“La costruzione di una città comune” – Intervista ad Agustín Fernández Mallo

Le parole dei vivi | Intervista a cura di Federico Di Mauro.

Su Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus (Interno Poesia, 2023)

Copertina di Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus di Agustín Fernández Mallo

A giugno 2023 ho intervistato sul suo libro poetico d’esordio Agustín Fernández Mallo, uno dei più importanti scrittori contemporanei in lingua spagnola.

Yo regreso siempre a los pezones y al punto 7 del Tractatus è oggi disponibile allə lettorə italianə grazie ad Interno Poesia e al lavoro di ricerca della curatrice Lia Ogno, che ringrazio per avere reso possibile l’intervista e per il paziente lavoro di revisione.

Federico Di Mauro


D. Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus (Yo siempre regreso a los pezones y al punto 7 del Tractatus) è il suo libro d’esordio. Il libro, come ci informa Lia Ogno nella prefazione, risale al 2001 e viene pubblicato inizialmente a sue spese. Yo siempre regreso… mette in discussione molte delle convenzioni associate alla scrittura poetica, a partire dalla sua natura a metà strada tra narrativa, poesia e saggistica. Il libro è un canzoniere postmoderno composto da poesie in prosa, che si servono di una forma di versificazione molto particolare, costituita dall’interruzione della frase per via di incisi che si sovrappongono tra loro, creando una specie di movimento interno. Qual è stata l’accoglienza del libro in Spagna a quell’epoca? E come valuta questo libro a vent’anni di distanza?

R. Al tempo (2001) il libro ebbe un’eccellente ricezione, ma trattandosi di un’edizione indipendente la sua diffusione era limitata a piccoli circoli poetici spagnoli. Già allora i suoi lettori sostenevano che in quel libro vi fosse il germe di un nuovo modo di narrare e di far poesia rispetto a quelli noti. Solo anni dopo, quando fu ripubblicato da due case editrici importanti (Alfaguara e Seix Barral) fu possibile leggerlo in maniera più massiva, e la critica e il pubblico erano dello stesso parere. Da parte mia, posso solamente dire che io non scrivo ciò che voglio ma ciò che posso; io non potrei scrivere in un’altra forma, è la mia maniera di leggere e di scrivere il mondo, ed è chiaro che in quel libro di poesia erano già presenti molti dei punti chiave della mia letteratura successiva: la mescolanza di generi, l’unione senza pregiudizi estetici di alta e bassa cultura, un approccio a misticismi classici e contemporanei, la pubblicità di massa come materiale poetico, o l’inclusione delle scienze come metafora – non come argomento, non come trama. In breve, c’era già tutto ciò che ho poi continuato a fare in poesia, e che nei romanzi si è condensato in Nocilla dream e nella saggistica in Postpoesía (hacia un nuevo paradigma).

D. Se si trattasse di un romanzo, potremmo riassumerne così la trama del libro: dopo essere stato abbandonato dalla donna che amava, un uomo si rinchiude in una camera d’hotel di un’isola imprecisata, e osserva. L’uomo guarda con interesse e sospetto il mondo esterno, un paesaggio lunare alla De Chirico incomprensibile ed estraneo, osserva le fotografie in bianco e nero della donna, quasi una Milena kafkiana dai contorni di un’apparizione fantasmatica, oppure scruta dentro un’oscurità senza nome che si allarga sulla sua vita. Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus è un libro sulla solitudine, su quel che accade quando, esaurito l’eros, la vita diventa una perenne veglia, il legame amoroso un interminabile crepuscolo, l’amore una conversazione ininterrotta tra ombre. E tutto quel che resta da dire è quanto ammoniva Wittgenstein: «Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» (Wovon man nicht sprechen kann, darüber muß man schweigen). La mia domanda riguarda l’isola come immagine della solitudine. Com’è lo spazio, com’è il tempo di questo libro? Qual è il tempo dell’assenza e dell’abbandono?

R. È curioso che dica questo, perché nel mio ultimo romanzo, El libro de todos los amores, affronto il tema della rottura amorosa come “l’interminabile crepuscolo” a cui Lei fa riferimento. L’idea che avevo 23 anni fa, quando scrissi Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus, e quella che ho oggi è essenzialmente la stessa e ha a che vedere con la costruzione di una città comune, come sempre avviene tra due amanti, e mi riferisco a una città simbolica, visibile unicamente da loro due. E mi sembra in sé già una specie di miracolo che nel mondo esista una cosa che possano vedere solo due persone, e nessun altro. Vale a dire, le coppie edificano delle vere e proprie città fatte di materia e affetti, costumi e riti unici e irripetibili; un linguaggio proprio. La peculiarità di questa città creata da entrambi – e credo che in ciò risieda l’originalità poetica e antropologica della mia idea – è che essa non si distrugge se la coppia si spezza, ma passi semplicemente a uno stato di città abbandonata, delle rovine che da qualche parte dovranno necessariamente seguire il proprio corso, la propria vita, ma in solitudine. Non sappiamo esattamente in che modo continui a mutare questa città, né che forma assumerà, quel che è certo, però, è che, per sempre scollegata dal mondo conosciuto, è una destinazione sentimentale che nessuno potrà più visitare. Neanche coloro che l’hanno costruita – gli ex-amanti – potranno più ripercorrerne le strade. Così questa città diventa, letteralmente, un luogo utopico, l’unico luogo realmente utopico, perché la sua disconnessione dalla realtà è tale e, allo stesso tempo, così violenta è la sua presenza, che nemmeno la politica reale – che come sappiamo ambisce a utopie ma finisce sempre per creare distopie – ha il coraggio di misurarcisi. Ed è allora che con questa città abbandonata possiamo cominciare a fare poesia, a immaginarla, a trasformarla, mediante la parola scritta, in “qualcos’altro”. Questa è un’idea che ho successivamente ripreso nel romanzo Nocilla lab, anche se l’ho declinata in maniera differente. In definitiva: lo spazio e il tempo del libro Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus è una sorta di amalgama di tutto questo, il che trasforma lo spazio e il tempo in una materia duttile, flessibile e complessa.

D. In Italia oggi il suo nome è collegato a Trilogia della guerra, pubblicato l’anno scorso dalla promettente casa editrice milanese Utopia, e che ha riscosso un enorme successo di pubblico e di critica. In quel suo libro abbiamo trovato uno degli esiti più riusciti di ricerca sulla forma romanzesca contemporanea. Lei è un autore eclettico, un instancabile sperimentatore di forme. È ancora interessato a esplorare i territori limitrofi di poesia e narrazione?

R. Quel che ho chiaro è che tutto ciò che scrivo è poesia, anche quando assume il formato di romanzo o di saggio. E dico questo perché, indipendentemente da quello che scrivo, parto sempre da metafore e da idee che sono poetiche al cento per cento. Quindi, naturalmente, sono ancora interessato a esplorare quei mondi ibridi, mondi collegati da reti di concetti e metafore. Per esempio, il volume che ho appena pubblicato El libro de todos los amores, partecipa di questa mescolanza, così come il mio trattato Teoría general de la basura (che in qualche modo contiene e supera Postpoesía) o il mio ultimo saggio La forma de la multitud. In tutte queste opere ci sono alte dosi di “pensiero poetico”, sempre nel tentativo di andare oltre il già consolidato, di fare passi estetici. Per me, ogni nuovo libro è un salto nel vuoto fatto con metafore, la metafora è un sistema di ricerca e di creazione del mondo. Il mondo non è là fuori ad aspettarci, il mondo si crea attraverso il linguaggio.

D. All’inizio del libro lei fa riferimento a quella frase di María Zambrano, secondo cui «ogni bellezza tende alla sfericità». Quest’opera per vocazione discontinua, che combina sistematicamente gli opposti (poesia e prosa, eros e riflessione metalinguistica) aspira a una forma di perfezione, di compiutezza, di bellezza nel caos. Questo ha a che vedere con la sua visione dell’universo che le deriva dalla sua formazione di fisico?R. Non saprei. Quel che so è che questo libro, più che aspirare alla perfezione aspira a una sorta di Realismo Complesso, che è il tentativo di narrare e di fare poesia con la nostra contemporaneità (cioè essere realista), e di farlo nel modo in cui oggi leggiamo e comprendiamo il contemporaneo, che non è altro che il pensiero complesso (attenzione!, non complicato; complesso e complicato sono due concetti molto differenti, in molti casi persino opposti). Ed è questo che credo abbia a che fare con la fisica, il modo di assumere in modo naturale una struttura dinamica della realtà, che io chiamo Realismo Complesso (si veda Teoría general de la basura), in cui gli oggetti e i sentimenti sono trattati in modo attivo, creatori di una realtà attuale e aperta, connessi in rete con centinaia di altre realtà simultanee. Non si tratta di una modalità nostalgica o romantica.

Una “rivoluzione tranquilla” nelle lettere basche: tre poesie di Kirmen Uribe 

Introduzione e traduzioni a cura di Federico Carciaghi, vincitore della nostra seconda Call for Translators per la lingua spagnola.

