolamente in forme sempre nuove, continua a trasformarsi e moltiplicarsi. Ma ammettiamo di riuscire ugualmente a controllarla: l’altro giorno ho avuto l’onore di essere invitato a un tour privato della nuova Biblioteca Nazionale di Israele. Un piacevole esempio di architettura minimalista-postmoderna, le curve dell’edificio si distendono a incontrare lo sguardo. L’interno è calmo e accogliente: silenzio, spessi tappeti, una colonna di luce con attorno una scala… La colonna ricorda quella che guidò Mosè nel deserto, la scala a spirale ascende verso il cielo. Al seminterrato, milioni di libri che i robot organizzano in perfetto silenzio. È questa la risposta? Il mondo trasformato in una simile biblioteca e noi, lettori calmi e pensosi, sensibili e profondi, collegati da onde di informazione, conoscenza e persino saggezza? Quali prerequisiti, che tipo di “coordinazione” sarebbe necessaria per produrre tale idillico super-organismo? A cosa dovremmo rinunciare? Forse ai conflitti interni che albergano nella nostra psiche? Al nostro io privato, abitato dall’intero spettro delle emozioni animali? In contrasto penso alle stradine del Monte degli Ulivi a Gerusalemme Est, il quartiere arabo in cui fu arrestato Cristo, animato, sporco, con i suoi rumori, le voci, gli odori inconsueti, caotico e creativo. Qual è il senso? Dove dirigersi? Nel capitolo Z di Finché la vittima non sarà nostra il personaggio non fugge da una società “organicamente violenta”. Al contrario, le forme tradizionali di violenza sono state espunte e il problema è risolto. Cos’è che non funziona? Perché si alza e va via?


APPENDICE A CURA DELLA REDAZIONE

Il genocidio in corso a Gaza e la violenza subita dalla popolazione palestinese negli ultimi due anni non sembrano avere fine. La promessa di pace, annunciata per gennaio 2025, è stata disattesa con il riavvio dei bombardamenti da parte di Israle questo 18 marzo. L’intervista di Toti O’Brien, realizzata a luglio 2024, è seguita da due domande della redazione di Almanacco, poste a marzo 2025. Alla luce dell’evoluzione drammatica degli eventi e dell’importanza del tema della violenza nell’opera di Dimitris Lyacos, ci è sembrato necessario riprendere la riflessione su quanto sta accadendo in questi territori.

Redazione. Posto il dominio della violenza. C’è, credi, una differenza nell’uso della violenza da parte dei vinti e dei vincitori? Sono diverse forme dello stesso tipo di violenza, o due violenze diverse? Pensiamo alla descrizione che fai della Biblioteca di Gerusalemme, dove la creatività è scomparsa, e non possiamo non pensare alla violenza che ora si svolge ai danni della vicina Gaza, laddove sembra che la violenza continui a mutare forma da decenni, al limite del mancato riconoscimento da parte di molti.

DL. È esattamente così. Gli inglesi, quando qualcosa costa troppo, sono soliti dire: It costs an arm and a leg, “costa un braccio e una gamba”. I ristoranti in Israele, specie a Tel Aviv, sono molto cari – “costano un braccio e una gamba”. Il confronto con la realtà infernale oggi ci porta a riconoscere che evidentemente un braccio e una gamba di una bambina di Gaza ci costano di meno. Infatti i ristoranti continuano a essere affollati, a Tel Aviv come da noi. In un certo senso la risposta a questa domanda è implicita in ciò che ho detto nell’intervista in merito alla violenza passiva. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si era posta la questione se i tedeschi conoscessero quello che succedeva nei campi di sterminio. C’è stato un dibattito. Qui non c’è nessun dibattito. Sappiamo tutti. E siamo tutti complici.

Redazione. Le atrocità che si stanno consumando in Palestina, in particolare a Gaza, sono causate dalla violenza fisica dei bombardamenti e della distruzione, come da una continua deprivazione dei diritti fondamentali, una violenza che perdura da molto prima degli eventi del 7 ottobre 2023. Questa realtà potrebbe essere interpretata come una forma di ‘violenza invisibile’, come quella che esplori nel tuo lavoro? E in che modo questa violenza si relaziona con l’attuale escalation del conflitto, che sembra non conoscere fine?

DL. Come ho detto, è una violenza del tutto visibile. Sappiamo tutti. Diventa invisibile in quanto la nostra passività la mette da parte, quando trasformiamo noi questa violenza in una forma di “noise” che accompagna le nostre vite, in maniera più o meno presente. La sofferenza è lì, ma ognuno di noi sceglie se e come integrarla nel sistema della propria vita personale. Mi viene in mente l’ultimo film di Aki Kaurismäki, Foglie al vento: in varie occasioni i due protagonisti, assillati dai propri problemi, si imbattono negli aggiornamenti dei bombardamenti su Mariupol’. Ascoltano per qualche secondo e poi cambiano la frequenza della radio, continuano la loro vita. Il film lascia aperta la domanda, non fa capire se questi problemi che vengono da lontano li riguardino in qualche modo. Il “noise” della sofferenza lontana diventa un rumore di fondo nelle loro vite. Poi vanno avanti. Sembra che tutti noi, ciascuno a suo modo, riusciamo a metabolizzare le atrocità se non ci riguardano personalmente, a immunizzarci da esse. Quando ci vengono vicine, allora è un’altra cosa. Il mio traduttore israeliano, Ioram Melcer, dopo aver terminato qualche mese fa la traduzione di Finché la vittima non sarà nostra, l’ha presentata a un importante editore israeliano. L’editore non ha apprezzato. “Il libro è molto violento” ha commentato (cosa, naturalmente, non vera). Succede purtroppo che siamo arrivati al punto in cui la rappresentazione della violenza disturba più della violenza stessa, perché tramite la sua rappresentazione la violenza non riesce più a rimanere invisibile o ignorata. E quando non si può più ignorare, non si riesce a mangiare con calma nel ristorante la sera, c’è qualcosa che disturba l’ordine desiderato, come ne Il fascino discreto della Borghesia di Buñuel.


Nota biografica

Dimitris Lyacos (Atene, 1966) è scrittore, poeta e drammaturgo. La trilogia Poena Damni, iniziata trent’anni fa e concepita come un eterno work in progress, è una delle opere più note e rispettate della letteratura europea contemporanea e lo ha reso uno degli autori più significativi del nostro tempo (inserito nel Who’s Who, il database che raccoglie le biografie delle persone più importanti in tutti i campi dell’attività umana). Rinomata per lo stile provocatorio e la combinazione innovatrice di elementi che provengono tanto dalla tradizione letteraria quanto dall’ambito della religione, della filosofia, dell’antropologia, l’opera di Lyacos riesamina il corpus narrativo del canone occidentale nel contesto di alcuni dei suoi motivi più duraturi, in particolare la violenza, la malattia mentale, la redenzione, il capro espiatorio, il ritorno dei morti. Completata nel corso di trent’anni, è stata tradotta in più di venti lingue e ha ispirato creazioni musicali, visive e teatrali. Alcuni capitoli tratti da Finché la vittima non sarà nostra – il “grado zero” della trilogia, che uscirà in anteprima mondiale in Italia a fine aprile per Il Saggiatore – sono stati recentemente pubblicati in inglese su alcune tra le più importanti riviste americane: «MAYDAY», «Image Journal», «River Styx» e «Chicago Review».

Toti O’Brien, nata a Roma e residente a Los Angeles dall’inizio degli anni ’90, è autrice di quattro raccolte di poesia e tre di prosa.  Alter Alter, una raccolta di racconti, è stato pubblicato  da Elyssar Press nel 2024. O’Brien collabora con riviste specializzate nei settori di arte, cultura e società. Traduce testi letterari dall’italiano, dallo spagnolo e dal francese.

“Una margherita sboccia nel campo del Merz”: Cinque poesie di Margret Kreidl

Introduzione e traduzioni a cura di Marta Maria Ricci

Nata a Salisburgo, Margret Kreidl vive a Vienna dal ’96. È autrice di poesia e prosa, scrive per la radio e per il teatro. Ha collaborato con il collettivo “Rhizom”, con numerosi scrittor*, artist*, musicist*, e alla creazione di installazioni in spazi pubblici. Dal 2015 insegna presso il Max Reinhardt Seminar di Vienna.

Kreidl ha partecipato a residenze d’artista in Germania, Serbia e Svizzera ed è stata visiting professor negli Stati Uniti; ha ricevuto numerosi premi e sovvenzioni per il suo lavoro, tra cui l’Elias-Canetti-Stipendium della città di Vienna (2016-17), il Robert-Musil-Stipendium (2017), l’Outstanding Artist Award per la letteratura della Cancelleria federale (2018), il premio per la letteratura della città di Vienna (2021) e nel 2024 il premio H. C. – Artmann.

I testi presentati qui di seguito sono tutti inclusi in Mehr Frauen als Antworten. Gedichte mit Fußnoten [Più donne che risposte. Poesie con note a piè di pagina], la più recente raccolta poetica dell’autrice, pubblicata nel 2023 con Edition Korrespondenzen (Vienna).

Il titolo del libro ricalca il modo di dire, che è poi un confronto quantitativo, “mehr Fragen als Antworten”, l’equivalente tedesco letterale dell’italiano “più domande che risposte”. Un intervento minimo – la sostituzione di una sola lettera – cambia tutto, e “Fragen” diventa “Frauen”, donne. Ed è così che molti testi poetici della raccolta sembrano procedere: per assonanze, consonanze, somiglianze foniche e scarti semantici. Quello che Kreidl instaura con la lingua è rapporto giocoso, dinamico. Le poesie sono vivaci, sembrano avere un carattere mobile, una flessibilità, e sono spesso imprevedibili; da una riga all’altra le immagini volgono nel surreale, gli accostamenti sono inattesi, eppure a chi legge sembrerà di capire, stupendosi.

Sicuramente inconfondibile è il tono delle poesie, l’acume, il Witz. L’essenzialità e la concisione dei testi, asciutti, limpidi, diretti, la massima condensazione semantica, la scelta di lessico che si direbbe semplice, comune, sono cifre stilistiche che strutturano la raccolta, la quale è piuttosto una composizione coerente e coesa, con un suo sviluppo; da raccordo alcuni motivi e colori risuonano in contesti diversi, creando una rete di connessioni, paralleli, variazioni e contrasti.

Caratterizza inoltre Mehr Frauen als Antworten una certa varietà tematica. Una molteplicità di esperienze umane trova voce nei versi e li informa: un sogno, un ricordo, un fatto di cronaca, una notizia di attualità, una cartolina, un incontro, un onomastico, una foglia, tante letture e immagini. Tra le pagine compaiono sia uomini che donne: Lucia Joyce, ma anche Silvio Berlusconi. Così Kreidl ci mostra che tutto può essere materiale poetico, tutto può essere filtrato e trasfigurato, mutarsi e addensarsi in un bel pezzetto d’oro; che la poesia è qualcosa di vicino, accessibile, reale, che viene dalle frequentazioni della vita, anche quotidiana – e che è una pratica, ed è normale che come tutti gli artisti pure i poeti abbiano i loro “materiali”: ex nihilo nihil fit.

