In teoria e in pratica | Collana Manufatti di Zacinto Edizioni

Le risposte degli autori della collana Manufatti di Zacinto Edizioni all’inchiesta a cura di Raggi γ.

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Raccogliamo le risposte di alcuni autori presentati nella collana Manufatti di Zacinto EdizioniMarzia D’Amico, Lorenzo Mari, Stefania Zampiga.


1)  Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo?  Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

MDA: Il primo libro di poesia che ho pubblicato, Liricologismo, non è cronologicamente il primo che ho ultimato. Questo vuol dire che mi sono permessa un esercizio diverso, giocando con qualcosa che pensavo mi stesse male addosso (il lirismo puro) e trasformandolo come ho potuto a partire da dentro, permeando l’io con la costituzione di un’essenza plurima in una maniera diversa da altri esperimenti che avevo perseguito in passato (sia in lingua italiana che inglese). Non è cambiato però lo sguardo alla poesia, solo la maniera di applicare gli insegnamenti dello sperimentalismo (soprattutto italiano) che mi è caro. Sono certa che qualsiasi cosa scriverò affonderà sempre le radici – che sia per imitazione o per distanziamento – nella poesia sperimentale (soprattutto quella femminista) del secondo Novecento, perché oltre ad essere la materia di studio per il mio percorso di ricerca accademica, è un elemento chiave nel mio processo di ricerca personale e autoriale. Certo, non escludo che questo possa cambiare nel tempo in termini di approcci e giochi (mi piace una certa leggerezza poetica, l’ironia è una form(ul)a fondamentale di rivendicazione) ma dubito che perderò di vista l’orizzonte che mi ha così segnatə e formatə. Per quanto riguarda la costruzione di un’opera, invece, nella sua interezza, non ho consigli, o quantomeno non ne ho di buoni: io parto da un’idea che ha un principio e una fine, ma spesso cosa capita nel mezzo mi è (in parte) sconosciuto. Lavoro molto per accumulo e successiva esclusione, nel mezzo mi permetto una certa esuberanza per riconoscermi nel processo di scrittura: quando si arriva però al momento in cui l’oggetto-libro esce completamente da noi, ecco è lì che rivedo e rifinisco con quanta più possibile consapevolezza autoriale che non sto mandando nel mondo me ma una promessa di contatto.

LM: Sono affezionato a una visione della poesia che è progetto (e proiezione) ma senza una progettualità – né ideologica né formale – prestabilita. La progettualità viene in corso d’opera, proprio come si suggerisce nella domanda, da un movimento graduale di intreccio tra i materiali di lettura, di scrittura, di confronto con le altre arti, con gli accidenti della vita, etc. Di conseguenza non posso dare consigli, ma, parafrasando la massima, cerco di dare cattivi esempi… Nella mia esperienza, questo ha portato a libri che ricercavano una compattezza formale affine a un determinato lavoro sull’allegoria (anche qui, senza giungere ad allegorie perfettamente conchiuse) in Ornitorinco in cinque passi (Prufrock Spa, 2016) e Querencia (Oedipus, 2019), ma anche al percorso caotico, talvolta pseudo-enciclopedico talvolta arbitrario, di Soggetti a cancellazione (Arcipelago Itaca, 2022). In questo caso, una performance insieme a molpho per XM 24 e Galleria Frittelli di Firenze basata su una breve sequenza di testi è diventata la plaquette di Zacinto edizioni Tarsia/Coro e poi una parte di Soggetti a cancellazione (che, però, appunto, contiene molti altri materiali affastellati tra loro… e al tempo stesso cancellati…).
Credo che ogni forma si scelga le proprie maestre e maestri – e che questo di fatto accada, seppure più nascostamente, anche per quell’informe che è in rapporto dialettico con la forma – e questi libri ne hanno cercati parecchie e parecchi… In tema di costruzione dell’opera, vorrei piuttosto sottolineare la presenza di realtà editoriali, o produttive in senso lato, che contribuiscono molto a questo percorso – a differenza di altre, pur meritorie, che si attengono ai crismi di una produzione più tradizionale… Ne cito soltanto alcune, pescandole a titolo di esempio tra quelle con cui non ho un rapporto autore-editore: Diaforia, Benway Series, Howphelia.

