Su “Prisma” di Maria Borio

Nota di lettura a cura di Leonardo De Santis.

«Questo poema immagina le figure di suono in poesia attraverso gli effetti sonori del linguaggio» ecco quanto emerge dall’introduzione a Prisma (2022) di Maria Borio, plaquette suddivisa in sette momenti di un’osservazione scientifica della vita, che tiene sempre ben presente il concetto di origine; che si parli di vibrazione sonora o di luce.

L’attenzione di Borio è rivolta agli eventi osservati e al perché soggiacente all’esperienza guardata. I testi interrogano le stesse scene che propongono: l’elemento cardine di queste poesie è l’insorgenza di una quantità di domande destabilizzanti che disturbano la visione e distorcono il suo senso, plasmandolo fino a renderlo incerto. La scrittura riprende l’immagine della polvere di licopodio su una superficie che, percorsa da vibrazioni di diversa intensità, evoca disegni ogni volta diversi. Le domande sono telluriche, creano una confusione strutturale e consultabile: sembra che Prisma voglia condurci a un confronto con lo smarrimento e la precarietà.

«strategie, innocenza?», «Dove siamo autentici?», ma anche: «Are you 18?»; tutte domande atte a sottendere una questione essenziale che non è stata ancora formulata: siamo all’incontro con qualcosa di familiare e al contempo estraneo. La domanda sembra essere: “che cosa sto guardando?”; e potrebbe sembrare che la ricerca sia quella di un orientamento nel tempo della vita, ma i testi invece suggeriscono la possibilità della perdita dell’Io nell’osservazione. L’assenza dell’osservatore ha origine nel momento dell’osservazione stessa, per questo è possibile vedere il libro come un no concept album dove il concetto non è il fulcro di queste poesie. L’origine, la vibrazione o la luce sono piuttosto al centro del libro, assieme a quella modalità di visione che si chiama poesia: siamo di fronte ad un poemetto sullo sguardo.

Prisma parla della necessità di un non-sguardo su una realtà ipersignificante. Ciascuno riflette sulla propria esperienza e sperimenta una mancanza di controllo su un ambiente di cui non sempre si sente partecipe. Questa mi sembra essere l’ottica-guida della plaquette. Scrivere da questa distanza di (in)sicurezza è la condizione per tentare di osservare la logica secondo cui la lingua e la vita si sono evolute a partire da influenze e scelte che possono essere viste. Borio sceglie una lingua che dubita della sua stessa origine, mescola l’acronimo più recente e la conversazione comune. Ne viene fuori un’intervista interiore che ha l’aspetto di una svestizione.

I termini millennial gen Z sono pause di elaborazione-comprensione. Anche le interrogative che espongono l’ambiguità dell’esperienza creano un silenzio di caricamento. Nel mentre la voce sperimenta la sua ubiquità nel tempo, ma anche la sua inefficienza. Dopotutto anche la serie delle figure di Chladni non significa niente: è possibile consultare questa insignificanza osservabile? Confrontarci con lei? Questa credo sia la domanda più importante che Prisma ci rivolge.


5. Nella quarta dimensione

Primo tipo di figura – spirale. Secondo tipo – cerchio.
Aumentando la frequenza – rombo. Quarto tipo – parallelepipedo
in bidimensione, tridimensione… chiudi gli occhi e sei nella quarta.
Chi ha davvero il coraggio di essere sé stesso?
In un sogno diventavo un corpo di medusa e la vita interiore
poteva mostrarsi attraversata da frequenze, vedevo tutti
membrane elastiche di un eidofono e i pensieri
erano immagini di bidimensione, tridimensione,
trovati insieme nella quarta… Dove siamo autentici?
All’improvviso mi sento così giovane, ho la testa appoggiata
al finestrino di un autobus, dietro il sedile una gomma da masticare
fa un fiore rosa e secco. Tutto vibra. È notte:
ultima corsa. Il finestrino sbatte, il cranio in gola,
la saliva densa, ogni parte più contratta nel farsi
che nella parola vibrazione – forse vibes, tagliando
e al plurale – strategie, innocenza?
L’autobus scende a picco, il bosco nasconde frasi, il Tevere
sa di… / tiber / le frequenze legano a un filo di caucciù.
Se avevo la testa in su dicevo: ok boomer, non voleteci male.
Se la testa era in giù: ok, lasciateli scrivere sul sedile BUFU
o ACAB – voi chi avete rifiutato? Poi l’autobus va in piano e ho già
sedici anni, rimbalza sul ponte e sono già a diciotto, quando cambia
marcia tintinna – By Us Fuck You. Li sentite?
Nel fiume i gattini hanno strappato il sacco –
Ci sentite? –, vent’anni e l’ansa era stretta – da queste parti
affogano sempre i cuccioli? Ma quelli risalivano la corrente sotto la luna
Sentite? – trent’anni e scendevo… – Sentite? Puoi proteggere?
Animali e perdono corrono nel bosco.