Una particolarità di questa raccolta poetica è la presenza di quelle che l’autrice nel sottotitolo identifica come note a piè di pagina, una per ogni testo. Non numerate e nello stesso carattere e dimensione delle poesie, non sono, com’è consuetudine nella letteratura scientifica, una parte esterna, disgiunta dal testo, in cui si indicano fonti, si forniscono informazioni aggiuntive, ulteriori riferimenti d’approfondimento e spiegazioni. Le note assolvono qui solo in parte queste funzioni, e sono a tutti gli effetti parte integrante dei testi poetici: vi sono menzionati scrittori e artisti, titoli di libri, articoli di giornale, opere d’arte; si possono intendere come commenti a posteriori, ripensamenti ironici che testimoniano anche l’umorismo ricco di sfumature di Kreidl, o sono postille, frasi a chiosa della poesia che seguono, talvolta indizi sulla scintilla dell’ispirazione, la scaturigine di un’immagine, rivelando così segreti del processo creativo; a volte “localizzano” il testo, lo inseriscono in un contesto… Si può scegliere di leggerle o no, leggerle subito o alla fine, andare a verificare ogni riferimento, interrogarsi su possibili nessi. Certo è che questo libro consente al lettore di esercitare la sua mitschöpferische Tätigkeit (attività co-creativa), come la chiamava Ingarden – lettore dal cui contributo attivo dipende la costruzione del significato. Le note a piè di pagina in definitiva tengono aperto lo spazio della poesia affinché si possa leggere ulteriormente, cercare, interpretare, incuriosirsi, ragionare – intento chiaro anche nel titolo, che, è vero, esclude la parola “domande” ma non intende indebolirle, al contrario lasciarle aperte, suggerire che c’è sempre qualcosa che eccede le risposte.


Der Sänger singt von einem Bett im Gras

und einem weißen weißen Arsch.

Der Mond ist gelb, der Klee schmeckt süß.

Der Sänger spielt mit Hand und Füßen:

Für eine Dame braucht man mehr als

einen Schlüssel. Ein Ring aus Glas, ein Kranz

aus Margeriten, Duft von Lindenblüten,

ein Lied mit Reimen, Mond und Arsch in einer Zeile.

Minne hat keinen Sinn, in der blauen Stunde

ist die Dame grün, sagt Walther von der Vogelweide,

die Halme blühn, das Wasser rinnt, die Fische

schwimmen im Gras. Hier ist mein Lied zu Ende,

der Sänger lacht, ich habe von der Welt getrunken,

schön wars, du bist als nächster dran,

ich steig jetzt in den Brunnen.

Cantarai d’aquestz trobadors

sang von den tolpatzen troubadouren

Peire D’Alvernhe, Uljana Wolf, Schreibheft 89/2017.

Il cantore canta di un letto nell’erba

e di un culo bianco bianco.

La luna è gialla, dolce il sapore del trifoglio.

Il cantore suona con piedi e mani:

per una signora non bastano

le chiavi. Un anello di vetro, una corona

di margherite, profumo di fiori di tiglio,

una canzone in rima, luna e culo sulla stessa riga.

L’amor cortese non ha senso, nell’ora azzurra

la signora è verde, dice Walther von der Vogelweide,

gli steli crescono, l’acqua scorre, i pesci

nuotano nell’erba. Qui finisce la mia canzone,

ride il cantore, ho bevuto dal mondo,

è stato bello, tu sei il prossimo,

adesso entro nel pozzo.

   

Cantarai d’aquestz trobadors

sang von den tolpatzen troubadouren

Peire D’Alvernhe, Uljana Wolf, Schreibheft 89/2017.

Gestern habe ich um dein Gesicht getrauert –

was für ein Charakter!

Heute hast du ein anderes Gesicht.

Es ist also wahr:

Das Gesicht von gestern steigt in den Himmel auf.

Ein heller Moment:

Die Wolken reißen ein Loch ins Gesicht.

Wolkenlicht,

Lichtbüschel,

Büschelentladung:

Das Gesicht ist wolkig aufgewühlt,

durchlichtet.

Bertolt Brecht, Erinnerung an die Marie A., 1920.

Ieri ero tanto afflitta per il tuo viso –

straordinario!

Oggi hai un altro viso.

E allora è vero:

il viso di ieri se ne va in cielo.

Un momento terso:

Le nuvole ti strappano un buco sul viso.

Luce fosca,

lampi di luce,

scarica di lampi:

il viso inquieto, annuvolato

traluce.

Bertolt Brecht, Ricordo di Marie A., 1920.

Eine Margerite blüht im Merzrevier,

ich liebe dir und du liebst mir,

du heißt Hase, ich heiße Schatz,

wir nehmen auf der Wiese Platz,

die Sonne tropft ins grüne Gras,

zehn gelbe Tropfen und einer ist elf,

gelb ist die Farbe deines Fells,

dein Name schmeckt nach Karamell,

du süßes heißes Tier, vergiss dich und die

rührenden, weiblichen, die reinen,

die einsilbigen und die unreinen Reime,

du bist mir einer und ich bin deine

von vorne und von hinten,

oben, unten, ohne Titel, hier:

deine Margarete blüht im Merzrevier.

Kurt Schwitters, Ohne Titel (Sich öffnende Blüte), Gips bemalt, 1942/1945.

Una margherita sboccia nel campo del Merz,

io amo a te e tu ami a me,

tu sei lepre, io sono tesoro,

ci sediamo sul manto erboso,

il sole gocciola sul prato verde,

dieci gocce gialle e una fanno undici,

giallo è il colore del tuo vello,

il tuo nome sa di caramello,

tu dolce bestia calda, dimentica te stessa e le

rime toccanti, femminili, quelle pure,

le rime monosillabe e quelle impure,

per me tu sei il solo e io sono tua

da davanti e da dietro,

sopra, sotto, senza titolo, qui:

la tua margherita sboccia nel campo del Merz.

Kurt Schwitters, Senza titolo (Fiore che sboccia), gesso dipinto, 1942/1945.

Ich erinnere mich an das Licht

zwischen den Bäumen. Der Wind

ist der Wind in meinen Haaren.

Ich weiß, dass ich ein Gesicht habe.

Ich rede mit meiner linken Hand.

Eine Antwort bleibt aus.

Ich reite auf einem Schaf durch das Haus.

Ein Haus kommt zum andern.

Ich zähle mich in das Wir hinein.

Wir spielen das lange Spiel.

Es ist sieben Uhr früh.

Ich bin mit meinem Mund allein.

Augusta Laar, MITTEILUNGEN GEGEN DEN SCHLAF. Träume, Lieder, Skizzen, 2021.

Mi ricordo la luce

tra gli alberi. Il vento

è il vento tra i miei capelli.

So di avere un volto.

Parlo con la mano sinistra.

Nessuna risposta.

Cavalco una pecora per la casa.

Una casa va incontro all’altra.

Mi considero parte del “noi”.

Giochiamo al gioco lungo.

Le sette di mattina.

Sono sola con la mia bocca.

Augusta Laar, MITTEILUNGEN GEGEN DEN SCHLAF. Träume, Lieder, Skizzen, [COMUNICAZIONI CONTRO IL SONNO. Sogni, canzoni, schizzi], 2021.

Er nannte mich eine Landschaft,

es fehlte das Wort Asphalt,

wir tanzten auf einer Ansichtskarte,

bis es hell wurde. Die Luft war blau,

als er sagte: Rehbraune Augen

hat mein Schatz. Ich habe seinen

Namen vergessen. Es war Sommer.

Das Schwimmbad war eine Baustelle.

Ich musste den Kran zusammenfalten.

Eine Ansichtskarte von Thalgau mit Naturschwimmbad, Kirche und Trachtenmusikkapelle.

Diceva che ero un paesaggio,

mancava la parola asfalto,

danzammo su una cartolina,

finché non fu giorno. L’aria era blu

quando disse: occhi di cerbiatto

ha il mio tesoro. Ho dimenticato

il suo nome. Era estate.

La piscina era un cantiere.

Ho dovuto smontare la gru.

Una cartolina di Thalgau con piscina naturale, chiesa e banda musicale tradizionale.

Frontiere

editoriale a cura di Riccardo Innocenti.

Frontiere è una rubrica mensile a cura di Francesco Brancati, Riccardo Innocenti e Riccardo Socci che raccoglierà interventi scritti da poet3 che sono stat3 invitat3 a riflettere sulla loro opera in relazione all’orizzonte delle scritture contemporanee. I contributi si concentreranno su questioni formali e teoriche come: libro-progetto e raccolta; prosa e versi; cut up e riscrittura; poesia e fotografia; la vergogna della poesia; lirica e transfemminismo; espressivismo e saggismo; ecfrasi; poesia e pedagogia. Sono argomenti noti e noi non ci poniamo l’obiettivo di esaurirli, vogliamo invece proporre uno spazio in cui ragionare sulle forme che diamo ai nostri testi e sulle poetiche che motivano le nostre scelte.

La poesia tende all’ autoreferenzialità e allo specialismo, fatto che assumiamo senza autoindulgenza e senza arrampicamenti retorici e ipocriti. Non ci interessa capire come continuare a ri-funzionalizzare la poesia per renderla un mero veicolo di ‘pensierini’ o dell’azione politica. Rivendichiamo invece il nostro interesse per la letteratura come fatto estetico che non necessita di essere legittimato dalla sua spendibilità sociale. 

L3 poet3 affronteranno quindi le problematiche della scrittura di oggi in riferimento alla propria opera e a quella altrui. Abbiamo richiesto delle riflessioni critiche spontanee e libere, sicuri della possibilità di arricchimento che può derivare da un confronto su temi troppo spesso oggetto di discorsi retorici e riti esausti.

Pensiamo che la dimensione politica, esistenziale, speculativa  della scrittura debba essere sostanziata da un ricerca sulle forme e siamo convinti che la migliore poesia sia sempre accompagnata dal tentativo di rispondere a problemi formali e teorici. Per questi motivi abbiamo concepito la rubrica Frontiere come un laboratorio che offra una riflessione collettiva su ciò che facciamo in quanto poet3: scrivere.

La riflessione sui fenomeni che interessano la scrittura e il gesto che la produce deve per forza di cose tenere in considerazione il contesto in cui questa nasce, non perché sia doveroso ma perché non può fare altrimenti. Non vogliamo quindi ripudiare tutto ciò che sta fuori dal testo e che comunque è spesso oggetto di rubriche valide e riflessioni che apprezziamo.

Tuttavia è ormai evidente che il discorso ‘critico’ proposto dalle riviste online,  dalle presentazioni o dai semplici post sulle piattaforme social, si sia spostato dalla lettera al concetto. Le opinioni che stanno dietro al testo sembrano giustificare la sua esistenza più che motivarlo. Un fenomeno che, amplificato dalle possibilità autofittive dei social, comporta in poesia la riproposizione di pose istrioniche che speravamo di esserci lasciate alle spalle. La speranza è che, fuori dall’occhio di bue sotto il quale qualcuno si contende a colpi di virtue signaling le briciole di quel che resta di una civiltà letteraria, si possa discorrere più liberamente.

Chi progetta una rubrica pensa anche a un pubblico al quale rivolgersi. Ci immaginiamo di dialogare con un pubblico potenzialmente indifferenziato, ovviamente quello delle persone interessate alla poesia. Vorremmo dare a questa rubrica un taglio personale, procedendo secondo il nostro gusto e senza avanzare pretese universalistiche che difficilmente riusciremmo a rispettare.

Chi non è alle prime armi ha imparato che in un contesto di produzione ristretta come quello della poesia solitamente si ragiona secondo un criterio ‘amichettistico’, il quale garantisce la pace e il fluire di legittimazioni reciproche. Questo equilibrio frutta solo recensioni lodevoli o innocue, perché colpiscono una persona morta alla poesia (leggi: Franco Arminio) o una fazione notoriamente avversa. Noi proveremo a privilegiare i nostri gusti e le nostre idiosincrasie, prendendoci la libertà di coinvolgere persone che secondo noi hanno qualcosa di interessante da dire. Cercheremo di scoraggiare discorsi che evitano di affrontare onestamente il lavoro della scrittura, stimolando invece riflessioni sui compromessi che quotidianamente dobbiamo fronteggiare.