Kirmen Uribe (1970), originario di una famiglia di pescatori di Ondarroa, in Biscaglia, è una delle voci più promettenti della letteratura basca e iberica. Il suo volume d’esordio, la raccolta di poesie Bitartean heldu eskutik (Mientras tanto cógeme la mano – “Nel frattempo prendimi la mano”) ha rappresentato, nelle parole del critico Jon Kortazar, una “rivoluzione tranquilla” nelle lettere basche. Un linguaggio poetico semplice si unisce a un andamento narrativo che intreccia elementi autobiografici, memoria storica, realismo e intimismo. Nel 2002 il libro ha vinto il Premio Nazionale della Critica e, due anni dopo, è stato incluso nella prestigiosa collana di poesia della casa editrice Visor. Successivamente, il volume è stato tradotto in francese e in inglese, e in un secondo momento in catalano e russo. La traduzione in inglese, Meanwhile, Take my Hand (2007), a cura della poetessa americana Elizabeth Macklin, è risultata finalista negli Stati Uniti nella sezione Poetry in Translation del del PEN Award.

Attualmente, Kirmen Uribe risiede e insegna scrittura creativa negli Stati Uniti, a New York, dove la sua poesia è molto conosciuta e apprezzata. A tal riguardo, viene subito in mente l’immagine del poeta a New York usata da Lorca per definire lo scrittore basco. Tuttavia la poliedricità e il carattere ibrido dello stile di Uribe portano l’autore ad auto-definirsi a più riprese non soltanto come poeta, bensì come scrittore a tutto tondo: “Soy un escritor vasco en Nueva York”. Il passaggio alla narrativa inaugurato con la pubblicazione del romanzo Bilbao-New York-Bilbao ha figurato, infatti, la creazione e il mantenimento di una cifra stilistica che fa della contaminazione la sua caratteristica principale. Uribe si muove nello spazio bianco fra i generi, per cui la prosa diventa poesia e la poesia diventa prosa. Nella sua scrittura non vi è, tuttavia, ricerca di virtuosismo o di un forzato innalzamento del registro. L’autore basco si affida, al contrario, a un linguaggio semplice e chiaro che trasmette la realtà delle cose quotidiane. I Paesi Baschi sono molto presenti nella sua scrittura e nel suo immaginario, tuttavia Uribe crea ponti, raccoglie frammenti di vita e li cristallizza nella parola poetica, travalicando le frontiere linguistiche e territoriali. La poesia di Uribe è osservazione diretta, è creazione di istantanee che, una volta conservate nella nostra memoria, si verbalizzano in modo lineare ed eterno. Una poetica dello sguardo attento, che è sfociata infine nella seconda raccolta di poesie, 17 secondi (2020). Il titolo molto evocativo fa riferimento al tempo di osservazione medio che un visitatore trascorre davanti a un quadro, secondo quanto riferito all’autore da una guida del Metropolitan Museum di New York. Nasce da qui il desiderio di fissare sulla pagina la realtà, di rappresentare quel fiume vitale fatto di momenti in cui tutti possono riconoscersi. L’intimità del poeta assurge a un sentimento di universalità e comunione con il lettore. Così, la poesia diventa un mezzo per raccontare la vita che scorre, un fiume fatto di ricordi d’infanzia, eventi familiari e di sentimenti profondi che rendono vive le pagine dei libri e le fanno vibrare di emozione.


Da Mientras tanto cógeme la mano (Visor, 2004).

El cuco

Aquel año oyó el cuco a principios de abril.
Tal vez, porque estaba inquieto,
tal vez, por esa manía de ordenar el caos,
quiso adivinar en qué notas cantaba.

La tarde siguiente, allí estaba en el bosque,
con un diapasón, esperando.
Al rato, lo escuchó.
El diapasón no mentía:
Si-Sol eran las notas del cuco. 

El descubrimiento se supo en todas partes.
Todos querían probar si de verdad el cucocantaba en esas notas.
Pero, los resultados no coincidían.
Cada uno decía su verdad.
Algunos que eran Fa-Re, otros Mi-Do.No se ponían de acuerdo.

Mientras tanto, el cuco seguía cantando en el bosque.
Ni Si-Sol, ni Fa-Re, ni Mi-Do.
Como hace mil años
cantaba: Cucú, cucú

El río

En otro tiempo hubo un río aquí,
donde ahora hay bancos y losetas.
Hay más de una docena de ríos bajo la ciudad,
si hacemos caso a los más viejos.
Ahora es sólo una plaza en un barrio obrero.
Y tres chopos son la única señal
de que el río sigue ahí abajo.

En cada uno de nosotros hay un río oculto
a punto de desbordarse.
Si no son los miedos, es el arrepentimiento.
Si no son las dudas, la impotencia.
Un viento del oeste azota los chopos.
La gente avanza a duras penas.
Desde el cuarto piso una mujer mayor
está tirando ropa por la ventana:
tira una camisa negray una falda de cuadros
y un pañuelo de seda amarillo y unas medias
y aquellos zapatos que llevaba
el día de invierno que llegó del pueblo.
Unos zapatos de charol, blancos y negros.
En la nieve, sus pies parecían avefrías congeladas.

Los niños echan a correr tras la ropa.
Al final, ha sacado su vestido de boda,
se ha posado sobre un chopo, torpemente,
como si fuera un pájaro grande.Se oye un gran ruido. Se asustan los transeúntes.
El viento ha arrancado de cuajo uno de los chopos.
Las raíces del árbol parecen la mano de una mujer mayor,
que espera que cuanto antes otra mano la acaricie.

Il cuculo

Quell’anno udì il cuculo a inizio aprile.
Forse, perché era agitato,
forse, nella smania di ordinare il caos,
volle indovinare che note cantava.

La sera dopo, eccolo lì nel bosco,
con un diapason, ad aspettare.
Dopo poco, lo sentì.
Il diapason non mentiva:
le note del cuculo erano Si-Sol.

Ovunque seppero della scoperta.
Tutti volevano sapere se davvero il cuculo
Cantava con quelle note.
Ma i risultati non tornavano.
Ognuno aveva il suo parere.
Qualcuno Fa-Re, altri Mi-Do.
Non trovavano un accordo.

Nel frattempo, il cuculo continuava a cantare nel bosco.
Né Si-Sol, né Fa-Re, né Mi-Do.
Come mille anni fa
Cantava: Cucù, cucù.

Il fiume

Un tempo c’era un fiume qui,
dove ora ci sono panchine e mattonelle.
Ci sono più di dieci fiumi sotto la città,
se ascoltiamo i più anziani.
Ora è solo una piazza di un quartiere popolare.
E tre pioppi sono l’unico segno
Del fiume che scorre ancora lì sotto.

Dentro di noi c’è un fiume nascosto
Che sta per straripare.
Se non sono le paure, è il rimorso.
Se non sono i dubbi, l’impotenza.

Un vento dell’ovest sferza i pioppi.
La gente avanza a malapena.
Dal quarto piano una donna anziana
tira vestiti dalla finestra:
tira una camicia nera e una gonna a quadri
e un fazzoletto giallo di seta e delle calze
e quelle scarpe che portava
quel giorno d’inverno in cui arrivò dalla campagna.
Scarpe di vernice, bianche e nere.
Nella neve, i piedi sembravano pavoncelle congelate.

I bambini corrono dietro i vestiti.
Infine, si toglie l’abito nuziale,
si posa su un pioppo, goffamente,
come fosse un grande uccello.

Si sente un gran rumore. I passanti si agitano.
Il vento ha sradicato di colpo uno dei pioppi.
Le radici dell’albero sembrano la mano di una donna anziana,
che aspetta presto un’altra mano per accarezzarla.

Da 17 segundos (Visor, 2020)

Oculta

Under my window, a clean rasping sound
When the spade sinks into gravelly ground:
My father, digging. I look down

Seamus Heaney

Mi madre suele estar oculta siempre que voy a visitarla.
Suele estar en el garaje, o en el desván,
o dando un paseo por el monte con los perros.

Yo la llamo en voz alta
y, por un momento, me estremezco
esperando a oír su voz.

Mi madre no me deja entrar en casa de inmediato.
Me agarra del brazo y me lleva hacia el huerto.
Como siempre, me pregunta: «¿Qué ha cambiado?».

«Qué sé yo…», le contesto para ganar tiempo,
mientras al mismo tiempo miro y remiro,
por todas partes, qué será lo que está distinto.

Suele ser que ha podado las rosas,
o que ha pintado de blanco la caseta del perro.
Para ella, el trabajo de una semana;
para mí, un momento de atención.

Mi madre, nacida en los años del hambre, aquella niña
que, cuando llovía, se quedaba en casa sin ir a la escuela,
porque sin zapatos adecuados podía enfermar.

Por eso, toda la vida le han gustado los cambios
a aquella mujer que, de joven, quiso
transformar la sociedad de arriba abajo.

De aquella generación que, en los tiempos más oscuros
y a escondidas, conservó la lengua vasca.
Al fin, me deja entrar en casa,

y hace que se regrese a la infancia
mediante el sabor de sus platos, y porque
es la única que aplaca mis temores.

Al despedirnos me dice que la próxima vez
no me olvide de llevarle un libro, que no hay libros nuevos
en la estantería, y está cansada de releer los que hay.

Subo al coche y considero la pregunta de mi madre:
«¿Qué ha cambiado?», esos crueles cambios que,
como las arrugas, aparecen sin que nos demos cuenta.

Será que últimamente la veo más cansada,
será que también yo estoy cada vez más solo.
Yo no quiero que nada cambie.

Querría seguir siempre visitando a mi madre,
e intentar acertar su adivinanza,
tomados del brazo y caminando por la huerta.

Finestra

Sotto la mia finestra, un suono stridulo e preciso
Quando la vanga affonda nel campo ghiaioso:
Mio padre che scava. Guardo in basso

Seamus Heaney

Mia madre si nasconde ogni volta che vado a trovarla.
Di solito si trova in garage, o in soffitta,
o nel bosco a fare una passeggiata con i cani.