Su “Ghost Track” di Marilina Ciaco

Nota di lettura a cura di Alessia Giordano.

«Alla fine del nastro c’è sempre un altro nastro».È con questa voce quasi robotica che Marilina Ciaco apre la sua nuova raccolta (Zacinto Edizioni, 2021). Ghost Track inizia con il presentare una stanza – scrostata, disabitata – chiedendo al lettore un atto di fede, di immaginarla come reale. Nella stanza c’è un timer: all’attivazione, inizierà un test psicologico a cui sottoporsi.

Ghost Track non si muove solamente sul piano visuale, ma su quello fonetico, acustico: il piano delle tracce sonore, degli spettrogrammi, delle «vocine». Il nastro – come quello di Möbius – si ripete, portando in sé storie, frammenti di vita: Adler, M., N., Occhiblu. Quattro personaggi che si muovono nella prima sezione della raccolta, introdotti da una voce fuori campo che li chiama e dopo poche righe li lascia scorrere via. Brevi e casuali frametratti da diverse vite, tutte accomunate dal vivere in una perdita: la perdita della bellezza, di un figlio, del gusto, di un terreno comune con l’interlocutore. Sono alcune delle tante storie che scorrono sul nastro – quella voce iniziale – che non si interrompe mai.

Nella sezione Vite a lunga esposizione, Ciaco inscena il quotidiano bloccato nell’automatismo, nel gesto ripetitivo e alienante («camminano in un momento della giornata che è sempre / le sei del pomeriggio») adottando la prospettiva di un apparecchio fotografico: dei tempi di posa, una cornice, un margine che non viene considerato. Ciò che la pellicola cattura non è altro che una «processione di fantasmi»: minuscole impressioni luminose, movimenti automatizzati, braccia che si avvicinano senza toccarsi. Si attende un intoppo, una stortura, «il rischio che tutti i pos possano incepparsi»: la leva giusta per disinnescare l’esplosione e bloccare il meccanismo.

Da qui, la ricerca di una strada laterale già dichiarata dal citare in epigrafe Volodine e il post-esotismo: è la ricerca di un fuori tempo, di un fuori campo. A rompere questo brusio continuo è l’immagine grottesca che appare nella sesta poesia: la pesca di gamberetti a cavallo, ekphrasis del dipinto Pescatori di Mario Sironi. Citando Sironi e spostando di getto il piano narrativo, Ciaco dà il chiaro segnale che ciò che cerca in Ghost Track non è tanto l’onirico, il fantastico, ma il metafisico: un luogo parallelo alla realtà, una lateralità.  

Ciò stilisticamente è creato attraverso il prelievo di chiacchiere televisive, domande psicologiche («Sei mai stato accusato di fissare le persone?», oppure: «Senti a volte l’istinto di saltare sopra le cose?») trasposte nel testo tramite la tecnica del cut-up; attraverso un continuo straniamento dato da cambi di scena e immagini; con un linguaggio nitido, razionale che però si rivela straniante, robotico, facendo sì che il lettore si muova in una struttura a buchi.

Il test si fa e si rifà da capo alla ricerca di quell’errore, della strada giusta per stare meglio. La stanza iniziale si rivela così essere l’inconscio da esplorare: una stanza in cui non si esce, ma si sprofonda.

Dal nastro escono «tracce fantasma personalizzate», segmenti di «genoma attraverso cui rivendicare un ruolo unico, una disappartenenza, una cicatrice»; storie impresse che prima o poi capita di ascoltare: Adler, M., N., Occhiblu, perché «alla fine del nastro c’è sempre un altro nastro».


da Vite a lunga esposizione

quanto rumore, fuori non c’è nessuno
la leva giusta per disinnescarmi
vorrei cercarla adesso, lei sa dov’è?
io ho undici buchi

il buco giusto per disinnescarmi 
è quello che non vedi, lo nasconde sotto il mento
si è rivoltato, adesso non si trova più
 non trova più le pupille, la peluria, la saliva

non so cosa mi mancasse di quei tempi
il prato artificiale, no, è la chiave che va tolta
la ruota giusta per disinnescarmi
adesso prendi le tue cose e vai via è meglio che tu lo faccia adesso

vive in centro, colpita in centro, è andata al centro
non so se voglio saperlo forse no
noi abbiamo sprecato molte vite
le vite giuste per disinnescarmi