Scrivere significa mediare fra ciò che ci viene naturale, ciò a cui puntiamo idealmente e quello che il nostro pubblico può accettare. Possiamo gestire questo compito con più leggerezza grazie alla legittimazione di chi occupa una posizione forte nel campo letterario, oppure percorrendo una strada sicura, aperta e battuta da altr3 prima di noi. La collaborazione e la stima disinteressata di un gruppo di pari, invece, permette di avanzare nell’orizzonte, comprendendo verso quali frontiere conducono le vie che stiamo percorrendo e quali strade ci sono ancora precluse.

Gli amori emarginati: un’antologia poetica di Pino Pograjc

Introduzione e traduzioni a cura di Giorgia Maurovich

Pino Pograjc (1997, Lubiana) si è laureato in inglese e letterature comparate presso l’Università di Ljubljana. È cresciuto a Kamnik, dove ha letto per la prima volta le sue poesie davanti a un pubblico in occasione di gare di slam poetry, vincendo diverse volte.

Nel 2022 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie, Trgetanje (unione dei termini trganje, strappo, e drgetanje, brivido), per cui ha vinto il premio per il miglior esordio letterario al 38° Salone del Libro sloveno. Nel 2024 è uscita la sua seconda raccolta, Trepete (anch’esso un gioco di parole con trepetaje, trepidazione, e repete, bis, a richiamare per assonanza il titolo dell’opera prima) con la quale si è aggiudicato il premio Mlado pero.

Nella sua poesia Pograjc si concentra sulle sfaccettature della sua identità e delle sue esperienze con approccio confessionale e diaristico: scrive della sua sessualità, della sua diagnosi di schizofrenia paranoide, dell’essere figlio di un padre alcolizzato e di una madre sopravvissuta al cancro. La sua poetica è attenta alla creazione di circostanze in cui predomina l’intento di immedesimazione, che restituisce al lettore uno spaccato di quotidianità di categorie spesso rimosse dal discorso pubblico, come i malati o i pazienti psichiatrici, o a cui sono stati preclusi accesso e compartecipazione all’immaginario letterario.

Troviamo così versi che raccontano, con enfasi sull’elemento dialogico-narrativo, più che su quello visivo, l’infanzia e l’adolescenza nella cittadina di Kamnik, la complessa situazione familiare, che rispecchia una realtà sottaciuta ma condivisa da gran parte della sua generazione, i resoconti crudi e al contempo teneri dei ricoveri in reparto, dove alla freddezza e alla violenza del personale ospedaliero Pograjc oppone la trasparenza della sua volontà testimoniale e l’empatia dei rapporti intessuti con i degenti; infine, l’educazione sentimentale e sessuale in un contesto rurale, in cui l’esistenza di un tipo diverso di mascolinità stride con le aspettative e le consuetudini sociali.

L’io lirico opera allora su due fronti: quello della narrazione, a restituire la fedeltà della sua esperienza nel modo più rarefatto e attento alle emozioni possibile, ricorrendo anche a immagini scabrose a spregio di ogni politica del decoro; e quello della lingua, sempre più sperimentale nell’inserimento di incisi, apostrofi, allitterazioni e scomposizione delle parole in sillabe e assonanze frammentarie, elemento ormai di punta nelle raccolte e nei testi successivi all’esordio, che consolidano la posizione di Pograjc sulla scena letteraria come una delle figure di spicco della letteratura queer.

È grazie al lavoro portato avanti negli scorsi decenni da nomi preminenti come Brane Mozetič, Nataša Velikonja e Suzana Tratnik che è stato possibile ritagliare uno spazio per la produzione letteraria queer sulla scena slovena. Alla casa editrice ŠKUC e alle sue collane Vizibilija e Lambda, che vantano una tradizione pluridecennale di editoria queer slovena di vario genere, si stanno affiancando case editrici più piccole, come l’indipendente Črna skrinjica, che nell’ultimo anno ha pubblicato tre raccolte di poeti queer sloveni, due delle quali esordienti.

Non mancano tuttavia critiche soprattutto da nomi autorevoli della vecchia guardia, che lamentano pubblicamente la premiazione delle opere queer slovene o l’esistenza di consigli di lettura sulle “migliori opere queer slovene” nei principali mezzi d’informazione, e che mettono in guardia i lettori dal declino della “scrittura slovena forte e maschile” per il timore che il paese si trasformi in “una nazione di poetesse vulnerabili”.

Le poesie qui tradotte sono tratte dalla raccolta Trgetanje (ed. Črna skrinjica, 2022).

bratstvo

moj brat študira ekonomijo
in analitično pristopa
k problemom sveta

tonina je volil, ker
koga bi pa on zajebal?
samo poglej njegov fris

ko kupi bejzbolski kij,
ga vprašam, zakaj,
in pojasni mi
včasih je treba koga zjebat

ko ga vprašam,
zakaj ne objavlja slik
na socialnih omrežjih
in nikomur ničesar ne lajka
mi obrazloži
treba je ohranjat misterij

ko ga vprašam,
zakaj v nahrbtniku za šolo
nosi uteži,
me razsvetli
treba je bit lep

star je bil 12 let,
ko sem mu želel povedati,
da imam rad moške
cel teden sem si pulil lase,
goltal bruhanje
in pripravljal govor

na morju sem ga posedel za mizo,
začel s tem, da želim,
da nekaj izve od mene,
ne od drugih

prekinil me je
si gej, ane?
in me objel,
medtem ko so solze tekle
po mojih licih

fratellanza

mio fratello studia economia
e ha un approccio analitico
ai problemi del mondo

ha votato per tonin, perché
a chi mai lo metterebbe in culo uno così?
basta guardarlo in faccia, dai

quando compra una mazza da baseball
gli chiedo perché,
e mi spiega
ogni tanto a qualcuno bisogna metterlo nel culo

quando gli chiedo
perché non pubblica foto
sui social network
e non mette like a niente e a nessuno
mi illustra
bisogna mantenere un alone di mistero

e quando gli chiedo
perché nello zaino di scuola
si porta dei manubri,
mi illumina
bisogna essere belli

aveva 12 anni,
quando decisi di dirgli
che mi piacciono gli uomini

mi strappai i capelli per una settimana,
trattenendo il vomito
e preparandomi un discorso

lo portai a un tavolo davanti al mare,
esordii dicendo che volevo
lo venisse a sapere da me,
non da altri

mi interruppe
sei gay, vero?
e mi abbracciò,
mentre sulle mie guance
scorrevano le lacrime

enkrat

dovolj sem pijan,
da ga ljubim,
zato greva med grmovje,
ki raste iz betona

vodim ga za roko,
v temi se je lahko izgubiti,
skejterji pogledujejo,
zavohajo, da sva začasna

poročil bi se z njegovimi prsti,
močnimi, razbeljenimi
jutri ga bom blokiral

odpenjanje gumbov je razodetje,
na kolenih nastajata stigmati
jutri se bom sovražil

pogledam v uretro
in vidim
najinega otroka

una volta

sono abbastanza ubriaco
da far l’amore con lui,
così avanziamo tra gli arbusti
che crescono dal cemento
lo porto per mano,
al buio è facile smarrirsi,
gli skater ci osservano,
lo avvertono, che siamo qui solo per poco

sposerei quelle sue dita,
forti, bianche e calde,
domani lo bloccherò

sbottonarlo è una rivelazione
sulle ginocchia si formano le stigmate
domani mi detesterò
gli guardo nell’uretra
e vedo
il nostro bambino

samonadzor

zjutraj ti lahko natočim mleko
in njemu skuham kavo,
še nisi slišal?
nekateri imajo ljubezni na pretek

lahko delim
(kar je ostalo od moje)
lupine zaužitega sadja

hrani prostor zame

njegova koža je tapeta,
tvoje kosti so temelji
hiše, ki bi jo udomačili

nič takega

ponoči se lahko stisnem med vaju,
brez odeje, ki bi me pokrila,
natančno na sredino

autocontrollo

al mattino posso versare il latte a te
e preparare il caffè a lui
non lo sapevi?
c’è chi ha fin troppo amore da dare
posso spartire
(quel che resta del mio)
la scorza di un frutto già mangiato

fai spazio anche a me

la sua pelle è carta da parati
le tue ossa le fondamenta
di una casa che vorrebbero domare

niente di che

la notte posso stringermi tra voi due,
senza una trapunta che mi copra,
proprio nel mezzo

več

bil si edini,
ki je tako tiho zdrobil svet

vsak teden se na novo zaljubim
ista šivanka
prebada gumb,
plete obsedenosti,
ovija me v plin

voham testosteron
in oči pokažejo belo

začelo se je v osnovni šoli

sedel je zraven mene
pri treh predmetih,
vsak dan mi je bolj bílo srce
ponoči sem sanjal, da svoje telo pustim
v postelji
in poletim do njegovega okna
le da ga vidim

nekega poletja sva se
malo zadeta
sprehajala
po kamniških gričih

nasmehnil sem se vsaki njegovi besedi

obljubil mi je,
da mi pokaže shotgun,
izdihne dim
v moja usta

ko sva prišla na samo,
nama je že zmanjkalo trave
in ostala je zgolj obljuba

prva obsesija je popustila
zelo počasi,
uvedla cikle hrepenenja
z različnimi igralci

moje male psihoze

di più

sei stato l’unico
a farmi a pezzi il mondo senza fare rumore

ogni settimana mi innamoro da capo
sempre la stessa sarta
che mi cuce il bottone,
le maglie dell’ossessione,
mi avvolge nel vapore

sento l’odore del testosterone
e gli occhi già mostrano il bianco

iniziò alle elementari

sedeva accanto a me
in tre materie,
il cuore mi batteva ogni giorno più forte
la notte sognavo di abbandonare
il corpo
il letto
e di volare alla sua finestra
soltanto per vederlo

era estate, eravamo
un po’ fatti
camminavamo
per le colline di kamnik

ridevo a ogni sua parola

mi promise
di mostrarmi il suo shotgun,
di esalarne il fumo
nella mia bocca

arrivammo a un luogo isolato
quando l’erba era già finita
e ci era rimasta solo la promessa

la prima ossessione si allentò
poco per volta,
inaugurando cicli di desiderio
con gli attori più diversi

le mie piccole psicosi

Confini in dissoluzione: frammenti di intimità nella poesia di Krzysztof Muszyński

Introduzione e traduzioni a cura di Chiara Wasowski, vincitrice della Call for Translators “Pur sempre amore”.

Poeta e autore di racconti brevi, Krzysztof Muszyński è nato nel 1989 a Bytom, in Slesia, terra di confine dalla storia complessa. Come si legge sulla quarta di copertina della sua prima raccolta poetica, nel giorno della sua nascita il governo polacco rimosse la censura preventiva. Muszyński appartiene, quindi, alla generazione cresciuta durante la transizione verso la democrazia liberale e il capitalismo, un’esperienza collettiva che si riflette nella sua poesia. Esplorando il confine fra intimo e sociale, l’autore interroga un sistema di consumo che non coinvolge solo le merci, ma anche gli affetti e le emozioni.

Laureato in Giornalismo e Comunicazione sociale, Muszyński ha conseguito un dottorato in Scienze umanistiche e ha lavorato come lettore a Napoli e a Torino. Oltre a fare ricerca in ambito accademico, si occupa di consulenza nel campo dei media e della cultura. Vive a Covilhã, in Portogallo.