Io la chiamo a voce alta
E, per un attimo, fremo
sperando di sentire la sua voce.

Mia madre non mi fa entrare in casa subito.
Mi prende per un braccio e mi porta nell’orto.
Come sempre, mi chiede: “cos’è cambiato?”.

“Che ne so…”, rispondo per prender tempo,
e allo stesso tempo guardo e riguardo,
ovunque, cosa sarà ad essere cambiato.

Di solito ha potato le rose,
o ha dipinto di bianco la cuccia del cane.
Per lei, il lavoro di una settimana;
per me, un attimo di attenzione.

Mia madre, nata in anni di povertà, una bambina
Che, quando pioveva, restava a casa senza andare a scuola,
perché senza le scarpe adatte poteva ammalarsi.

Perciò, le sono sempre piaciuti i cambiamenti
A quella donna che, da giovane, volle
Trasformare la società da capo a piedi.

Di quella generazione che, negli anni più bui
E di nascosto, custodì la lingua basca.
Infine, mi fa entrare in casa,

e mi fa rivivere l’infanzia
grazie al sapore dei suoi piatti, e perché
è l’unica che placa i miei timori.

Salutandoci mi dice di non dimenticarmi
di portarle un libro la prossima volta, ché non ha libri nuovi
Nella libreria, ed è stanca di leggere sempre i soliti.

Salgo in macchina e penso alla domanda di mia madre:
“Cos’è cambiato?”, quei cambiamenti crudeli che,
come rughe, appaiono senza accorgercene.

Sarà che la vedo più stanca ultimamente,
sarà che anche io sono sempre più solo.
Non voglio che cambi niente.

Vorrei sempre andare a trovare mia madre,
e provare a scoprire il suo segreto,
mano nella mano mentre camminiamo per l’orto.

Su “Prisma” di Maria Borio

Nota di lettura a cura di Leonardo De Santis.

«Questo poema immagina le figure di suono in poesia attraverso gli effetti sonori del linguaggio» ecco quanto emerge dall’introduzione a Prisma (2022) di Maria Borio, plaquette suddivisa in sette momenti di un’osservazione scientifica della vita, che tiene sempre ben presente il concetto di origine; che si parli di vibrazione sonora o di luce.

L’attenzione di Borio è rivolta agli eventi osservati e al perché soggiacente all’esperienza guardata. I testi interrogano le stesse scene che propongono: l’elemento cardine di queste poesie è l’insorgenza di una quantità di domande destabilizzanti che disturbano la visione e distorcono il suo senso, plasmandolo fino a renderlo incerto. La scrittura riprende l’immagine della polvere di licopodio su una superficie che, percorsa da vibrazioni di diversa intensità, evoca disegni ogni volta diversi. Le domande sono telluriche, creano una confusione strutturale e consultabile: sembra che Prisma voglia condurci a un confronto con lo smarrimento e la precarietà.

«strategie, innocenza?», «Dove siamo autentici?», ma anche: «Are you 18?»; tutte domande atte a sottendere una questione essenziale che non è stata ancora formulata: siamo all’incontro con qualcosa di familiare e al contempo estraneo. La domanda sembra essere: “che cosa sto guardando?”; e potrebbe sembrare che la ricerca sia quella di un orientamento nel tempo della vita, ma i testi invece suggeriscono la possibilità della perdita dell’Io nell’osservazione. L’assenza dell’osservatore ha origine nel momento dell’osservazione stessa, per questo è possibile vedere il libro come un no concept album dove il concetto non è il fulcro di queste poesie. L’origine, la vibrazione o la luce sono piuttosto al centro del libro, assieme a quella modalità di visione che si chiama poesia: siamo di fronte ad un poemetto sullo sguardo.

Prisma parla della necessità di un non-sguardo su una realtà ipersignificante. Ciascuno riflette sulla propria esperienza e sperimenta una mancanza di controllo su un ambiente di cui non sempre si sente partecipe. Questa mi sembra essere l’ottica-guida della plaquette. Scrivere da questa distanza di (in)sicurezza è la condizione per tentare di osservare la logica secondo cui la lingua e la vita si sono evolute a partire da influenze e scelte che possono essere viste. Borio sceglie una lingua che dubita della sua stessa origine, mescola l’acronimo più recente e la conversazione comune. Ne viene fuori un’intervista interiore che ha l’aspetto di una svestizione.

I termini millennial gen Z sono pause di elaborazione-comprensione. Anche le interrogative che espongono l’ambiguità dell’esperienza creano un silenzio di caricamento. Nel mentre la voce sperimenta la sua ubiquità nel tempo, ma anche la sua inefficienza. Dopotutto anche la serie delle figure di Chladni non significa niente: è possibile consultare questa insignificanza osservabile? Confrontarci con lei? Questa credo sia la domanda più importante che Prisma ci rivolge.


5. Nella quarta dimensione

Primo tipo di figura – spirale. Secondo tipo – cerchio.
Aumentando la frequenza – rombo. Quarto tipo – parallelepipedo
in bidimensione, tridimensione… chiudi gli occhi e sei nella quarta.
Chi ha davvero il coraggio di essere sé stesso?
In un sogno diventavo un corpo di medusa e la vita interiore
poteva mostrarsi attraversata da frequenze, vedevo tutti
membrane elastiche di un eidofono e i pensieri
erano immagini di bidimensione, tridimensione,
trovati insieme nella quarta… Dove siamo autentici?
All’improvviso mi sento così giovane, ho la testa appoggiata
al finestrino di un autobus, dietro il sedile una gomma da masticare
fa un fiore rosa e secco. Tutto vibra. È notte:
ultima corsa. Il finestrino sbatte, il cranio in gola,
la saliva densa, ogni parte più contratta nel farsi
che nella parola vibrazione – forse vibes, tagliando
e al plurale – strategie, innocenza?
L’autobus scende a picco, il bosco nasconde frasi, il Tevere
sa di… / tiber / le frequenze legano a un filo di caucciù.
Se avevo la testa in su dicevo: ok boomer, non voleteci male.
Se la testa era in giù: ok, lasciateli scrivere sul sedile BUFU
o ACAB – voi chi avete rifiutato? Poi l’autobus va in piano e ho già
sedici anni, rimbalza sul ponte e sono già a diciotto, quando cambia
marcia tintinna – By Us Fuck You. Li sentite?
Nel fiume i gattini hanno strappato il sacco –
Ci sentite? –, vent’anni e l’ansa era stretta – da queste parti
affogano sempre i cuccioli? Ma quelli risalivano la corrente sotto la luna
Sentite? – trent’anni e scendevo… – Sentite? Puoi proteggere?
Animali e perdono corrono nel bosco.

“Io sono selvaggia”: tre poesie di Maya Cousineau Mollen

Introduzione e traduzioni a cura di Anna Nardi, vincitrice della nostra seconda Call for Translators per la lingua francese.

Maya Cousineau Mollen è una poetessa innu fortemente legata tanto alla dimensione contemporanea quanto alle sue origini autoctone, ed è nell’intersezione di queste due sfere che conduce la propria ricerca poetica. Nata nel 1975 nella riserva di Mingan (Ekuanitshit in lingua innu), viene presto adottata da una famiglia quebecchese scelta dalla madre biologica. I genitori adottivi le consentono di mantenere il legame con le origini e con la sua famiglia innu, ma soprattutto la incoraggiano a perseguire la carriera da scrittrice: scrive le prime poesie all’età di quattordici anni. Molti dei suoi componimenti si possono leggere sui suoi social, ma sono stati anche raccolti in due sillogi, Bréviaire du matricule 082 (Éditions Hannenorak, 2019) e Enfants du lichen (Éditions Hannenorak, 2021).

Le tradizioni della cultura di origine della poetessa occupano una posizione di grande rilievo nella sua produzione, affiancate a una dimensione sociale più moderna (la questione ambientale, il femminismo e il colonialismo sono solo alcuni dei temi affrontati). Il tema messo maggiormente in risalto è, tuttavia, la ricerca della propria identità: allontanata dalle proprie origini innu, Maya perde il proprio nome e viene identificata come matricule 082. La cifra si riferisce alla pratica di assegnare un numero di identificazione ai cittadini autoctoni, assimilati così a prodotti dotati di un codice a barre. Cousineau Mollen, al pari di tanti altri nella stessa situazione, viene così privata della possibilità di conoscere sé stessa e di determinare la propria identità, che le viene invece attribuita dagli ex-colonizzatori.