SZ: Ecco, il tema avvia la ricerca. Purtroppo non riesco a partire dalla curiosità per una forma. Da qualche anno ho un tema, un progetto ampio ma modulabile, in un ambito che non mi aspettavo, quello della scienza. In breve, il progetto consiste nel vedere come percorsi, procedure, posture appena meno note di animali non umani siano mirabili in sé (nella precarietà del dato scientifico) ma anche evochino altro, in particolare, le ‘inarrestabili trame’ della scrittura. In Rangifera l’attenzione è su un solo dettaglio scientifico non dichiarato – come la renna vede nel bianco –  importante per me in quanto dettaglio di avvio del progetto generale.
Il tema viene da subito delineato dagli studi, che di conseguenza riducono e ampliano le tipologie di parola impiegate, nell’accoglienza di spunti soprattutto dal linguaggio della scienza – anche solo a spazializzarlo sulla pagina, rilascia riverberi. Mi piace indagare l’estensione e la trasformazione degli spazi di parola, oltre che gli effetti di una parola negli spazi. Quindi il tema vive solo per le parole scelte per le connessioni sostenibili nelle fluttuazioni del tempo. In generale mi piace indagare fin dove si può dire poco, dunque esploro la forma breve, anche se comincio ad aprirmi all’abbondanza.
Per la costruzione di Rangifera, primo testo lungo su un tema, ho proceduto per aperture, come se una lente si muovesse fra il tema e le sue lingue, i perimetri non perimetri, ad es. scomposizioni di parole come ‘lichene’ e ‘lupo’, altri dettagli. Amo i lavori di Marilina Ciaco e di Christophe Tarkos per come stanno nell’intimità in altri modi e per loro ‘decentr-azioni’, e amo la scomposizione della frase e del concetto di testo di Alessandra Greco. Poi, figure come Marco Giovenale, Morena Coppola e Andrea Inglese mi portano ad apprendere lo spostamento di attenzione al senso del rumore.
Naturalmente l’approccio cambia, anche in base alle letture che faccio; ad esempio per gli animali non umani, fra gli altri, da lungo tempo leggo Vinciane Despret e, in questi mesi, Bartolomeo Cafarella e Giulio Marzaioli.
Infine, l’immedesimazione dentro al corpo di un animale è legata a pratiche di improvvisazione di danza; come affermava qualche decennio fa la pensatrice di origine vietnamita Trinh T Minh Ha. “Il pensiero è tanto il prodotto dell’occhio, del dito o del piede come lo è del cervello.” Minimi consigli: indagare, aprire il testo, confrontarsi, uscire dall’isolamento fisico della scrittura.

2)  Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

MDA: Credo fortemente nel principio di finzione poetica. Certo, gli elementi biografici possono essere presenti e addirittura ricorrenti, ma quello che mi interessa soprattutto della poesia è la capacità di un sentito collettivo. Questo si costituisce, a mio avviso, secondo un progetto di ideale comune, di orizzonte condiviso, di desiderio di contatto. Non devo la verità a chi mi legge, e al massimo posso offrire la mia versione della verità; in questo senso, più che di biografismo, mi piace pensare che si tratti di posizionamento. Magari rivelo – più o meno direttamente e concretamente – aspetti funzionali a creare una relazione col prossimo.

LM: Sono grandi temi e mi sento di rispondere soltanto telegraficamente. Finzione sì, invenzione no (e nemmeno “uncreative writing” duro e puro, ma qualcosa di ibrido, o in movimento dialettico, tra i due poli); il sé… che dobbiamo fare, teniamocelo pure… ma soltanto se…

SZ: In primo luogo il movimento dei miei testi è lontano dall’espressione di sé e della realtà biografica del mio io perché ci sono altri intenti, entrare nei panni di animali non umani, anche se la scrittura non è in prima persona. Dunque la prima ‘finzione/invenzione’ è immaginare altri punti di vista, a partire da studi piuttosto approfonditi su quello di cui parlo. Riguardo a ciò, assumo il dato scientifico perché comunque si caratterizza per essere modificabile e fallace, provvisorio; nuove scoperte e intuizioni lo cambiano, in un certo senso si tratta di una costruzione transitoria. E comunque mi piace ricordare che anche il dato scientifico parte spesso da un’intuizione, e dall’immaginare, come è stato nel caso di Rachel Carson. Nei miei testi la finzione è immaginare implicazioni del dato scientifico, anche a partire dal modo in cui questo è formulato, il modo in cui è stato ‘disposto’ nel linguaggio.

3)  Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

MDA: Ho cominciato a scrivere in versi abbastanza presto ma con poco successo. Mi rileggo e lo dico senza vergogna: le mie prime poesie non sono niente di che. Solo quando ho adottato l’inglese come lingua principale della mia scrittura poetica ho saputo creare il giusto distacco funzionale a creare qualcosa che potesse servire qualcuno oltre me, è stato molto istruttivo e in parte faticoso ma davvero un’esperienza brillante di cui sono felice. Sono tornatə alla lingua italiana con più metodo e più attenzione, spero soprattutto avendo imparato a mediare tra l’istinto di compiacenza del sé e la prospettiva collettiva alla quale cerco di affidare il mio sentire, il mio ragionare, il mio scrivere. Avendo trascorso quasi tutta la mia vita circa-adulta all’estero, non ho neanche gioito o patito dell’esperienza della “bolla”, per mia fortuna e sfortuna immagino: sicuramente, però, il pubblico ha un valore massimo nel mio tentativo autoriale, perché molto di quello che scrivo è anche pensato per la lettura ad alta voce e condivisa. Credo fortemente nel momento stesso della compartecipazione testuale, credo che una poesia raggiunga la sua massima altezza quando si verifica.