Muszyński è autore di due raccolte poetiche, pubblicate rispettivamente nel 2021 e nel 2022 dalle edizioni Biblioteka Śląska: Ma na noc e Po lekku, che potremmo tradurre come Turno di notte e Leggermente

La sua poesia racconta le vicende umane più profonde e banali – come l’amore – in una sintesi densa di immagini quotidiane e visioni simboliche. Si caratterizza per una forte componente visiva e, più generalmente, sensoriale. Come nota Alina Świeściak-Fast, Muszyński «osserva, ascolta, annusa, esamina» per poi giocare col montaggio poetico, associando le atmosfere della Slesia a scorci di Cabo da Roca, Napoli, Torino…

Le prime due poesie che proponiamo sono tratte da Ma na noc.
In Nowa szczerość (Una nuova sincerità) il poeta osserva frammenti di vita urbana con sguardo distaccato e indulgente. La città di Porto si anima di storie semplici, in un presente che appare alle volte fuori dal tempo, altre volte penosamente autoreferenziale. La seconda parte del testo racconta per immagini un amore fragile ma tenace: legame discreto, forza quieta che resiste all’alienazione e alla precarietà.

In Przez lato (D’estate), sullo sfondo della Serra de Estrela, l’amore è scoperta e memoria. Il poeta restituisce un momento di vulnerabilità e vicinanza fisica: «il mio ecosistema è vicino al tuo collo / alla tua pelle liscia e al tuo respiro / abito sulla tua spalla». Dalle immagini minute di un sentimento incerto, infantile, il quadro si espande al cielo stellato, suggerendo una connessione fra gli amanti e il cosmo.

Gdy obydwoje szepczemy modlitwy (Quando entrambi sussurriamo preghiere) è parte della raccolta Po lekku. Questo testo presenta l’amore come fusione: le voci di due amanti s’intrecciano fino a confondersi, in un gesto intimo che si fa trascendente. Riferimenti alla Bibbia, alla cosmologia e alla tradizione popolare proiettano la loro unione in una dimensione originaria, spirituale, in cui i confini identitari si dissolvono.

Nowa szczerość

świat jest bogaty
znajdziesz w nim to
co chcesz znaleźć
gołębie w pojemniku
na bułki w markecie
zapadliska asfaltu
w których ktoś z placu
trzyma nogę rano
wyprowadzanego psa
za krawat przez
taksówkarza z kościoła
znajdziesz też miłość
ale cię to nie przekona

cała epoka składa się ze wstydu
za kogoś w telewizorze
i poczucia winy za wstyd
w kolejnych pustych miejscach
przeszło mi to samo

składam i składają mnie w brikolażu
i kocham jej srebrny włos wyrywam
sklepienie niebieskie
w kawowych jej oczach
jak brzmiący cymbał już
nie brzmię, mamy bilety
na koncert nasza para
i kilka osób przy barze
obok Coliseu deszczową zimą
przy placu Aliantów
w milionowej reprodukcji
Nighthawksów i kwitnących migdałowców
Van Gogha na niebieskim
pozdrawiamy i życzymy
udanego spotkania
a sério

Una nuova sincerità

il mondo è ricco
ci troverai ciò
che vuoi trovare
piccioni nei contenitori
del pane al supermercato
al mattino il piede
di uno del quartiere
in voragini d’asfalto
un cane tirato
per la cravatta da
un tassista fuori dalla chiesa
troverai anche l’amore
ma non ti convincerà

un’intera epoca di vergogna
per qualcuno in televisione
e senso di colpa per quella vergogna
in vuoti che si susseguono
ci sono passato anch’io

mi piego e mi ripiegano
in un continuo bricolage
e amo quel suo capello argenteo che strappo
la volta celeste nei suoi occhi caffè
come un cembalo tintinna io
non tintinno più, abbiamo i biglietti
per un concerto, noi due
e un po’ di gente al bar
accanto al Coliseu nella pioggia d’inverno
in Praça dos Aliados
nell’ennesima riproduzione
dei Nottambuli e dei mandorli in fiore
sull’azzurro di Van Gogh
un saluto e l’augurio
di un bell’incontro
ma davvero

Przez lato

nie znaliśmy się wtedy dobrze
gdy patrzyłaś na papierowe
drzewo, wybierałaś okulary
wybiegałaś z bloku
pod Serra da Estrela
ocean jest po jednej stronie
wysokie góry po drugiej
mało miejsca do spacerowania
zaraz zaczynają się autostrady
kończą chodniki i drzewa

w sierpniu rośliny są zakurzone
przerośnięte jak w niemym
filmie o lądowaniu na Księżycu
moje środowisko jest przy twojej szyi
gładkiej skórze i oddechu
mieszkam na twoim ramieniu
dziś znowu jak dzieci na podwórku
nie mamy nic do roboty
nie mamy pracy

światła miasta spadają po stoku
gdzie dorastałem razem z tobą
i niebo gwiaździste w nas
a prawo Bronxu nad nami

D’estate

non ci conoscevamo bene allora
quando fissavi l’alberello
di carta, stavi scegliendo gli occhiali
sei corsa via dall’isolato
ai piedi della Serra da Estrela
l’oceano è da un lato
le alte montagne dall’altro
poco spazio per passeggiare
subito iniziano le autostrade
finiscono i marciapiedi e gli alberi

ad agosto le piante sono polverose
cresciute oltre misura come in un film
muto sullo sbarco sulla Luna
il mio ecosistema è vicino al tuo collo
alla tua pelle liscia e al tuo respiro
abito sulla tua spalla
oggi di nuovo come bambini nel cortile
non abbiamo niente da fare
non abbiamo lavoro

le luci della città scendono lungo il pendio
dove sono cresciuto con te
il cielo stellato dentro di noi
la legge del Bronx sopra di noi

Gdy obydwoje szepczemy modlitwy

Nie wiem czyj głos jest czyj
Czy ja mówię twoim głosem
Czy ty moim ja twoim ty moim
Gdy obydwoje szepczemy te same modlitwy
Nie mają różnic nasze głowy
Mówię twoim głosem ty moim
Jak to ryby i bydlęta na Święta
Rodzą się planety
t = 0
= Tak jak kiedyś

Quando entrambi sussurriamo preghiere

Non so quale voce sia di chi
Se io parlo con la tua voce
O tu con la mia io con la tua tu con la mia
Quando entrambi sussurriamo le stesse preghiere
Le nostre teste non conoscono differenza
Io parlo con la tua voce tu con la mia
Come pesci e bestiame a Natale
Nascono i pianeti
t = 0
= Come un tempo

Amore senza amore, criminale – poesie scelte di Yoshihara Sachiko


Introduzione e traduzione dal giapponese a cura di Edoardo Occhionero

Sintetizzare in poche righe l’operato poetico di Yoshihara Sachiko 𠮷原幸子 (1932-2002) sembra impresa ardua. In compagnia di poetesse del calibro di Ibaragi Noriko e Shiraishi Kazuko, è stata protagonista attiva nell’affermazione del joseishi (poesia femminile) all’interno del panorama poetico del Giappone del dopoguerra. Il suo debutto è coinciso con la pubblicazione di Yōnen rentō (“Litanie d’infanzia”, 1964), raccolta in cui è percepibile – come suggerisce il titolo – l’amarezza di una gioventù assoggettata dai bombardamenti aerei, e dalle fiamme del primo amore. È ricordata, insieme a Shinkawa Kazue, per aver dato vita alla rivista di poesia femminile Gendaishi La mer (Poesia contemporanea – La mer, 1983-1993).

Tramite l’utilizzo di «bilingual frames»[1] che trasmettono un tono giocoso e informale, i momenti di ironia si alternano a una postura piuttosto esistenzialistica. Yoshihara spesso si rivolge a un anata (tu), che non di rado può essere avvertito come sdoppiamento intimistico del soggetto, cosicché l’avvio del dialogo si riduce a hitorigoto (soliloquio) con la parte più profonda di sé.

Ma un’altra delle marche yoshihariane si realizza a livello grafico, nell’intenzione deliberata di servirsi del kyū-kana zukai (norma ortografica precedente il nuovo sistema di scrittura giapponese): se non sono presenti variazioni sul versante della pronuncia e del significato, il principale effetto si realizza sul piano visivo.[2] Inoltre, con lo scopo di implementare la portata semantica di un termine, un altro divertissement si compie nell’inserimento intenzionale di furigana (guida fonetica degli ideogrammi) – esempio fra tutti la celebre poesia «Mudai» 無題(ナンセンス) (“Senza titolo/Nonsense”).

Dal punto di vista tematico, ricorrono inevitabilmente i riferimenti alla solitudine, alla separazione tra mondo esterno e interiorità, alla tensione vita-morte, amore-peccato – come cercano di esporre sommariamente le poesie qui presentate. La vita duole, e l’amore non sopravvive, cadaverico, è «l’ellisse di uno zero splendente», misura costante di un’assenza. In sintesi, per concludere con le parole del poeta e critico Ōoka Makoto, Yoshihara «canta sinceramente l’amore triste e insoddisfatto. E poiché rifiuta volontariamente il perseguimento di tale soddisfazione, essendo costantemente infelice, è in grande misura legata al dramma del mondo delle idee».[3]


[1] Leith Morton, “Translating Japanese Poetry: Reading as Practice”, The Journal of the Association of Teachers of Japanese, vol. 26, 2, American Association of Teachers of Japanese, Pittsburgh, 1992, pp.159-160.

[2] Carol Hayes; Kikuchi Rina, “Untitled Nonsense, She, and Contradictions by Yoshihara Sachiko” Transference, vol. 5, 1, Western Michigan University, 2017, p.59.

[3] Ōoka Makoto, “Yoshihara Sachiko no shi”, in Yoshihara Sachiko, Zoku yoshihara sachiko shishū. In Gendaishi bunko, 169.Tōkyō: Shichōsha, 2021, p.143.


ふと

なにか とてもだいじなことばを
憶ひだしかけてゐたのに

視界の左すみで
白い芍薬の花が
急に 耐へきれないやうに
無惨な 散りかたをしたので

ふり向いて
花びらといっしょに
そのまま ことばは 行ってしまった

いつも こんなふうに 
だいじなものは 去ってゆく
いつも こんなふうに 
だいじなものは 去ってゆく
愛だとか
うつくしい瞬間(とき)だとか

何の秘密も 明かさぬままに
さうして そこらぢゅうに
スパイがゐるので
わたしはまた 暗号をつくりはじめる
ことばたちの なきがらをかくして

D’improvviso


Stavo quasi ricordando
una parola molto importante quando

Nell’angolo sinistro della visuale, all’improvviso
un fiore di peonia bianco
si è sparso miseramente
come se non potesse più trattenersi

Al mio voltarmi
anche le parole insieme ai petali
al loro pari se ne sono andate

È sempre così che le cose care
se ne vanno
l’amore
i momenti di bellezza

Senza rivelare alcun segreto
poiché le spie sono dappertutto
mi appresto a creare codici
nascondo i cadaveri delle parole

da Natsu no haka夏の墓 (“Una tomba per l’estate”, 1964)


電車 

陽にきらめく 噴水はない
灰いろの屋根
と灰いろの屋根
のあひだの凹みに
落ちてゐた 赤いゴム風船
落としてしまったのは わたし?
とりに行く通路が ない

ゆめのなかで
わたしは ひみつの地下道をいくつもくぐって
そとへ出る
やせて死んでゆくひとの
薬のなまへを 一生けんめいくりかへしながら
いつも 薬は間に合はない
間にあっても 役に立たない
ひとはぼろぼろにやつれて 死んでゆく
わたしたちには お墓がないのね——