Nei componimenti della prima raccolta viene esplorata la collera che scaturisce dalla rottura del legame con la terra natale, rappresentata non solo attraverso la messa a tema della questione identitaria, ma anche come un vero e proprio distacco fisico dal territorio delle proprie origini. Tuttavia, è proprio questo allontanamento forzato che consente all’autrice di capirne l’importanza. Fondamentale per maturare questa consapevolezza sarà il ritorno alla terra natia, un mondo sfruttato e bistrattato dall’uomo bianco, ma che cela in sé una grande forza distruttrice, la forza di un animale che è stato intrappolato per troppo tempo ed è finalmente riuscito a liberarsi e mostrarsi in tutto il suo splendore. Proprio come una belva liberata, Cousineau Mollen ha finalmente la possibilità di ammirarsi alla luce del sole, assumendo la sua vera identità, quella che le è stata rubata dai colonizzatori: “Io sono selvaggia, io sono donna”. Questo cambiamento non fa altro che accentuare l’ira dell’autrice, che ammonisce l’uomo bianco e colonialista che ha creduto di poterla possedere: lei è fredda e temibile come il Nord, e niente potrà proteggere chi l’ha intrappolata dal suo furore.


da Bréviaire du matricule 082 (Éditions Hannenorak, 2019)

MOI, AKUATISHKUEU*

À Joséphine Bacon

Immobile sur ma terre non cédée
Couverte d’un béton qui l’étouffe

Je laisse derrière moi les loques coloniales
Pour retrouver ma chair nue au soleil

Je m’apprivoise
Car jamais je ne me suis aimée
Je me découvre
Visage millénaire

Ma chevelure tant de fois entravée
Libre comme Atik* dans la toundra

Je suis sauvagesse, je suis femme
Je reprends mon droit d’exister

Garde tes lois réductrices
Tes images dont je suis objet

Symbole d’un peuple de survivants
Mes yeux ont mille vies


*AKUATISHKUEU: Elle est une femme d’apparence exceptionelle
*ATIK: Caribou

IO, AKUATISHKUEU*

A Joséphine Bacon

Immobile sulla mia terra non ceduta
Coperta di cemento che la soffoca

Mi lascio alle spalle i relitti coloniali
Per ritrovare la mia pelle nuda al sole

Mi addomestico
Perché non mi sono mai amata
Mi scopro
Viso millenario

La mia chioma tante volte imprigionata
Libera come Atik* nella tundra

Io sono selvaggia, io sono donna
Mi riprendo il mio diritto di esistere

Tieniti pure le tue leggi riduttrici
Le tue immagini di cui sono oggetto

Simbolo di un popolo di sopravvissuti
I miei occhi hanno mille vite


*AKUATISHKUEU: Donna dall’aspetto eccezionale
*ATIK: Caribù

MUESHTASHINAKUAN*

Tel le traître apache des guerres génocides
Affamé d’appât du gain
Serpent aux noirs viscères
Danse, ondoyant, envoûtant
Tu violes Gaïa
Tu la loues au prix d’une pute
Ses charmes, ses courbes d’éternité
Son parfum provocant de terre fraîche
Seront les dernières berceuses
Où tu endormiras le dernier enfant de l’humanité


*MUESHTASHINAKUAN: C’est triste à voir

MUESHTASHINAKUAN*

Come il traditore apache delle guerre genocide
Affamato dall’allettante guadagno
Serpente dalle nere viscere
Danza, ondeggiante, ammaliatore
Tu violi Gaia
Tu la affitti al prezzo di una puttana
I suoi incanti, le sue curve eterne
Il suo profumo provocante di terra fresca
Saranno le ultime culle
Dove addormenterai l’ultimo figlio dell’umanità


*MUESHTASHINAKUAN: è triste a vedersi

ISHKUESS* DU NORD

Sur le sentier glacé de ma hargne
Marchent mille femmes pâles

En moi brûle l’acidité des fluides
Point d’amour pour les filles des glaciers

Enfants des ours blancs, des froids lunaires
Héritières du Nord, déesses bafouées

Au parfum éthylique, piégées comme nymphes
Dans ces étreintes de violence que d’aucuns
appellent tendresse

Tu oses m’honorer de ton mépris
Me croire vendue pour une bière

M’envoûter par tes berceuses eugéniques
Posséder mon corps, m’avilir

Tellement plus que ton racisme
Serti de neige, mon peuple brille

Les vents nordiques ont ciselé mes traits
Je suis beauté et amante des aurores boréales

Crains ma colère, crains mes prières
Je suis le Nord et rien ne te sauvera


*ISHKUESS: Une fille ; une femme célibataire

ISHKUESS* DEL NORD

Sul sentiero ghiacciato del mio astio
Marciano mille donne pallide

In me brucia l’acidità dei fluidi
Punto d’amore per le fanciulle dei ghiacci

Figlie degli orsi bianchi, dei freddi lunari
Eredi del Nord, dee sbeffeggiate

Dal profumo etilico, intrappolate come ninfe
In quelle strette di violenza che qualcuno
chiama amore

Tu osi onorarmi col tuo disprezzo
Credermi venduta per una birra

Ammaliarmi con le tue cantilene eugenetiche
Possedere il mio corpo, avvilirmi

Molto più del tuo razzismo
Incastonato a neve, il mio popolo luccica

I venti nordici hanno scolpito i miei lineamenti
Sono bellezza e amante delle aurore boreali

Paventa la mia collera, paventa le mie preghiere
Io sono il Nord e niente potrà salvarti


*ISHKUESS: Una ragazza; una donna celibe

“Avere un corpo implica un’enorme responsabilità”: tre poesie di Sirka Elspaß

Introduzione e traduzioni a cura di Sofia Pagliarella, vincitrice della nostra seconda Call for Translators per la lingua tedesca.

“Quando sono nata ho avuto paura / della mia stessa voce”: inizia con la nascita il viaggio poetico di Sirka Elspaß, per scontrarsi da subito con la consapevolezza che “nessuno viene al mondo / e sa come si fa”. Vulnerabile e senza istruzioni per l’uso, l’autrice si pone in ascolto del proprio corpo che diventa terreno di crisi e di guerra, di amore, dolore, desiderio, solitudine, guarigione – un luogo da abitare a cui solo la scrittura può dare voce. La ricerca dell’identità per Elspaß parte dalla premessa che “quando donne e persone trans o non binarie scrivono, si tratta sempre di politica” e passa attraverso una lingua spezzata dall’appello a una madre, invocata come entità primordiale con cui tentare una connessione.

Sirka Elspaß, nata nel 1995 a Oberhausen, ha studiato scrittura creativa e giornalismo a Hildesheim e oratoria all’Università delle Arti Applicate a Vienna. È stata premiata al “Treffen junger Autor:innen” a Berlino nel 2010 e 2012, come anche al “postpoetry. NRW” a Hildesheim nel 2013. Ha pubblicato con diversi giornali e antologie, tra cui STILL e Lyrik von Jetzt 3. È poi stata nominata tra i finalisti all’Österreichische Buchpreis 2022 per il miglior debutto.

Nella sua raccolta poetica ich föhne mir meine wimpern (Suhrkamp, 2022), Elspaß suggella l’incontro tra pop e poesia, affiancando alla pubblicazione della silloge anche la creazione di una playlist su Spotify contenente tutti i brani musicali che l’hanno influenzata durante la stesura, brani di cui nelle poesie si ritrovano “[…] sovrapposizioni più o meno evidenti – nel titolo, nel tema, nello stato d’animo”. Con leggerezza e coraggio, non privi, a volte, di un sorprendente umorismo, l’autrice condensa il suo grido in immagini cristalline, tanto cangianti quanto appuntite, e strazianti proprio perché dotate della serena consapevolezza che “nessuno è al di sopra delle cose/ ci siamo tutti dentro”.


da ich föhne mir meine wimpern (Suhrkamp, 2022)

nicht ist so traurig wie der mond wenn er abnimmtim
schwindenden schein des kerzenlichtsschreibst
du folgenden satz
einen körper zu haben bedeutet enorme verantwortung
und niemand kommt auf die welt
und weiß wie es geht

aberan
der sichel hat jemand einen aushang gemacht
menschen werden gesucht
katzen werden vermisst
wenn der apfel die umarmung ist
bin ich der wurm der ihn zerfrisst

niente è triste come la luna quando tramonta
al chiarore fioco della candela
scrivi la frase seguente
avere un corpo implica un’enorme responsabilità
e nessuno viene al mondo
e sa come si fa

ma
qualcuno ha appeso un cartello alla falce
esseri umani cercasi
gatti scomparsi
se la mela è l’abbraccio
io sono il verme che le procura il marcio

6
vielleicht haben wir bereits eine grenze
überschritten als wir uns entschieden keine zu
überschreiten
ich kann uns nicht behalten
es ist zeit zu gehen
den abschied wie eine ausfahrt
nehmen aber dass ich alleine
nicht ausreiche
diese angst bleibt
mutter
komm
es wird dunkel
hol mich
heim
dann stößt mir der alte zahn durchs fleisch
mutter
rufe ich
mutter
ich
werde

6
forse un confine lo abbiamo già
superato anche se avevamo deciso di non
superarlo
non riesco più a tenerci
è tempo di andare
prendere l’addio come
un’uscita però io da sola
non basto
questa paura rimane
madre
vieni
qui diventa buio
portami
a casa
poi il dente vecchio mi trafigge la carne
madre
chiamo
madre
io
sarò

Schlafen Sie bei offenem fenster
decken Sie sich gut zu
vergessen Sie das blumengießen für
einen moment und die verletzungen
nur mut ich hege
keinen groll
Sie müssen nicht heiter sein
aber nehmen Sie jedes crescendo mit
seien Sie sanfter zu sich als Sie es sind und
lesen Sie den nächsten satz mehrmals

niemand steht über den dingen
wir stehen alle mittendrin

che dorma con le finestre aperte
e si copra bene
che dimentichi di annaffiare i fiori per
un momento e le ferite
poi solo coraggio io non
nutro rancore
e lei, non provi serenità
ma accolga ogni crescendo
che sia più buono con sé stesso di quanto non sia e
legga la prossima frase più volte

nessuno è al di sopra delle cose
ci siamo tutti dentro

Su “Idillio occidentale” di Andrea Tisano

Nota di lettura a cura di Gianluca Furnari.