LM: Non posso negare di avere rapporti con l’esterno – se di esterno si può parlare – che possono essere valutati, poi, di volta in volta. Talvolta ci ragiono a fondo anche io – magari all’interno di singoli progetti collaborativi, che hanno sostituito la “poesia d’occasione”, nella loro progettualità maggiormente prestabilita – ma guardo sempre alla questione con una certa leggerezza, visto che si tratta più che altro di autoanalisi… Per quanto mi riguarda, francamente, non è questa la faccenda più interessante: da un po’ di tempo mi concentro solo su una parte della domanda, quella che riguarda la presa di parola. Mi sembra che questa domanda sfugga, in ultima istanza, all’autoanalisi e che non riguardi soltanto l’esordio, bensì che vada posta continuamente. D’altro canto, personalmente, non credo nemmeno di essermela mai posta fino in fondo – il che non vuol dire non aver ancora esordito, ma, con ogni probabilità, essere sempre stato “borghese”, da un lato, e sempre già morto, dall’altro.

SZ: (in brevissimo)
infanzia/giovinezza: a Cesena, parola nello spazio come gioco, con amica Claudia Castellucci (Societas ex Raffaello Sanzio). Resa di Rilke e Dickinson di Mariangela Gualtieri, suo ‘Fuoco Centrale’. Bologna, passione per T. S. Eliot e la poesia in lingua inglese.
dopo: Prato e altri luoghi, scritture per il teatro e per la danza. Parole nello spazio, per Società delle Letterate. Con gli studenti, poesie contemporanee per voce e corpo e altre azioni sulla poesia, anche nel coordinamento di progetti Erasmus. Studi su poesia americana in performance. Co-coordinamento Progetto Poecity, su letture condivise. Laboratori con Elisa Biagini e del Centro Scritture. Esperienza di Esiste la Ricerca.
Il mio percorso è sempre nato da un incontro: mai in solitudine. Scrivo per dialogare. ‘Scrittura come test’, ricorda Antonio Francesco Perozzi in questa sede, scritture come passaggi falliti o fallibili, sperimentazioni di avvicinamenti, spostamenti, verso incontri. Molte cose influiscono su di me, cerco di essere consapevole delle situazioni e dei mutamenti che offrono; sono grata alla porosità, mi muovo verso il contatto.
L’esordio in pubblicazione aiuta ulteriormente a sentirmi parte di un dialogo.

4)  Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

MDA: La verità è che non conosco abbastanza la scena contemporanea italiana per poter dare giudizi o consigli, sono solo gratə di avere le mie parole lì fuori insieme a quelle di molte persone talentuose che ho avuto la fortuna di incontrare nel mio percorso. Sicuramente, una cosa generica ma che sento il dovere di riaffermare in quanto è mio compito anche come persona che insegna la poesia, è che la poesia non è elitaria. O almeno, per me, non dovrebbe esserlo. Il più grande insegnamento che ci lascia Amelia Rosselli è secondo me la continua ricerca di “un semplice linguaggio”: questo non si traduce in una lingua scialba, o priva di densità e significato. Ma c’è differenza tra scrivere una cosa difficile e oscura, e il pensare (e scrivere, e farne tesoro) la complessità e il saperla restituire.

LM: Anche in questo caso non ho particolari idee né preoccupazioni, ma posso parlare di quella che è l’esperienza, negli ultimi due anni, di “Dialoghi”, insieme a Sergio Rotino e Luciano Mazziotta. Si tratta di una rassegna annuale, basata su una serie di presentazioni brevi, quasi à contrainte, ovvero con la presenza di due libri in dialogo tra loro, scelti da chi organizza e modera l’incontro, in un tempo molto condensato che prevede comunque uno spazio per la lettura di una selezione dei testi dei singoli autori. Se va bene, quello che si può dire e sentire in un’ora e mezza un’ora e quaranta può essere condensato in trenta-quaranta minuti… Succede anche con la lettura di un libro di poesia: la si può fare in brevissimo tempo, ma le parole poi, se va bene, risuonano a lungo.

SZ: In generale, trovo che siano momenti di entusiasmo e passione. Dopo un evento recente del Premio Montano, ho visto quanto siano efficaci le note introduttive. Però, in generale, toglierei solennità a questi momenti, aprendo a punteggiature da altre discipline – musica, danza, teatro; favorirei esperimenti di ibridazione, ad esempio come quello creato qualche mese fa da Anna Papa nella sua giornata per ‘I dialoghi della sedia’ di Chiara Serani, inclusiva di contributi dalle arti visive, azioni propriocettive, videoart, performance.

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