外出には帽子 東京帽子協会
愛には 誓ひ
死には 花束
を飾りませう

〈お急ぎください〉
といはれると
すぐにかけだす 善男善女
坐るやいなや 目を閉ぢて
その疲れた小さな眠りだけが
わたしたちの持てるぜんぶ
なのかしら

ああ 晴れた日でも
外出には 雨傘
愛には 挫折
死には 空白
を 用意しませう

それでもわたしは
誰もゐないコタツのなかで
たしかに 誰かの足にふれることがある
ゆかの上の
光の縞を
思はず またいだりする

Treno

Non c’è fontana che scintilli al sole
nell’interstizio tra tetto grigio
e tetto grigio
è caduto un palloncino di gomma rossa
o sono io a essere precipitata?
Non c’è via di recuperarlo

Attraverso in sogno
segrete strade sotterranee
ed esco
ripetendo allo sfinimento il nome della medicina
per la persona che, smagrita, sta morendo

La medicina non arriva mai in tempo
e anche se lo fosse servirebbe a poco
la persona morirebbe, malconcia
non c’è nessuna tomba per noi…

Per uscire sistemiamo il cappello   ASSOCIAZIONE CAPPELLI TŌKYŌ
per l’amore, un giuramento
per la morte
un mazzo di fiori

Quando si sente dire
«si sbrighi, per favore»
la brava gente inizia a correre
e non appena si siede chiude gli occhi
questo piccolo sonno stanco
è tutto quello che possiamo avere
forse

Ah, pure nei giorni di sole
predisponiamo
l’ombrello per uscire   
per l’amore, un’amara delusione
per la morte, un margine bianco

Eppure
nel kotatsu vuoto
mi capita certo di toccare i piedi di qualcuno
scavalco senza pensarci
un fascio di luce
sul pavimento

da Ondīnu オンディーヌ (“Ondine”, 1972)


復活

死ぬまいとして愛を殺す これは自衛だ
あなたに向けたぴすとるは わたしの心を狙ってゐる
罪の熱さと 罰の冷たさで
わたしにひびが入る そこから割れる べきだ
噓のやうに穴があいて たぶん静かにひろがる 死
世界のしたたる音が遠ざかり そのあとの
ながいながい独房 の窓に もしかしたら
静かでない死 燃える死 燃える生
雨のなかで じぶんの汗にぬれながら巣かけるくもの
ぬりつぶしてゆく せばめてゆく 光る(ゼロ)の楕円

Risurrezione

Uccidere l’amore per non morire è legittima difesa
la pistola rivolta a te punta sul mio cuore
per il calore del peccato e il freddo della punizione
mi guasto, da lì farei meglio a rompermi
il suono gocciolante del mondo si allontana e poi
alla finestra di una lunga, lunghissima cella, forse
una morte inquieta, una morte che brucia, vita che brucia
sotto la pioggia, bagnati del proprio sudore, s’annidano i ragni
oscurano, restringono l’ellisse di uno zero splendente

da Hirugao昼顔 (“Convolvolo giapponese”, 1973)


雨なのに 

雨なのに
虫が鳴いてゐる
どこかで蛙も
雨の音と 虫と蛙と
海鳴りが いっしょにきこえる
にぎやかな静寂

ひとりなら さびしいだらう
けれど

あたたかいひとつのからだが 傍らにあれば
ほんたうに ひとりでないか?

おなじ音に包まれてねむることはできる
でも
おなじゆめをみることはできない

過去がながすぎたので
幽霊をときどきみる
もうひとりが たぶん
べつの幽霊をみてゐる時間に

やさしさのために
わたしたちは互ひのゆめをうしろ手にかくし
コーヒーとトーストの朝
ほほゑみあふのだ
ほろにがく

虫は秋にだけ鳴くのではない
虫は春にも鳴く

枕もとで
めざまし時計のゼンマイが
ふるい内臓のやうに
ガギ… とほどける

世界のふるへが ほんの一瞬
静止する
タバコの灰に 地球の重力がはたらく

おなじゆめをみることはできない
でも
おなじ音に包まれてねむることはできる

雨なのに
虫が鳴いてゐる

Nonostante la pioggia

Nonostante la pioggia
gli insetti friniscono
da qualche parte gracidano anche le rane

Si sentono all’unisono il fragore del mare
e le rane e gli insetti e il rumore della pioggia
allegro silenzio

Mi sentirei triste se fossi sola
ma

Sarei davvero sola
al fianco di un corpo tiepido?

Riesco a dormire avvolta dallo stesso suono
ma
non riesco mai a fare lo stesso sogno

Considerata la vastità del passato
ogni tanto vedo uno spirito
magari mentre qualcun altro
ne vede uno diverso

Per semplicità
nascondiamo dietro la schiena i nostri rispettivi sogni
mattina con toast e caffè
ci sorridiamo
con un po’ di amarezza

Gli insetti non solo friniscono in autunno
gli insetti friniscono anche di primavera

Vicino al cuscino
la molla della sveglia
si sfalda, clang…
come vecchie viscere

In un breve istante, il fremito del mondo  
si arresta
sulla cenere di sigaretta agisce la forza di gravità   

non riesco mai a fare lo stesso sogno
ma
riesco a dormire avvolta dallo stesso suono

Nonostante la pioggia
gli insetti friniscono

da Yakan hikō 夜間飛行 (“Volo notturno”, 1978)

Si muove veloce il dolore: un viaggio orrorifico e trasformativo attraverso e verso il dolore

Introduzione e traduzione dall’arabo a cura di Enrica Fei

Si muove veloce il dolore (titolo originale: Sariʿan iataharrak al-ʿalam) è un poemetto di Ahmed Al ʿAjmii (1958, al Diraz, Bahrein), pubblicato nel 2016 dalla casa editrice omanita al-Ghasham. È un poemetto di 556 versi divisi in 146 brevi strofe di tre, quattro e cinque versi di cui proponiamo in questa traduzione alcuni estratti, corrispondenti ai primi 40 versi, una parte centrale e le ultime strofe. È un componimento dai toni cupi che racconta il dramma esistenziale di un uomo musulmano dinanzi alla guerra dello Stato Islamico dell’Iraq e Siria (ISIS), delle lotte intestine tra Sunniti e Sciiti, dell’autoritarismo dei paesi del Medio Oriente e del Golfo Persico.

L’opera si inserisce nella poetica araba contemporanea per l’irruzione dell’io, il prevalere dell’immagine – che in questo caso sono rappresentazioni del dolore vivide, fisiche, intrise di sangue ed elementi horror –, e il discostarsi dalla tradizione di impegno sociale per dare spazio all’impatto che la realtà ha sull’individuo, più che il ruolo che quest’ultimo può giocare nella società.

Al ʿAjmii, come uomo musulmano, esplora l’impatto doloroso che il tempo in cui si trova a vivere ha su di lui, un impatto che viene descritto come fisico, violento e, soprattutto, trasformante. Il nucleo tematico del poemetto – il tema della metamorfosi, del perturbante, del mostruoso che è dentro di noi e che viene risvegliato dall’inferno del reale – rende possibile definire Si muove veloce il dolore come la storia di un viaggio di (tras)formazione.

Per raccontare la fragilità del suo secolo, infatti, il poeta si fa amico degli esseri del fango e della notte e attraversa le valli del terrore, dentro e fuori di sé. Il cammino da lui intrapreso si traduce in una disintegrazione fisica durante la quale incontra fantasmi che lo scherniscono, entità malvagie e superiori che lo perseguitano, compagni che sembrano aiutarlo ma che si rivelano, anch’essi, corrotti. Per tutto il viaggio, il poeta si interroga sul libro sacro, il Corano, cercando invano una risposta al perché delle lotte fratricide. Nel finale, si rivolge direttamente al Cielo, chiedendogli se esiste e rimproverandogli di non aver agito in nessun modo per fermare il male.

Ahmed Al Ajmii

Ahmed Al ʿAjmii ha iniziato i suoi studi in Letteratura Araba nel 1976 presso la Kuwait University. Come segretario della National Union of Bahrain Students, ha scritto poesie di resistenza e lotta studentesca ma, a causa della sua attività politica, è stato espulso dall’università e dal Kuwait. Ha ripreso gli studi presso la Beirut University dove si è laureato in Lingua e Letteratura Araba. Dal 1987 ad oggi ha pubblicato 18 raccolte di poesie, due saggi – uno sulla cultura democratica, e uno sulla poetica araba contemporanea – e un romanzo sulla vita di un detenuto politico (tratto da una storia vera ma in forma di fiction letteraria). Dal 1980 al 2011 è stato membro della “Famiglia di Letterati e Scrittori”, una delle principali istituzioni letterarie e culturali del paese dal 1969, anno della sua fondazione. A seguito della posizione politica assunta dalla Famiglia in occasione delle proteste del 2011 (nel quadro della cosiddetta Primavera Araba che ha riguardato anche il Bahrein), ha dato però le sue dimissioni.

Al ʿAjmii ha infatti preso parte attivamente alle proteste scendendo in piazza contro la famiglia sunnita regnante, gli Al Khalifa, e la loro feroce repressione della comunità sciita, di cui Al Ajmii fa parte, che in Bahrein costituisce, in realtà, la maggioranza della popolazione. Vive a Manama, la capitale, dove continua la sua attività poetica e organizza eventi culturali.

Il Bahrein: tensioni solo apparentemente religiose

Nelle interviste rilasciate in patria, il poeta Ahmed Al ʿAjmii ha indicato nell’ecatombe causata dall’ISIS le ragioni profonde dello smarrimento di cui narra il poema Si muove veloce il dolore il dolore, per un uomo musulmano, di assistere impotente alle stragi causate in nome della sua religione. La sua solitudine, inoltre, indica il non riuscire ad identificarsi con alcun gruppo musulmano attualmente attivo in Medio Oriente. Sono chiari, anche, i riferimenti all’autoritarismo mediorientale, seppur non citati esplicitamente. Considerando la feroce repressione in Bahrein della comunità sciita di cui il poeta fa parte, nominare gli Al Khalifa, la famiglia regnante al momento in carica nel paese, avrebbe sicuramente portato alla censura.

La realtà socio-politica del Bahrein, però, è senza dubbio peculiare e, essendo sconosciuta ai più, merita una breve digressione. Il Bahrein è una piccola isola del Golfo Persico di poco più di 500 kilometri quadrati. Per quanto l’industria petrolifera sia dominante, è più povero e, a livello geopolitico, meno potente delle altre monarchie arabe del Golfo Persico (come gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita o il Kuwait). Inoltre, a differenze di questi altri stati, ha una popolazione indigena che non si può definire tribale. 

Fino alla fine del diciottesimo secolo, la piccola isola e i suoi abitanti erano sotto il dominio dell’Impero Persiano (l’odierno Iran). A differenza delle bellicose tribù dell’Arabia centrale (l’odierna Arabia Saudita), la sua popolazione era pacifica, sedentaria, e dedita alla pastorizia e all’agricoltura. Erano i “Baharna”, come si fanno chiamare ancora oggi. Le tribù del Najd, invece, (Arabia centrale), erano nomadi. L’ostilità climatica delle loro terre li portava spesso a spostarsi e, a seguito di invasioni e guerre, a conquistare territori più miti. Nel 1783, secondo la tradizione, la famiglia tribale degli al-Khalifa migrò dall’Arabia centrale e conquistò l’isola. Poco dopo l’insediamento, fu imposto un sistema feudale, che discriminava i Baharna e favoriva le famiglie tribali. Con l’avvento degli al-Khalifa, infatti, molte tribù si erano mosse dal Najd al Bahrein: essendo un’isola, il clima era più mite, le terre più redditizie e la pastorizia possibile. La famiglia degli al-Khalifa è ancora la famiglia regnante. Sarebbero diventati monarchi nel 1820, quando i Britannici (sotto la cui sfera di influenza rientrava il Bahrein), al fine di sigillare un’alleanza che controbilanciasse l’Impero Persiano nella regione, li dichiarò tali.