Idillio occidentale di Andrea Tisano è un esordio atipico, oscuramente apparentato a quel ramo di poesia isolana che ambisce a costruzioni poematiche complesse, riassemblando eventi e luoghi del presente intorno a nuclei epico-mitici ben definiti. A questo schema strutturale, che potrebbe ricordare Suite Etnapolis (Interlinea, 2019) di Antonio Lanza, anch’esso prosimetro, corrispondono in Tisano una forma strabordante e un plurilinguismo estremo di marca ipercolta, che innesta morfemi, parole, periodi in lingue diverse — greco, latino, francese, inglese, tedesco, etc. — su un sostrato d’italiano letterario: ne derivano una «fitta selva / di parole», «un mare / rotto, tra le quasar», in cui «si sversi il segno, il soma, il sema, il semantema, / il sogno, un simbolo di lira consumata / a forza di passarla tra le dita» (p. 4), atti a rappresentare una realtà più metamorfica che fluviale.

Nel complesso l’opera evoca una lunga catabasi nella storia collettiva o nel «magma / favillante» (p. 17) di un oscuro ego mitico: tale è, ad esempio, il Ninfoletto del terzo componimento — «il suo nome è una finzione, una funzione, ve l’ho detto / che è da un’altra parte» — (p. 17). Che assuma le sembianze di una passeggiata in provincia o di un viaggio in autobus, tra i volti di un’umanità piagata e sfruttata — «salivamo io e loro, quattro neri, e pure il cieco / (la negra terra non dicitur), quattro sgangherati» — (p. 15), o più propriamente quella di un’odissea cittadina — tra «i giri della periferia», «le linee scure dei palazzi, i marmi di meringa» (pp. 17-18) — in ottemperanza a una duplice vocazione urbano-agreste che risale agli Idilli teocritei, la catabasi si apre però a frequenti sbocchi in superficie come a visioni di panica solarità e/o ad accessi di disciplina metrica: «Polverosamente sfolgorando il sole / con il suo bacinio di bianche lame / le pozze liquefatte di catrame, / che l’aria sfilacciando sbruma in veli, / mulinava nel torbido livore / del fitto suo sentiero palpebrale» (p. 20).

Comune alla maggior parte dei testi — cinque in tutto, più uno introduttivo — è l’affiorare di monumenti, documenti, fabulae e aneddoti sulla storia della Magna Grecia, dal siracusano tempio di Apollo alla Villa del Casale, dal De rebus gestis Rogerii di Goffredo Malaterra al Voyage en Sicile di Dominique Vivant Denon, passando per due entità mitiche fisicamente e onomasticamente sfigurate come Ninfoletto e Tifeone, «la bestia che sopita dalla crosta / dei campi annerati di Flegrea insozza / (una febbre da tifo, una schifezza) / i sacchi affocati di monnezza» (p. 14); ultimo della serie, l’Empedocle suicida del quinto componimento, un quasi-sonetto che fissa provvisoriamente la meta del viaggio nel «cuore sepolto delle cose» (p. 24).

Accusando il contrasto tra le «belles et grandes idées» (p. 7) sul passato e l’endemica infezione di ogni epoca storica, di cui la cronaca di Denon offre testimonianza, Idillio occidentale trova il suo orizzonte di senso in un’archeologia linguistica che non si limita a polverizzare la realtà, ma ne raccoglie frantumi, lapsus e abbagli con laboriosa dedizione, raggiungendo i suoi esiti migliori quando lo sperimentalismo funambolico si coniuga a un ruvido e allucinato lirismo: «un Parnaso privato strinse le tue mani / e sopra turbinavano le stelle / le lentissimamente» (p. 22).


[…] E poi dalla tua bocca, e poi dai tuoi capelli, saltano
le tigri, le pantere (l’occhio di zaffiro), saltano gli arbusti
i daini alla maggese, brillano i delfini, e l’onda sfalda un quadro
(realistico) di vera vita agreste (signorile), di fisica dei moti,
di moto delle braccia. Poi il rosso che è nascosto sotto il nero, segrete mulattiere
di mulatti, secreti neuronali, poi la villa ed i palazzi
abbandonati, poi giù tutta la balistica del cuore e poi
ciò che non c’è non resta, e poi –
E poi di troppa luce, noi, si sa, si muore.

Sole di mezzanotte: Alejandra Pizarnik e la sua sete sacra.

Introduzione e traduzioni dallo spagnolo a cura di Roberta Truscia.

Estratti da Il ponte sognato, Diari vol. 1 (1954-1960)

Ne Il ponte sognato, primo volume dei suoi diari, Alejandra Pizarnik nomina la parola “equilibrio” solamente tre volte: il 7 luglio 1955,quando immagina facetamente gli elementi di un’opera tra i cui personaggi inserisce anche un vaso “senza base che mantiene l’equilibrio grazie a un ventilatore”; il 27 luglio dello stesso anno, quando Alejandra si domanda se non sarà l’equilibrio psichico della sua collega d’Università la causa della repulsione che prova nei suoi confronti. Infine il 3 gennaio 1959, quando, per la prima volta, associa la parola equilibrio a sé stessa, ma non come qualcosa che le appartenga e disprezzi, come nel caso della sua collega, bensì come il nuovo oggetto del suo desiderio. “C’è, tuttavia, un desiderio di equilibrio. Un desiderio di fare qualcosa con la mia solitudine.” Dalle prime due date all’ultima sono passati quattro anni e Alejandra è ora una ragazza di 22 anni che ha pubblicato tre raccolte poetiche, ha aspirato (e aspira) a scrivere un romanzo, ha abbandonato la carriera universitaria, ha intrapreso e sospeso la terapia psicoanalitica e l’anno successivo si trasferirà a Parigi, dove potrà finalmente “diventare quello che già è”: la più grande poetessa argentina del suo tempo. Tuttavia, la strada verso l’affermazione non è battuta, è piuttosto un sentiero che si snoda lungo la sua angoscia esistenziale, il desiderio ardente di scrivere, la solitudine sofferta, la notte. Lungo la sua strada non c’è spazio per la parola “equilibrio”, perché Pizarnik ha familiarità con le notti polari alla ricerca del sole di mezzanotte. Ricorre, invece, la parola “ponte”: Alejandra si strugge infatti per quel ponte invalicabile tra il desiderio e la parola, e l’immagine rimanda al suo essere sempre al confine tra la veglia e il delirio. In questo caso, non appare molto chiaro verso quale direzione lei scelga di attraversare il ponte, perché il delirio è solitudine e profondo malessere, mentre la veglia rappresenta la loro fine. La veglia significa conformarsi a una vita priva di poesia; il delirio, invece, ne è la base. Il ponte rappresenta anche la ricerca stessa della parola che incarna la poesia, l’infinito oltre ogni limite. Perché, se Alejandra conosce precocemente la sensazione di sradicamento dal mondo, precoce è anche la certezza che l’unico mondo degno di essere vissuto sia la Poesia, non mera sostituzione di quello esistente, ma una realtà a sé stante.

Non è l’equilibrio tra le parti quello che interessa Alejandra, ma l’attraversamento, un appagamento completo della sua “sete sacra”. Essa non è sacra solo perché nella sacralità della poesia ricerca il suo appagamento, ma perché rappresenta la fonte della sua vita, ciò che la scuote o la lascia immobile, perfino quando manca di un oggetto concreto.

I diari includono punte altissime di voli spirituali, passi caratterizzati da un’immaginaria e ingegnosa lucidità, le aspirazioni degne di ammirazione e le degradanti, rappresentando la trascrizione di quella sete sacra della quale percepiamo i due effetti complementari: il mysterium tremendum et fascinans. E noi lettori, dopo aver letto Il ponte sognato, avremo un po’ della stessa sete.


I testi qui pubblicati sono tratti da Il ponte sognato, Diari vol. 1 (1954-1960), pubblicato nel 2022 dalla casa editrice La Noce d’Oro.

23 de septiembre 1954

Un nuevo día llegó
pleno de sol y de sombras
un nuevo día llegó
a enquistarse en mi hondo caudal señero
el nuevo día es torneado
e insulso
día sin soplo ni dicha
es un sábado verde molido
en la nada
es un sábado deshecho en la vertiente del vacío.

23 settembre 1954

Un nuovo giorno è giunto
pieno di sole e d’ombre
un nuovo giorno è giunto
per arginare il mio profondo flusso solitario
il nuovo giorno è tornito
e insulso
giorno senza soffio né gioia
è un sabato verde tritato
nel nulla
è un sabato sciolto nel versante del vuoto.

5 de julio 1955

Heredé de mis antepasados las ansias de huir. Dicen que mi sangre es europea. Yo siento que cada glóbulo procede de un punto distinto. De cada nación, de cada provincia, de cada isla, golfo, accidente, archipiélago, oasis. De cada trozo de tierra o de mar han usurpado algo y así me formaron, condenándome a la eterna búsqueda de un lugar de origen. Con las manos tendidas y el pájaro herido balbuceante y sangriento. Con los labios expresamente dibujados para exhalar quejas. Con la frente estrujada por todas las dudas. Con el rostro anhelante y el pelo rodante. Con mi acoplado sin freno. Con la malicia instintiva de la prohibición. Con el hálito negro a fuer de tanto llanto. Heredé el paso vacilante con el objeto de no estatizarme nunca con firmeza en lugar alguno. ¡En todo y en nada! ¡En nada y en todo!

5 luglio 1955

Ho ereditato dai miei antenati l’ansia di fuggire. Dicono che il mio sangue sia europeo. Io sento che ogni globulo proviene da un punto diverso. Da ogni nazione, da ogni provincia, da ogni isola, golfo, collisione, arcipelago, oasi. Da ogni pezzo di terra o di mare hanno usurpato qualcosa e così mi hanno formato, condannandomi all’eterna ricerca di un luogo d’origine. Con le mani tese e l’uccello ferito balbuziente e sanguinante. Con le labbra espressamente disegnate per esalare lamenti. Con la fronte strizzata a causa di tutti i dubbi. Con il volto anelante e i capelli che rotolano. Con il mio rimorchio senza freno. Con la malizia istintiva della proibizione. Con l’alito nero a forza di tanto pianto. Ho ereditato il passo esitante così da non stabilirmi mai in nessun posto. In tutto e in niente! In niente e in tutto!

1 de agosto 1955

Luz de la mañana embebida en los ruidos cotidianos. Los ojos vueltos del sueño perciben asustados aún la Realidad que los sacude. Siento mi despertar como una adhesión de una hoja a «su» árbol, como mi volver a pegarme a la rama que me agitará arbitrariamente. Silencio de hoja matutina sin voz para sollozar la infamia de su inepcia. Silencio de tensión erguida en la sien del árbol. La hoja se agrieta al desmenuzar los días. El sueño lejano resuelve su espera en un rincón inhallable. Mis ojos que se agrandan confiados en el reconocimiento de los objetos cotidianos.

Despierto cansada y fría. La toma de posesión de una «libertad» exterior tan duramente lograda es triste. Pienso en mi vida condensada en un eterno intento de escudriñar mi yo. Libros y más libros. Hay momentos en que desaparece la esencia del libro, quedando solamente su ridículo cuerpecillo. Me veo entonces acariciando nebulosas hojas de papel y me pregunto si valen lo que una mirada humana. Me retuerzo en el interrogante axiológico. Pero ¡no necesito respuesta! Continúo leyendo; paulatinamente, desaparece el físico del libro. Me convierto en el receptáculo de su alma. (¡Oh, amo los libros!) Cada minuto que transita señala mi elevación.

1 agosto 1955

Luce mattutina impregnata nei rumori quotidiani. Gli occhi, gonfi dal sonno, temono ancora la Realtà che li scuote. Percepisco il mio risveglio come l’adesione di una foglia al “proprio” albero, come se stessi di nuovo aderendo al ramo che mi agiterà arbitrariamente. Silenzio di foglia mattutina a cui manca la voce per piangere l’infamia della propria inerzia. Silenzio di tensione eretta sulla tempia dell’albero. La foglia si incrina sminuzzando i giorni. Il sogno lontano risolve la sua attesa in un angolo introvabile. I miei occhi si ingrandiscono fiduciosi quando riconoscono gli oggetti quotidiani.

Mi sveglio stanca e fredda. Prendere possesso di una “libertà” esteriore, così duramente conquistata, è triste. Penso alla mia vita condensata in un eterno tentativo di esaminare il mio io. Libri e ancora libri. Ci sono momenti in cui l’essenza del libro scompare e rimane solo il suo ridicolo corpicino. Ecco che, a quel punto, accarezzo confusi fogli di carta e mi chiedo se valgono quanto uno sguardo umano. Mi contorco nel quesito assiologico. Ma non ho bisogno di risposte! Continuo a leggere; l’oggetto sparisce gradualmente. Mi trasformo nel contenitore della sua anima (Oh, amo i libri!) Ogni minuto che passa segna la mia elevazione.

Febrero 1956

VERANO

tanto miedo Alejandra
tanto miedo
la nada te espera
la nada
¿por qué temer?
¿por qué?

por más imaginación que tenga
no puedo esbozar la muerte
no puedo pensarme muerta
¿he de tener esperanzas?
¿he de ser eterna?
¿qué es entonces este vacío que me recorre?
¿qué es entonces la nada que camina por mi ser?
Sólo sé que no puedo más

siento envidia del lector aún no nacido
que leerá mis poemas
yo ya no estaré

Febbraio 1956

ESTATE

tanta paura Alejandra
tanta paura
il nulla ti attende
il nulla
perché temere?
perché?

pur avendo immaginazione
non riesco ad abbozzare la morte
non riesco a pensarmi morta
devo avere speranza?
devo essere eterna?
cos’è allora questo vuoto che mi percorre?
cos’è allora il niente che cammina nel mio essere?
So solo che non ne posso più

sento invidia del lettore non ancora nato
che leggerà le mie poesie
e io non ci sarò

14 de noviembre 1957

Un loco desflora a una flor. La flor da a luz una muchacha y luego muere. La muchacha queda herida por una carencia innombrable que aumenta hasta la locura cuando se enamora del león más inteligente de la selva. (El león es una especie de Sr. Nadie disfrazado de Todo… o viceversa.)

Vagidos, llanto. Y un estar siempre al borde de, pero nunca en el centro.

Anhelos de lo anhelado, de lo jamás anhelado.
Hermana estrella: soy Alejandra. Buenas noches.

Un pájaro sale a buscar la inocencia y vuelve muerto debajo de sus alas. Campanas en los bolsillos de la noche.

14 novembre 1957

Un pazzo deflora un fiore. Il fiore dà alla luce una ragazza e poi muore. La ragazza rimane ferita da una mancanza innominabile che aumenta fino alla follia quando si innamora del leone più intelligente della selva. (Il leone è una specie di sig. Nessuno mascherato da Tutto… o viceversa).

Vagiti, pianti. E un essere sempre sull’orlo di, mai al centro.

Desideri di ciò che è desiderato, di ciò che mai fu desiderato. Stella sorella: sono Alejandra. Buonanotte.

Un uccello esce a cercare l’innocenza e torna morto sotto le sue ali. Campane nelle tasche della notte.

Copertina de Il ponte sognato di Alejandra Pizarnik
Alejandra Pizarnik, Il ponte sognato, Diari Vol. 1 (1954-1960), traduzione Roberta Truscia (2022, La Noce d’Oro)

Su “Previsioni sull’arrivo del caos” di Lorenzo Chiereghin

Nota di lettura a cura di Simone De Lorenzi.

Lorenzo Chiereghin giunge alla quinta raccolta, Previsioni sull’arrivo del caos (Nulla Die 2021), proseguendo le principali tematiche di fondo dei libri precedenti e consolidando un linguaggio divenuto ormai riconoscibile. Le sue poesie evitano dissestamenti e ornamenti superflui: la materia, a dispetto del titolo e del contenuto, non è caotica ma viene ricondotta con sapienza entro i limiti di una sintassi piana. Questa asciuttezza stilistica viene però riscattata, sul piano contenutistico, dalle scelte lessicali che si addensano a comporre diversi nuclei semantici.

 A partire da Dante e Vittorio Sereni – dalle citazioni incipitarie e negli echi disseminati lungo il testo – si delinea una situazione che, in un certo senso, richiama una dimensione di limbo protratta poi per tutta l’opera. Il poeta compie un viaggio che prende le mosse dalla catabasi dantesca, ma a differenza di questa non ha mete da raggiungere: rimane bloccato in una statica attesa che anzitutto è sospensione dal tempo presente. Interessante poi che Chiereghin, sebbene lo spunto dell’attualità non esaurisca le motivazioni sottostanti alla poetica del libro, scriva la maggior parte delle poesie durante la pandemia.

Davanti a questo destino fatale, emerge come già in Giovanni Giudici la polisemia della «fortezza»; e dove il lessema «fortezza» assume il significato di prigione, allora la condizione di recluso – la quale investe sia l’io poetante che il lettore – viene a coincidere con quella del dannato infernaleautore di «misfatti»caricato di «colpe» la cui entità resta ignota. Altrove la fortezza assurge a luogo inespugnabile nel quale rifugiarsi e perciò introduce uno scenario di battaglia. Qui entrano in gioco altri elementi affini che riguardano la disfatta, ci si aggira tra sfaceli di macerie – in un panorama orrorifico che gioca sulla dialettica tra buio e luce, con la presenza di ombre e spettri –, si assiste a un declino che, allo stesso tempo, è sia fisico che morale.

L’esito del viaggio non potrà che essere una resa. Il percorso si svolge lungo le soglie di un «confine» – non a caso il frammento sereniano posto in esergo proviene da Frontiera (1941) –, fino ad arrivare a quello estremo «del distacco»: la morte. In questo paesaggio dominato dall’ignoto o dall’assenza, la voce del poeta si richiude in afasia. Sono allora la memoria e la scrittura a venire in soccorso del poeta che, seguendo la lezione di Eugenio Montale, tenta di “riaprire” un varco verso la salvezza, pur consapevole della fragilità della funzione letteraria. Di questa precarietà è spia la riduzione di incursioni nel metaletterario rispetto alla raccolta precedente, quasi a non voler deviare il focus dalla materia trattata.

La salvezza qui inseguita corrisponde alla ricerca di uno scopo – processo che appare e scompare lungo tutta la raccolta, e si scontra con la vanificazione dei suoi tentativi. E forse proprio in ragione dell’impossibilità di accedervi c’è l’adesione a una «preferenza, in qualsiasi scritto, / dei significanti sui significati». Se alla fine non lo trova, «un senso», può però tentare di ricostruirlo «come l’ultimo / tentativo di non sprofondare»: in questi attimi, per quanto fugaci, è capace di aprire uno spiraglio di vitalità. La discesa agli Inferi non ci attende poi al solo momento del trapasso, ma è già prefigurata da vivi; e da qui verrebbe l’ambiguità contraddittoria del legame vita-morte, che determina nell’autore un’oscillazione tra speranza e disperazione.