Molti dei Baharna, già dai tempi della conquista, erano fuggiti in Iran (allora, Impero Persiano). Soggetti a discriminazione, costretti a lavorare la terra e a cederne i frutti alle famiglie tribali alleate degli al-Khalifa, il risentimento nei confronti dei regnanti, percepiti come illegittimi invasori, si sarebbe formato già nel diciannovesimo secolo, per poi incancrenirsi nel corso del secolo successivo. I monarchi e le famiglie alleate, non solo non erano indigene; non solo, a differenza dei Baharna, gli autoctoni, che erano sempre stati sedentari, erano di tradizione tribale e beduina (vale a dire, prima di insediarsi nell’isola, erano nomadi); professavano anche una corrente dell’Islam che non era la loro. Erano, infatti, sunniti; mentre i Baharna, da sempre, sciiti.

Fin dai tempi della scissione tra sunniti e sciiti, la popolazione del Bahrain aveva sposato la causa di ʿAli bin Abi Talib, cugino e genero di Maometto, ed era quindi sciita. Ad oggi, gli sciiti rappresentano la netta minoranza del mondo musulmano (non costituiscono più del 15%). Sono, però, la maggioranza in Iran, Iraq e, appunto, in Bahrein. In quest’ultimo stato, in realtà, ormai non più (si stima un approssimativo 50%). La popolazione dell’isola, infatti, ha subìto varie ondate di “social engineering”: attraverso l’espulsione e la rimozione della cittadinanza di varie figure sciite di spicco, o l’elargizione della doppia cittadinanza a sauditi, pakistani, giordani (presumibilmente sunniti), il regime degli al-Khalifa è riuscito, nel tempo, a cambiare la demografia del Paese. Molti giovani sciiti, inoltre, subendo forti discriminazioni, sono stati costretti all’esilio. Moltissimi lasciano il paese non riuscendo a trovare lavoro a causa, evidentemente, della loro confessione religiosa.

È difficile riuscire a comprendere la natura del conflitto tra sunniti e sciiti, non solo in Bahrein, ma in numerose realtà del Medio Oriente. È facile indulgere nell’assunto orientalista secondo il quale, trattandosi di musulmani, la religione ha un ruolo centrale e, nonostante le differenze tra sciiti e sunniti non siano poi così cruciali, scoppino addirittura guerre guidate da uomini fanatici e barbuti. La realtà è più complessa e non prende le forme di una discriminazione religiosa: in Bahrein ciascuna festività propriamente sciita è consentita e rispettata; il Re, anzi, manderà perfino i suoi migliori auguri. È, semmai, di natura politica: la denominazione “sunniti” o “sciiti” dovrebbe essere intesa come una fra tante altre di natura politica che, in un determinato contesto, si sviluppa attraverso i decenni in un binomio di competizione (“repubblicani” e “democratici” nel contesto americano, ad esempio). Gli sciiti del Bahrein sono politicamente discriminati: il principale partito d’opposizione sciita in Bahrain, al-Wefaq, è stato sciolto nel 2016 e, tramite un decreto che impedisce a membri di ex congregazioni politiche di ricandidarsi alle elezioni, i suoi membri sono stati banditi dall’arena politica. Sarebbe un errore, però, leggere questa discriminazione in termini “identitari”: le ragioni di questa discriminazione sono da individuarsi nel timore che l’Iran – temuto come super potenza rivale dell’Arabia Saudita, potente alleato degli Al-Khalifa – possa foraggiare al-Wefaq al fine di esercitare la sua influenza nel piccolo paese del Bahrein. L’Iran è, sì, una Repubblica Islamica Sciita, ma sarebbe di nuovo un errore vedere in questo possibile supporto militare iraniano (per il quale non ci sono prove) una ragione ultima di natura religiosa (Hamas, partito politico e milizia attiva nella Striscia di Gaza foraggiato dall’Iran, è di stampo sunnita, ad esempio). Si tratta, ancora, di ragioni politiche: gli al-Khalifa, come detto, sono storicamente un forte alleato dell’Arabia Saudita e quest’ultima, possedendo similare peso geopolitico nell’area alla potenza iraniana e avendo simili aspirazioni di influenza regionale, è una forte rivale dell’Iran.

سريعاً يتحرّكُ الألم

ليس هذا هو العالمُ الذي ولدتُ لأجله.

vv. 1-38 / 49-51/ 70-72 / 77-88 / 518-526

زمنٌ آخرُ، غيرُ الذي حلمتُ به،
ولم يكنْ جديراً بمهامِه
في تحويلي إلى إنسانٍ جديد.

زمنٌ قطعَ لساني بسرعة
وأبقى كلماتي محتجزةً،
في قاعِه، ككوماتِ خزف.

مازلتُ أصغي إلى بذاءاتِه
المكتوبةِ باليقين،
وأستمدُّ أفكاري من عظامِه المرقّقة.

فيه انجرفتُ إلى سَفحِ الدّمِ،
وصادقتُ يرقاتِ الظلمةِ
المحشورةَ وسطَ أكبر كذبة،
تُسمّى الطُمأنينةُ والسلام.

هرباً من مراعي الخوف،
صنعتُ لنفسي ربّاً متوحّشاً،
وصرتُ أخشاه، أرتعبُ من عقلِه،
وساديّتِه.

حتى اللحظةِ، لم أرَ أفكاراً للنجوم،
في هذا الكتابِ القديمِ،
المنسوبِ إلى عصافيرَ طينية.

تُعساً، ثُقِبَ عقلي بقرنِ اللاهوت،
ومن الفمِ الملوثِ
تركتُ مُخيلتي تروي هشاشتَها.

أكبرُ أشباحِ الحقيقةِ
دفنتُ روحي فيه، ونسيتُ
في صدرهِ قلبي مدةً
أطولَ من تثاؤبِ الموت.

رأيتُ وميضَ السواد يُغذي الخوفَ،
وينقلُ الشمسَ إلى مزرعةٍ مسكونةٍ
بالبطلانِ، وبالمفاهيمِ القاتلة.

أصرخُ في ذاتي، فيرجعُ صداي
كصوتِ مزمارٍ مُنهك،
مُغطى بما يتناثرُ من أحزان،
بما يسيلُ من بلعومِ الشمس.

عشتُ دهوراً
في حمّى الكآبة،
إلى ظهرِ الخواءِ أُسندُ نظراتي
دونَ رؤيةِ أثرٍ لابتسامةِ الفجر.

[…]
بمصباحٍ أعمى، في غاباتِ البكاءِ،
استمرت هرولتي
دونَ الابتعادِ عن فوّهةِ العذاب.
[…]
السحرُ سريري، والدجلُ وسادتي،
وأرغبُ، كثيراً، في مواصلةِ النوم
ورؤيةِ سحابةٍ تُمطرُ التخلّفَ.
[…]
صارَ رأسي بالونةً
يملؤها بخارٌ مهزومٌ،
وتطفو في فضاءٍ شاحبٍ
نسجته يدٌ عطشانةٌ، مقطوعةٌ من الجسد.

في كبسولةٍ خانقةٍ، بحثاً عن الخرس،
يتواصلُ دوراني حولَ
صخرةِ الغثيان، الشبيهةِ بثدي القداسة.

ما أراه، ليس سوى اشتعالٍ للدموع،
وما أسمعُه، ليس أكثرَ من دقةِ ناقوسٍ
تدعو إلى إشاعةِ التمزّق،
وإهدارِ دمِ النهار.
[…]
جوهري يدورُ في طلاسمِه البعيدة،
العدمُ طائرٌ جارحٌ
محبوسٌ في قفصِ الصدر.

أين كينونتي، أريدُها
في الرمادِ المطلق،
لأسمعَ صوتي بلسانِها؟

Si muove veloce il dolore

Questo non è il mondo per cui sono nato

vv. 1-38 / 49-51/ 70-72 / 77-88 / 518-526

Un altro tempo, non è quello che sognai,
non era all’altezza, il tempo, del suo compito
nel trasformarmi in un uomo nuovo.

Un tempo che, veloce, ha tagliato la mia lingua,
sono rimaste in ostaggio, le mie parole
come seppellite, nel profondo, sotto a un cumulo di ceramiche intagliate.

Con attenzione ascolto ancora l’oscenità di questo tempo,
le sue parole certe,
e i miei pensieri nascono dalle sue ossa fini e fragili.

Mi porta via il tempo, fino al limite del sangue.
Divento amico delle larve della notte
che affollano il cuore della più grande menzogna,
chiamata salvezza, pace.

Fuggendo dalle valli del terrore,
un Dio mostruoso ho costruito per me.
Ho paura, mi spaventa il suo intelletto,
il suo piacere per il mio dolore.

Ancora non trovo il pensiero delle stelle
in questo libro antico,
consegnato al fango, ai suoi uccelli.

Nella tristezza, la mia mente è trafitta dal corno del divino.
Con parole sporche,
ho lasciato che la mia immaginazione si imbevesse di fragilità.

Della verità il più grande dei fantasmi,
dentro di lui la mia anima ho seppellito, e ho dimenticato
il mio cuore nel suo petto, per un tempo
più lungo della morte, che sbadiglia indifferente.

Ho visto il bagliore delle tenebre nutrire la paura,
e spostare il sole sopra un campo posseduto
dalla falsità, gli assassinii, le astrazioni della morte.

Urlo entro i confini di me stesso, e la mia eco torna indietro
come la voce di un antico flauto, consumato e stanco,
avvolto da ciò che sparge il dolore,
ciò che scorre dalla faringe del sole.

Ho vissuto ere
nella febbre della melanconia,
sulle spalle del vuoto ho appoggiato i miei pensieri.
Nessuna traccia antica del sorriso dell’aurora.

[…]

Con una lanterna cieca, nelle foreste del pianto,
la mia corsa lenta è continuata,
senza mai allontanarsi dal cratere del tormento.

[…]

Il maleficio è il mio letto, e l’inganno il mio cuscino.
Desidero, tanto, proseguire nel mio sonno,
il sogno delle nuvole, da cui piove l’ignoranza.

[…]

La mia testa è diventata un pallone,
i fumi della sconfitta lo riempiono.
Fluttua nello spazio pallido,
tesse le fila una mano esangue, amputata dal corpo.

In una navicella senza aria, alla ricerca del silenzio muto,
il mio giro vorticoso continua intorno
la roccia della nausea.
È simile, nelle forme, ai seni della santità.

Ciò che vedo, non è che l’esplosione infuocata delle stelle,
ciò che sento, non è che un solo gong,
chiama al diffondersi dello squarcio,
lo sperpero del fiume di sangue.

[…]

Fantasmi mi circondano,
ridono di me,
perché credo nella ragione.
I miei compagni sono alberi che rifiutano di restare saldi.

Assenza di vuoto, esisti?
Nel freddo pungente,
non ho sentito battere i tuoi denti,
non una parola tremante è stata versata da te.

Tradurre poesia: un atto di amore?

Un’intervista a Bianca Tarozzi, a cura di Vassilina Avramidi e Elena Strappato

Mentre i countdown per le feste natalizie sono già iniziati, e tante finestrine dei calendari dell’avvento sono già state aperte, anche noi dell’Almanacco ritorniamo su alcuni dei momenti più belli che abbiamo condiviso durante il 2024. Ritorniamo alle giornate calde di giugno, quando abbiamo organizzato il Grisù Festival de Lo Spazio Letterario, in collaborazione con Porta Pratello e con la libreria indipendente Confraternita dell’Uva.

Con l’intervista a Bianca Tarozzi avvenuta durante il Grisù, si è chiuso un anno di lavori e collaborazioni sulla traduzione, e in particolare sul rapporto tra poesia e traduzione. Durante il 2024 abbiamo desiderato di incontrare traduttori e traduttrici per diversi motivi: certamente, per conoscere il punto di vista di chi traduce, considerandolo un punto di vista privilegiato, critico sul testo, ma anche per valorizzare il lavoro di chi traduce e per rivendicare il lavoro di traduzione come una forma di scrittura contemporanea.

Bianca Tarozzi è nata a Bologna e vive a Venezia. Ha insegnato letterature inglesi e angloamericane tra Verona, Venezia e Milano, e come traduttrice ha abitato la poesia americana, in particolar modo quella confessionale e i suoi nomi più rappresentativi come Robert Lowell, Sylvia Plath e Elizabeth Bishop. Ha tradotto anche la poesia di Emily Dickinson, A. E. Hausmann e Louise Glück, vincitrice del Premio Nobel del 2020. Come autrice e poeta, l’esordio di Bianca Tarozzi avviene con Nessuno vince il leone (Arsenale, 1988), una raccolta di riscritture al femminile dove ritroviamo, tra altre, figure note dalla mitologia greco-romana, come Arianna e Penelope. In questa intervista, Bianca ci racconta la sua esperienza in quanto traduttrice di due tra le opere più rilevanti di Louise Glück, Ararat e Meadowlands, in Italia pubblicate entrambi dal Saggiatore (2021 e 2023 rispettivamente).

Elena: Nel 2021, dopo la vittoria del Nobel di Louise Glück, il Saggiatore pubblica la tua traduzione di Ararat, che in realtà però è precedente; era già stata pubblicata nel 2012, in un numero monografico della rivista In forma di parole, curata da Gianni Scalia. In realtà, fino alla vincita del Nobel, Louise Glück era parecchio sconosciuta nel panorama italiano, a tal punto che giravano articoli dal titolo “Louise Glück chi?”… Considerando che tu provenivi da una poesia contemporanea americana come quella confessionale, e che la voce lirica di Louise Glück in qualche modo sfugge questa categorizzazione, vorremmo che ci racconti com’è avvenuto l’incontro con la poesia di Glück, e in particolare come sei arrivata a tradurre Ararat e Meadowlands?

Bianca: Partiamo dalla mia formazione in quanto americanista. Quando ancora frequentavo l’università a Venezia ho scritto una tesi su Robert Lowell, che penso sia l’unico o, meglio, quasi l’unico poeta americano che si occupi della storia americana, perché sia la Glück che altre importanti poetesse e scrittrici contemporanee nordamericane, come Mary Robinson e Anne Carson, non parlano della storia nella loro poesia. Lo stesso credo vale anche di molti poeti americani contemporanei. Ci sono, certo, alcune eccezioni, ma allora si tratta di newyorkesi, ebrei, che hanno una diversa consapevolezza della storia. Mentre dunque lavoravo su Robert Lowell ed Elizabeth Bishop, ho letto un libro della critica letteraria Helene Vendler, scomparsa recentemente, intitolato Part of Nature, Part of Us (Parte della natura, parte di noi), pubblicato nel 1980.[1] Lì, verso la fine del libro, c’era una parte dedicata sulla poesia di Glück. Allora ho pregato la mia sorella maggiore, filosofa che vive a New York, di farmi avere qualcosa della Glück. Quindi, per le vacanze di Natale del 1980, mi ha mandato proprio quel librino di Glück che Vendler aveva commentato nel suo grosso volume sulla poesia americana. A una prima lettura, mi è sembrato molto facile individuare le influenze di Glück. Già dalla prima poesia sua che ho letto, ho pensato a Silvia Plath, perché il suo verso era libero, drammatico, la tematica era gotica… aveva però un tema suo specifico, ed era quello – se vogliamo chiamarlo così – dell’anoressia. Louise Glück aveva avuto una formazione un po’ particolare: ha studiato alle scuole superiori, dopo però si è ammalata e ha avuto gravi problemi di salute (anoressia), come non ha seguito un curriculum “normale”, studiando, per esempio, in una facoltà di lettere. Quando dunque mi è arrivato questo libro, [n.d.r.: Descending Figure), io lo lessi con molto interesse, e pian piano che uscivano anche le opere successive, me le procuravo. Anni dopo, quando insegnavo letterature angloamericane all’Università di Verona, ho organizzato un convegno su Ulisse e Circe. A quel punto, Meadowlands, il libro in cui Glück riscrive in parte i personaggi di Ulisse, Penelope, Telemaco e Circe, era già uscito e lo conoscevo.

A questo punto occorrerebbe tornare un po’ indietro: già anni prima, quando facevo lezioni di poesia americana alla Ca’ Foscari, per il Novecento partivo da Ezra Pound e dal suo poemetto Hugh Selwyn Mauberley (tradotto in italiano da Giudici), dove Ulisse diventa l’emblema del poeta novecentesco. Dopo Pound, anche Lowell, sul quale io avevo fatto la tesi, ritorna sul personaggio di Ulisse, per rappresentare la sua storia biografica, esistenziale: nella sua poesia Penelope era la maschera per la seconda moglie, Circe per la terza. Bisogna dire di Lowell che tutte le sue mogli sono state scrittrici, romanziere o critiche letterarie – almeno su questo direi che abbia rivelato un certo buon gusto! La sua versione però di Ulisse e Circe è tremenda: la sua era una maga aristocratica, dell’ Atlanta del nord, che si, scriveva romanzi, ma era di una famiglia disastrata, figli, droghe… insomma, succedeva di tutto. Per Lowell, quel periodo è stato un disastro, ed è quello che racconta attraverso questa riscrittura del mito. Ciò che fuori dalla poesia invece è che Lowell decide di ritornare dalla seconda moglie, Elizabeth Hardwick, ma il nostos non avviene: il poeta è morto in taxi, proprio mentre tornava a New York, dalla sua Penelope. La mia traduzione dell’Ulisse di Lowell è stata pubblicata nel 1977, in una rivista di Gianni Scalia, qui a Bologna – dico una perché, ai quei tempi, Scalia si inventava delle riviste in continuazione, appena finiva una ne cominciava un’altra.

Sono partita quindi da Ulisse, ma certo Penelope mi ha sempre molto interessata. Qualche anno dopo, nel 1985, ho scritto le “Variazioni sul tema Penelope”, un poemetto piuttosto lungo di trecento versi, mi fu subito pubblicato – per alcuni, quel poemetto sarebbe la cosa migliore che ho scritto; io non sarei tanto d’accordo su questo, ma ognuno ha i propri gusti. Allora, in quel periodo, sul terzo programma della radio, leggevano l’Odissea nella meravigliosa traduzione di Aurelio Privitera, pubblicato presso la casa editrice Lorenzo Valla. Passavo quindi le mie mattine ascoltando l’Odissea e nel frattempo scrivevo la mia versione di Penelope. L’ho ambientata nella contemporaneità, aggiungendo una buona dose di elementi autobiografici. Telemaco, per esempio, era mia figlia e mi faceva delle domande veramente strane: «tu, mamma, c’eri quando nell’era dei dinosauri?»… Avendo quindi scritto io stessa una Penelope, dai toni in parte comici e in parte drammatici, quando è uscito Meadowlands, mi sono precipitata, l’ho tradotto tutto e Gianni Scalia mi ha subito fatto pubblicare tutto il libro nella rivista In forma di parole. Questa è la storia del mio incontro con Glück.

Vassilina: Come hai ben accennato, in Meadowlands Glück riscrive l’Odissea in chiave lirica. Scrive, sì, in verso libero, ma gioca tanto con la forma e cerca di riportare dentro un genere per eccellenza monologico come la lirica, l’elemento del dialogo. Nei suoi versi, il mito è un velo, e la famiglia di Itaca diventa un’analogia triangolare (Penelope-Ulisse-Telemaco vs Glück-marito-Noah) attraverso cui la poeta racconta la fine del suo matrimonio. Una poesia che trasmette i sentimenti dolceamari del divorzio e della rottura, una poesia piena di lutto non per la morte, bensì per la perdita di una vita matrimoniale che ha segnato la vita della scrittrice e il suo rapporto con il figlio. Come Glück, anche Penelope è una figura che vive nell’assenza dell’altro, che fa esperienza della perdita, e del lutto continuo – del resto, anche la stessa tela di Penelope è un’arma contro i pretendenti, radunati a Itaca a causa dell’assenza del marito, ed è un oggetto del lutto, un che Penelope prepara per la morte eminente del suocero Laerte; una morte che non avverrà all’interno dell’Odissea.

 Sentire il lutto per qualcosa che si è perso è anche un sentimento che ci riporta alla pratica della traduzione; pensiamo anche al termine “resa”, all’ “arrendersi” davanti al testo e ai possibili “intraducibili” della lingua di partenza. Facciamo un esempio: nella tua traduzione di Meadowlands hai scelto di lasciare il titolo uguale nella versione italiana, una decisione che abbiamo visto ripetersi anche nella traduzione in greco moderno, come anche in quella francese. Tale decisione è senz’altro giustificata, visto che Meadowlands è il nome dello stadio della squadra The Giants a New Jersey, un luogo-chiave in questo libro di Glück, che diventa tema centrale nei dialoghi lirici con il marito. Questa scelta però nasconde un altro significato nascosto nel titolo inglese: “meadowlands” sono, infatti, le terre dei “meadows”, parola che traduce il greco antico λειμών (il prato, il pascolo), luogo poetico già dai tempi dell’Odissea dove i «meadows» erano la casa delle Sirene. Questa, per esempio, è una connessione con Omero che il lettore italiano, greco, francese perde quando vede la parola «meadowlands».

Bianca: Allora, parliamo dei titoli e della strutturazione dei libri della Glück. Le sue poesie sono strutturate all’interno dei libri con un senso, con un’unità tematica, non sono poste cronologicamente man mano che le scriveva. Ararat, anche quello lasciato invariato nelle varie lingue, è un altro bel esempio della molteplicità di significati che si nascondono dietro i titoli della Glück: per la maggioranza dei lettori, Ararat è il monte dove si pose l’Arca di Noè, dopo l’alluvione; ma Ararat è anche un nome di un cimitero ebraico di Long Island, dov’è sepolto il padre della Glück, un personaggio centrale di questo libro. «Meadowlands» in inglese significa terreno a pascolo, ma è anche lo stadio. Questo è un punto tematico di scontro tra marito e moglie nel libro: per lui, i calciatori che giocano lì sono persone straordinarie, quasi eroi, mentre per lei, sono quasi dei delinquenti, degli energumeni. Addirittura, il personaggio di Penelope, attenta all’estrema cementificazione della zona, ride del nome dello stadio e lo paragona all’interno di un forno. Quindi i titoli della Glück sono sempre plurivalenti, indicando allo stesso tempo l’unità tematica dei libri.

Vassilina: Infatti, lo stadio dei Giants prende il suo nome proprio dai prati di New Jersey su cui è stato costruito, durante un periodo che ha segnato la zona per l’edificazione intensiva e la perdita di una dimensione più bucolica che la caratterizzava. Ritornando all’idea della perdita vorrei chiederti come ti sei approcciata a questo libro, e anche più generalmente, come ti approcci alla pratica della traduzione? Come riesci a mantenere i molteplici significati che ci sono all’interno dei versi e delle parole straniere, senza sentirti di perdere sempre qualcosa dall’originale?