Il tono di fondo è sconfortato, pessimista – e le rare volte che si alleggerisce pare farlo con ironia – ma non prende mai le derive del vittimismo: lungi dall’essere un lamento, il poeta compie un’analisi lucida del proprio stato interiore. L’abbondanza di particelle pronominali, di volta in volta riferite al “me” di chi parla, oppure a un “noi” o a un “tu” indefiniti, segnala la volontà di un interlocutore universale (da cui la sentenziosità che talvolta connatura certe frasi) che finisce per essere sempre, in un certo senso, il doppio di sé.


Vorrei avere ancora dei desideri
tendere al culmine indicibile
dove le sillabe hanno una cadenza
antica, dove i miraggi sfoggiano
un vivido corredo di molecole.
Vorrei ancora essere
vivo o solo essere, mi basterebbe
sfiorare quel tacito azzardo.

Undercover in eco: tre poesie di Maartje Smits

Introduzione e traduzioni a cura di Marco Prandoni, professore di lingua e letteratura neerlandese presso l’Università di Bologna.

Curiosa è la dedica con cui si apre la raccolta poetica di Maartje Smits (Soest, Paesi Bassi, 1986) “come ho inziato un bosco nel mio bagno” (hoe ik een bos begon in mijn badkamer, 2017): non a persone, ma “agli ecodotti che ho attraversato di nascosto”. Sono passaggi pensati per consentire agli animali di superare le barriere imposte da strade e ferrovie che frammentano i loro habitat e ne mettono a repentaglio la vita. Fin da subito viene introdotta una delle tematiche riccorrenti dell’opera: l’attraversamento di confini, materiali-fisici e mentali-culturali. Non è solo l’io lirico sulla carta a effettuare queste trasgressioni. In una performance video registrata nel 2016 a Den Dolder, nella provincia di Utrecht, assistiamo alla corsa di Maartje Smits, un corpo in corsa, con il seguente testo in sovrimpressione:

ik (mens) (vrouw) (dertig jaar)stak illegaal een ecoduct over

ik (mens) (vrouw) (dertig jaar)stak illegaal een ecoduct over

io (essere umano) (donna) (trent’anni)

ho attraversato illegalmente un ecodotto

Posizionata e situata nella sua esperienza di umana trentenne di sesso femminile, la performer-poeta prende la via che gli umani con le loro preoccupazioni ambientaliste hanno concesso agli altri animali. Lo fa illegalmente, perché spesso questi ecodotti, come le aree naturali protette, non sono accessibili agli umani, o solo in certi orari e a certe condizioni, per fini ricreativi. Dura è la critica ai tentativi, pur ispirati a una sensibilità ambientalista, di proteggere la natura legiferando su di essa, con sempre nuove definizioni che tracciano limiti e confini tra cultura e natura (selvaggia) e così facendo riaffermano discutibili gerarchie, su discutibili presupposti.

Quale sia l’atteggiamento per contro della poeta illegale e undercover rispetto all’ambientalismo in voga in modo ancor più esplicito nel testo “rompere un’area di riposo” (een rustgebied breken). L’irruzione compiuta in quest’area protetta è piratesca: è un’incursione compiuta per sfuggire ai rituali della domenica ed entrare in una dimensione altra, sulla strada percorsa dagli animali, mentre i fari delle automobili ricordano la presenza costante della tecnologia umana interconnessa in modo irreversibile a tutti gli spazi dei Paesi Bassi. È un’interconnessione (come la “rete”, mesh di cui parla Timothy Morton) a cui, volenti e nolenti, oggi non è più possibile sottrarsi.

Nella poesia che dà il titolo alla raccolta, il soggetto dà conto della propria confusione: come acquirente, sedotta dalle strategie del marketing ecosostenibile, come essere umano “senza giardino”, come ambientalista occidentale, che un inserviente surinamese ammonisce a non sottovalutare il potere della natura. La crisi è anche esistenziale, e sfocia in aperta nevrosi. La disperazione è però condivisa, nel sentire dell’io, dalle felci che ha acquistato le quali, lungi dall’assorbire lo stress (secondo lo slogan promozionale), acuiscono la crisi del soggetto che è spinto a una radicale autocritica: «come avevo potuto mai osare / distinguermi dalle piante». Nella seconda parte della poesia assistiamo a processi testuali di antropomorfizzazione delle piante e di ecomorfismo dell’umano: le radici penetrano pensieri compulsivi. È un tentativo, grazie alle risorse metaforiche del linguaggio poetico, di esplorare la frattura comunque abissale tra soggettività umana e il mondo oltre l’umano.

Non stupisce che nella raccolta gli animali compaiano anche in poesie (post)apocalittiche. Gli animali sono infatti spesso presenti in quest’immaginario, dal testo fondante dell’Apocalisse alla letteratura e al cinema modernisti, fino alla fantascienza, purtoppo sempre più realistica, contemporanea. Davvero notevole il contributo dato da Smits a quest’immaginario nella poesia “the last human” (de laatste mens). L’essere umano ha perso la sua presunta centralità planetaria, è sull’orlo dell’estinzione in un’apocalissi che è tale solo per la sua specie, non per il resto del mondo naturale. A differenza di Oryx and Crake di Margaret Atwood (2003), in Smits non c’è traccia di un “poi” post-apocalittico. Si limita a un’istantanea di un momento appena precedente la fine della parabola dell’umano: idealmente iniziata con l’australopiteca Lucy e, dopo milioni di “ominescenza”, per dirla con Michel Serres, arrivata al termine con questa donna, al cospetto di scimpanzé indifferenti.


da hoe ik een bos begon in mijn slaapkamer (2017)

Een rustgebied breken

stiekem enteren mijn vader en ik
een rustgebied

het hek is ontspannen en te laag
voor mensen met mountainbikes

thuis durven we niet
stil te zitten
dus wagen we de oversteek vast
besluiten aan deze zondag
te ontsnappen

in het stiltegebied steken snelweglichten
onder ons rauzen mensen naar huis
wegaanduidingen in een rijtje ontwortelde bomen

mijn vader en ik nemen de weg voor dieren
onze banden verdwijnen in het mulle zand
volgens een scherm op mijn stuur bewegen we
buiten de kaart en we moeten zo
aan tafel
aan de andere kant

Rompere un’area di riposo

di nascosto mio padre e io abbordiamo
un’area di riposo

la recinzione è rilassata e troppo bassa
per persone in mountain bike

a casa non osiamo
stare zitti
quindi ci lanciamo alla traversata
decidiamo di sfuggire
a questa domenica

nell’area di silenzio luci dell’autrostrada tagliano
sotto di noi la gente si precipita a casa
segnalazioni stradali in una fila di alberi sradicati

mio padre e io prendiamo la strada per gli animali
le nostre tracce scompaiono nella sabbia polverosa
secondo lo schermo sul mio manubrio ci muoviamo
fuori dalla carta e fra poco dobbiamo
sederci a tavola
dall’altra parte

Paesaggio naturale olandese
Hoe ik een bos begon in mijn badkamer

verleid door handzame varens in de supermarkt
tuinloze wezens zoals ik amper dorst maar
IKRA GROEN IS GOED
en kamerplanten zuigen stress

de varen bleek geen varen
een vrouw keek vrij en schoon van verpakking
ze ademde Luchtzuiverende Plantenmix®
getest door NASA en TNO

thuis hoorde ik

bomen praten ondergronds
over het weer
veranderde klimaat ze ruilen
schimmels met superpowers
storten kalmerende mineralen
op een huishoudrekening

één boom bestaat amper
één varen mag geen varen heten
ik kocht een tweede
een derde
ik kocht het hele laatste treetje
mix

tot de vulploegmedewerker mij vermaande
in Suriname moet je vechten tegen de natuur
anders neemt ze alles over
eerst tuin dan je huis je
bed je douchegordijn

maar bossen groeien tegenwoordig binnen
de lijntjes statische paddenstoelen langs de weg
is overwoekeren in Nederland nog wel een woord

hoe had ik me ooit van planten
durven onderscheiden
waar begon de mix en ik

zag mijn nauwelijksvarens vereenzamen
op de vensterbank
naast elkaar in kunststof aardewerk
waar alles op afketst
wortels die dwanggedachten ingroeien

mijn plantenmix huilde onder de douche
waar ik hun weke onderlijven ontpotte en begroef
in de uitgeknipte aarde

daarna droeg ik het overige
kamergroen naar boven

Come ho iniziato un bosco nel mio bagno

sedotta da comode felci al supermercato
esseri senza giardino come me a malapena sete ma
IKEA GREEN IS GOOD
e le piante da interno assorbono lo stress

le felci alla fine non erano felci
una donna dallo sguardo libero e pulito sulla confezione
respirava Piante Mix® per purificare l’aria
testato dalla NASA

a casa ho sentito

alberi parlare sottoterra
del clima
cambiato di nuovo scambiano
muffe con superpoteri
versano minerali calmanti
sul conto della casa

un albero solo esiste a malapena
una felce sola non merita il nome di felce
ne ho comprata una seconda
una terza
ho comprato tutto intero l’ultimo
mix di alberi

finché l’assistente mi ha ammonito
in Suriname devi combattere contro la natura
altrimenti ti prende tutto
prima il giardino poi la casa il
letto la tendina della doccia

ma al giorno d’oggi i boschi crescono dentro i bordi
funghi statici lungo la strada
infestare è ancora una parola in Olanda?