Bianca: Ho recentemente pubblicato un libro sulla traduzione per Molesini, che si chiama Imitazioni.[3] Il titolo è un termine usato nel Settecento da traduttori inglesi, per es. da Dryden, perché si sono resi conto che una traduzione vera e propria è impossibile – addirittura, alcune volte è proprio impossibile tradurre. Poi la parola è diventata una tradizione, sia in Italia che negli Stati Uniti: un libro di Bertolucci si chiama così, come anche uno di Sinisgalli. Per non parlare poi delle Imitations di Robert Lowell, dove in realtà la voce poetica è tutta sua, non c’è nessuna fedeltà all’originale.[4] Per me, il problema delle traduzioni era dovuto al fatto che traduco poesia da sempre, ho cominciato appena ho potuto, partendo da Baudelaire per divertimento. Tradurre poesia è un atto di amore, perché la poesia interessa pochi. La vera sfida nella traduzione di poesia non è il ritmo, ma la struttura metrica, la rima… quelle non si possono tradurre. Ogni tanto uno può anche riuscirci, ma è raro. Le questioni, quindi, sarebbero due: la fedeltà al testo e il tentativo di costruire un ritmo, che non potrà, certo, essere proprio identico a quello del testo originale, ma che dovrà essere percepito come un ritmo.

Quando facevo le medie, studiavamo l’Iliade, e cioè leggevamo il testo omerico, ovviamente in traduzione. Quando invece mia figlia andava alle medie ha studiato l’epica antica in un modo tutto diverso: rispondevano a delle domande perlopiù teoriche come “cos’è un poema epico” e a imparare varie definizioni, senza fare esperienza diretta del testo omerico. La mia generazione – io sono del ’41 – ha avuto la gioia di leggere l’Iliade nella meravigliosa traduzione di Vincenzo Monti, completamente infedele, più lunga dell’originale, quindi per certi versi disastrosa. Il suo ritmo però è favoloso; del resto, anche Leopardi era apprezzata anche da Leopardi.

Se quindi accettiamo che una delle maggiori sfide nella traduzione di poesia è quella della struttura ritmica, con la Glück questo problema non si pone: il suo è un verso libero. Ciò che costruisce il ritmo nella Glück è la semplicità, la chiarezza, la laconicità della frase e della struttura sintattica. Lei dice addirittura che non adopera nessuna parola che un bambino non potrebbe capire. Si tratta dunque di una poesia comunicativa, non difficile da tradurre salvo che per delle questioni culturali: per es., meadowlands non vuol dire nulla per un italiano, mentre per un americano evoca immediatamente lo stadio. Io non ho trovato delle grandi difficoltà. Ho tradotto prima Ararat perché l’ho trovato più facile, mentre Meadowlands, anche per via della presenza di dialoghi, ha un linguaggio più complicato: da un lato, è un inglese colloquiale, parlato dagli americani, dall’altro è elegante; due cose che sembrano contraddirsi, e invece Glück riesce miracolosamente a costruire un linguaggio conciso, elegante, perfettamente chiaro e comprensibile, con una struttura sintattica interessante, e quindi con una ritmicità. Non ha però né la metrica, né la musica.

Vassilina:La musica è però presente in Meadowlands lungo tutto il libro, attraverso citazioni o invocazioni. Già nell’esergo, la coppia dei protagonisti comincia un gioco: «– Giochiamo a scegliere la musica. La forma preferita. – L’opera lirica. – La tua preferita. – Figaro. No. Figaro e Tannhauser. Ora tocca a te: cantamene una.» Si parte, dunque, dall’opera e si procede con la prima poesia del libro, intitolata «Penelope’s Song», «La canzone di Penelope», dove l’eroina si stacca dalla sua anima, e le chiede di cantare una canzone al marito perché ritorni.

Bianca: Io nel primo verso di questa poesia, «little soul», «piccola anima», vedo un chiaro riferimento all’ «animula vagula blandula» di Adriano. Infatti, avevo tradotto «little soul» con «animula», ma la casa editrice ha scelto diversamente.

Vassilina: E alle perdite si ritorna, quindi… Le referenze musicali in Meadowlands arrivano fino alla musica kletzmer, un genere musicale ebraico proveniente dall’Est Europa, tanto conosciuto a New York e generalmente negli Stati Uniti, che di solito viene scelto per le feste e i matrimoni ebraici durante gli anni in cui Meadowlands viene scritto. La Penelope di Glück, invece, esprime il desiderio di cantare una «accattivante / innaturale canzone – appassionata come Maria Callas» («La Canzone di Penelope»). La tua Penelope, dall’altra parte, fa i conti con l’epica, e anche se trovi che l’endecasillabo sia «una muffa», scrive comunque in endecasillabi, nonostante alcuni siano spezzati, e altri nascosti tra enjambements. Vorrei dunque chiederti: che legami vedi tra Penelope, la musica e la metrica e qual è il tuo rapporto personale metrica e con l’endecasillabo?

Bianca: Mentre nella poesia modernista del Novecento Ulisse è il poeta, nella poesia della Glück il poeta è Penelope – come lo è anche la mia, che scrive e traduce. Per quanto riguarda l’endecasillabo invece, la poesia dell’Ottocento inglese, mi viene in mente in particolare Tennyson, quella era una poesia così cantata, così musicale, che il Novecento ha dovuto reagire contro questa musica del metro. Anche Pound però, che ha preferito il verso libero, dice «there isn’t such a thing as free verse», «non esiste il verso libero», perché anche nel verso libero ci dev’essere un ritmo; se non c’è un ritmo, allora è semplicemente prosa. C’è chi ha molto criticato la Glück, dicendo «come mai quell’articolo su Persefone [n.d.r.: Averno] va sempre a capo»? La risposta è semplice, perché è poesia. Il ritmo della Glück è argomentativo. La poesia di Meadowlands ha come tema, tra altri, la musica, ma non è una raccolta di canzoni. Il suo è un lavoro quasi più simile a un’opera teatrale, con i personaggi che confliggono tra loro. Telemaco, per es., ha un ruolo centrale: è il figlio scisso tra due genitori completamente diversi. Il marito della Glück era un atleta, un professore di ginnastica, non era per caso che gli piaceva il calcio; era forse prevedibile che il matrimonio non potesse funzionare tanto bene. La struttura è dunque drammatica, un pensiero che si snoda ed esamina i pro e i contro di una relazione destinata a finire.

Per parlare del mio rapporto con l’endecasillabo tornerei ancora all’Iliade di Vincenzo Monti e all’influenza che ha avuto su di me – dovremmo anche considerare che allora si imparavano pezzi di poesia a memoria. L’endecasillabo è connaturato nella nostra tradizione, però nel mio caso si tratta di un endecasillabo terremotato: gioco con il verso lungo quello verso breve, endecasillabo e settenario, un’alternanza che troviamo già in Dante, Petrarca, Tasso, e via dicendo. Milton copia dall’Italia, l’endecasillabo influisce sulla poesia inglese del Cinquecento, perché leggono Petrarca e dopo viene creato il pentametro giambico. Il mio endecasillabo cerca di diversificare il ritmo, si spezza, in modo da evitare questa “cantilena” che risulta poco accettabile nella poesia del Novecento.

Elena: Tornando sui due libri della Glück che hai tradotto, Ararat e Meadowlands, noi abbiamo individuato un filo comune: entrambi questi libri sono pervasi dal lutto. Certo, parlando di perdite diverse. In Meadowlands c’è la perdita dell’eros, dell’intimità coniugale tra due sposi; c’è la lontananza di Ulisse da Penelope come anche la crisi, la fine di un matrimonio. In Ararat il lutto è prima di tutto familiare: vi ci troviamo il resoconto poetico di vicende familiari che forma un intreccio quasi narrativo, romanzesco. Allo stesso tempo questi due libri che cantano della perdita, sembra ragionino sul desiderio. Nell’epigrafe di Ararat troviamo una citazione da Platone: «il desiderio è la ricerca per l’intero; si chiama amore». Il tema della perdita in Ararat non è legato solo alla perdita del padre, ma anche all’amore difficilissimo che univa la Glück con la sorella; due sorelle tanto diverse, che ricordano in parte le opposing forces di Ulisse e Penelope in Meadowlands. Il desiderio come portatore di lutto, di perdita, ci ha fatto venire in mente la Canadese classicista, scrittrice e poeta Anne Carson, che definisce l’eros come perdita, mancanza e lutto. Per Carson l’esperienza erotica del desiderio come caratteristica dell’amante, del mancante (colei che non ha) e del sapiente (colei che sa di non sapere?) – un po’ come fa Penelope in Meadowlands. Dalla tua esperienza di questi due testi, c’è qualche riflessione che intreccia in entrambi desiderio, perdita, e ricerca di una voce creativa?

Bianca: Se pensiamo di nuovo al titolo Ararat, c’è una terza connessione che dovremmo aggiungere alle due precedenti, menzionate prima: nella radice ebraica, «ararat» vuol dire salvezza. Sarà dunque l’inevitabile ricerca dell’intero possibile? Dopo, un tema importantissimo di questo libro è vero, è il rapporto complicatissimo tra le due sorelle. Si tratta di una insopportabilità che ha una lunga tradizione: nella scrittura biblica, il primogenito è sempre cattivo; il secondogenito, invece, gode di una maggiore libertà, forse addirittura felicità. Il primogenito è condannato all’invidia. Il personaggio di Glück in Ararat confessa la sua invidia, è onesta ed esplicita. Avendo io stessa una sorella maggiore, ero molto interessata a indagare meglio sul racconto di Glück di questo rapporto tra sorelle.

Per quanto riguarda invece la perdita, questo penso sia il tema di tutta la poesia. Ci tengo a citarvi almeno due casi. Elizabeth Bishop ha scritto una poesia intitolata «The Art of Losing», dove dice: «the art of losing isn’t hard to master», «l’arte di perdere non è difficile da padroneggiare» – del resto, questo è destino comune di tutto il genere umano. La poesia vuole conservare ciò che si perde, fermare l’attimo, congelare l’emozione. Qui ritorno ancora a Pound, che parla della poesia come «frozen emotion», «emozione ghiacciata, fermata, trattenuta». Emily Dickinson, invece, in una sua poesia ci ricorda come «la percezione di un oggetto costa precisamente la perdita dell’oggetto», cioè, se hai l’oggetto, sei contento, non hai bisogno di scrivere dell’oggetto. Sul tema della perdita ho scritto una poesia che si chiama «Orchidee impossibili», che finisce così: «io, invece, al posto della cosa, ho la figura. Non solo una, due. Ciascuna mi sollecita tentare un’arte non banale, una linea sottile. Io, che non so curare una vera orchidea, mi prendo cura delle immagini. Vive nella mente, indugiano, ritornano. Così vivo di niente. È come tessere una tunica di anemoni, con un filo di ragno, con le ortiche, raffigurare quello che non c’è o almeno non è qui. E ti chiedi perché puoi farlo, e poi perché, soprattutto perché non puoi non farlo». Potremmo chiederci, «perché fermare l’attimo?», ma questa è una vocazione, e non si può evadere.


[1] Helen Vendler, Part of Nature, Part of Us: Modern American Poets (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1996).

[2] La turbolente relazione tra Lowell e Hardwick viene rispecchiata nella loro corrispondenza, pubblicata recentemente nel volume The Dolphin Letters 1970-1979: Elizabeth Hardwick and Robert Lowell, The Dolphin Letters 1970-1979, ed. Saskia Hamilton (London: Faber & Faber, 2020).

[3] Bianca Tarozzi, Imitazioni (Venezia: Molesini editore, 2023).

[4] Robert Lowell, Imitations (New York: Noonday Press, 1990).