come avevo potuto mai osare
distinguermi dalle piante
dove è iniziato il mix e io

ho visto le mie a-malapena-felci isolarsi
sul balcone
l’una accanto all’altra in ceramica sintetica
su cui tutto rimbalza
radici che penetrano
pensieri compulsivi

il mio mix di piante ha pianto sotto la doccia
dove travasavo i loro molli corpi
e seppellivo
nella terra

quindi ho portato su il verde
da interno rimanente

De laatste mens

nu de arena opdroogt
nu een koufront over de tribunes klettert
nu schoothondjes gonzen

en wraakzuchtig loenzen naar
de laatste mens
een volwassen exemplaar
zij pronkt
haar melkklieren waar generaties in zijn verschrompeld

zelfs chimpansees hebben lang geleden
hun interesse verloren

dit is toch geen plek om uit te sterven
de laatste mens tekent hokjes in het zand
om zich thuis te voelen
ze kent alle namen van dieren en andere
begrippen die in onbruik zijn geraakt

The last human

ora che l’arena si dissecca
ora che un fronte di freddo picchia sulle tribune
ora che i cani da salotto sibilano

e vendicativi guardano storto l’ultimo
umano
un esemplare adulto
lei svetta
le sue ghiandole mammarie in cui generazioni si sono avvizzite

persino scimpanzé già tempo fa hanno
perso l’interesse

ma questo non è un posto in cui estinguersi
l’ultima umana disegna riquadri sulla sabbia
per sentirsi a casa
lei conosce tutti i nomi di animali e di altri
concetti caduti in disuso

Copertina di Hoe ik een bos begon in mijn badkamer di Maartje Smits
From: Hoe ik een bos begon in mijn badkamer. Copyright Maartje Smits and De Harmonie Publishers, Amsterdam 2017. All rights reserved.

Nella gabbia e oltre: tre poesie di Michèle Métail

Introduzione e traduzioni dal francese a cura di Andrea Bricchi.

Michèle Métail, poeta francese nata a Parigi nel 1950, è un’autrice singolare e poco conosciuta persino in patria. Specialista di lingua e cultura tedesca, addottoratasi sulla poesia cinese, già dai primi anni settanta scrive poesie che si caratterizzano per una forte componente performativa e sperimentale. Proprio questa sua cifra la porta a entrare nell’OuLiPo, nel 1975, dopo aver catturato l’attenzione di uno dei due padri fondatori, François Le Lionnais, con un poema intitolato Compléments de nom.
Métail è fra i pochi membri femminili del gruppo, e introduce un numero consistente di contraintes (regole) in testi poi pubblicati nella collana de La Bibliothèque Oulipienne. Tra questi, costituiscono un caso interessante, anche per il loro effetto spesso umoristico, i suoi Portraits-Robots (cioè “Identikit”), ripubblicati di recente da les presses du réel. Si tratta di una serie di poesie i cui versi vincono la scommessa di delineare dei ritratti arcimboldeschi ponendosi una limitazione: impiegare solo espressioni ricavate dal lessico dell’ambito di cui fa parte il soggetto o il ruolo rappresentato. Il primo componimento che qui riportiamo, L’architecte, è solo un esempio di queste 102 prove di bravura lessicologica, che portano agli estremi le potenzialità della metafora, ricavando l’idea di base dall’attività meravigliosa – in senso barocco – e non priva d’ironia del celebre pittore milanese.
Se già poesie come queste pongono problemi non da poco al traduttore, poiché non sempre i termini di origine anatomica trapiantati nel lessico dell’architettura (per citare il caso specifico) trovano un esatto riscontro in italiano, le poesie-fotografie inserite in una particolare sezione di Toponyme-Berlin (Tarabuste, 2002) costituiscono una vera e propria sfida traduttiva. Ispirate alle misure del formato più comune delle fotografie (10×15), esse seguono con scrupolo la regola dei dieci versi da quindici lettere ciascuno (spazi e punteggiatura esclusi dal conteggio). Si intuisce allora come un certo “spirito oulipiano” sia rimasto una costante nell’attività dell’autrice anche dopo il suo volontario e cordiale allontanamento dal gruppo, avvenuto nel 1998. Tuttavia, sarebbe renderle un pessimo servizio ridurne l’opera all’abilità nell’uso delle contraintes; basti, come saggio della capacità impressionistica e della delicatezza di visione di Métail, la seconda poesia qui tradotta, che immortala una Berlino in procinto di scivolare sotto le coperte della notte.
L’ultimo testo è un estratto da Le cours du Danube, poema concepito come una ramificazione del più vasto Compléments de nom. Si tratta di una sequenza di complementi di specificazione, che scorrono proprio al pari d’un fiume, ritmati dall’introduzione – all’inizio d’ogni verso – di un nuovo sostantivo e dalla scomparsa dell’ultimo della serie. La risalita del Danubio è destinata ad arrivare alla Foresta Nera, certo, ma nel fluire delle parole Métail procede soprattutto a una straordinaria esplorazione del linguaggio e delle sue combinazioni, in un’opera che, nelle letture pubbliche che ne dà la scrittrice, suona magica e ossessiva come una litania.


da Portraits-robots (1987, 2019)

L’architect

TÊTE DE MUR
FIGURE D’UN BÂTIMENT
FACES DE L’ARCHITRAVE
FRONT D’UN MONUMENT
OEIL DE PONT
NEZ DE MARCHE
BOUCHE D’ÉGOÛT
MENTON À TRIPLE ÉTAGE
GORGE DE RACCORDEMENT
ÉPAULE DE BASTION
MAIN D’OEUVRE
CORPS DE LOGIS
TRONC DE COLONNE
COEUR DE LA VILLE
VEINE PORTE
JAMBE D’ENGOIGNURE
PIED DE L’ESCALIER

L’architetto

TESTA DI MATTONE
FACCIATA D’UN EDIFICIO
ARCHIVOLTO DI CATTEDRALE
FRONTONE D’UN MONUMENTO
OCCHIO DI BUE SULLA PORTA
PROFILO PER GRADINI
BOCCHETTA DI FOGNATURA
VOLTA A PADIGLIONE
COSTOLONE DI CUPOLA
FIANCO DI BASTIONE
MANO D’OPERA
CORPO DI FABBRICA
TRONCO DI COLONNA
CUORE DELLA CITTÀ
VENA PORTA
ASTRAGALO DI TEMPIO
PIEDISTALLO DEL FUSTO

da Toponyme, Berlin (2002)

écran soir et noir
le trajet fatigué
se signale sonore
riverain des rues
où la ville livrée
en photos banales
au virage, visages
s’effacent, mi-nuit
même des lumières
quand s’éteignent

13 décembre 2000 : retour en tram de Pankow

schermo sera nero
tragitti stanchi
rimbombano lungo
arenili di strade
e la città si offre
in scatti insulsi
alla svolta, volti
sbiaditi nel buio
poi la mezzanotte
soffoca ogni luce

13 dicembre 2000: ritorno in tram da Pankow

Da Le cours du Danube – en 2888 kilomètres/vers… l’infini (2018)

2883 la célébration de la quarantaine de l’annuité de l’anniversaire du poème de l’infini

2882 la cérémonie de la célébration de la quarantaine de l’annuité de l’anniversaire du poème

2881 la solennité de la cérémonie de la célébration de la quarantaine de l’annuité de l’anniversaire

2880 l’occasion de la solennité la cérémonie de la célébration de la quarantaine de l’annuité

2879 la voiture de l’occasion de la solennité la cérémonie de la célébration de la quarantaine

2878 le conducteur de la voiture de l’occasion de la solennité de la cérémonie de la célébration

2877 le permis du conducteur de la voiture de l’occasion de la solennité de la cérémonie

2876 la délivrance du permis du conducteur de la voiture de l’occasion de la solennité

2875 la préfecture de la délivrance du permis du conducteur de la voiture de l’occasion

2874 le chef-lieu de la préfécture de la délivrance du permis du conducteur de la voiture

2873 le canton du chef-lieu de la préfécture de la délivrance du permis du conducteur

2872 la confédération du canton du chef-lieu de la préfécture de la délivrance du permis

2883   la celebrazione del quarantennale dell’annualità dell’anniversario del poema dell’infinito

2882 la cerimonia della celebrazione del quarantennale dell’annualità dell’anniversario del poema

2881 la solennità della cerimonia della celebrazione del quarantennale dell’annualità dell’anniversario

2880 l’occasione della solennità della cerimonia della celebrazione del quarantennale dell’annualità

2879 l’automobile dell’occasione della solennità della cerimonia della celebrazione del quarantennale

2878 il conducente dell’automobile dell’occasione della solennità della cerimonia della celebrazione

2877 la patente del conducente dell’automobile dell’occasione della solennità della cerimonia

2876 il rilascio della patente del conducente dell’automobile dell’occasione della solennità

2875   la prefettura del rilascio della patente del conducente dell’automobile dell’occasione

2874   il capoluogo della prefettura del rilascio della patente del conducente dell’automobile

2873   il cantone del capoluogo della prefettura del rilascio della patente del conducente

2872   la confederazione del cantone del capoluogo della prefettura del rilascio della patente