In teoria e in pratica | Tommaso Di Dio

Le risposte di Tommaso Di Dio all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

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1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Mi ritrovo nelle vostre parole. Un libro, prima di essere un’opera compiuta e prima ancora di essere un progetto, è una nebulosa: un coacervo di possibilità, in cui nessuna prende il dominio e tutte procedono nella mente e nella scrittura, influenzandosi reciprocamente, contaminandosi, perdendosi. Da quanto mi è accaduto fino a qui, ogni libro ha una sua storia, una sua unica dinamica di sviluppo: faccio fatica a trovare delle costanti. L’unica è che non ho mai veramente lavorato con un progetto. Scrivo sempre testi singoli: ogni poesia potrebbe essere l’ultima e in effetti lo è. Ogni volta che termino una poesia, non so se avrà senso scriverne un’altra o se ne sarò in grado. Sento che potrei aver detto tutto e che la mia esperienza di scrittore finisce lì. Ogni volta che scrivo una poesia, la scrivo dentro questa dimensione finale, definitiva. Scrivo soltanto dentro questo presagio, dentro questa atmosfera, questo spossessamento, altrimenti quello che faccio non mi sembra neanche poesia, ma un esercizio scolastico o epigonale, qualcosa meno di un gioco di bimbi (che è cosa seria, invece). Qualche volta capita che un testo però non resti da solo: una poesia ne chiama un’altra e si formano così piccole costellazioni di “ultime poesie”. Per quanto si moltiplichino, è una gemmazione che proviene sempre dalla scrittura stessa, dalla sua esperienza interna, mai da un’idea che precede la scrittura e che la governa a priori. La formazione di un libro di poesie è per me un’esperienza del tutto postuma, artificiale: un’operazione di composizione. È come se ci fossero due fasi, ben distinte, con due logiche completamente lontane e, in parte, estranee. La prima è la scrittura vera e propria: segue sentieri improvvisi e interiori, meno razionali, meno controllati, più vicini al bisogno, al magma, al corpo e alle sue risposte emotive, gestuali. La seconda è il montaggio, che è anch’essa una forma di scrittura, ma completamente diversa: è un’operazione ideologica, a posteriori, ha scopi, obiettivi, se vuoi anche ambizioni. La prima non ha nessuna ambizione, vive del momento, gli interessa stare lì, dentro una percezione che diventa tutto il mondo in punta di tastiera, parola per parola. La seconda invece è un’attività a cui sottopongo i miei testi ma come se non fossero più miei. Quando mi metto a lavorare sul montaggio e sulla composizione è come se i testi che mi trovo davanti fossero anonimi: miei o di altri è indifferente, sono solo materiali, forze, direzioni. Negli ultimi anni mi sono trovato a fare libri con macrostrutture molto elaborate (non so se andrò avanti in questo modo): l’ho fatto perché mi interessava lavorare sulla forma libro, sulle modalità di tenuta e ibridazione del libro di poesia del nuovo Millennio. Devo dire che quasi tutte le opere che ho profondamente amato sono libri che hanno una costruzione potente, allegorica, che però non supera mai la forza intrinseca e solitaria dei testi. Penso alle egloghe di Virgilio, a Caproni con il suo Il Conte di Kevenhüller, a Sereni con Stella variabile, più recentemente a Pitture nere su carta di Mario Benedetti o a un libro straordinario, pubblicato in Francia nel 1986, ma solo l’anno scorso uscito in Italia (tradotto da Domenico Brancale e Tommaso Santi): Qualche cosa nero, di Jacques Roubaud. Per costruire un libro, posso consigliare due cose: sicuramente la prima è pensare al lettore, a cosa si vuole che accada durante l’esperienza della lettura; la seconda è trasformare i testi, da schermate digitali, in fogli stampati e distribuirli fisicamente su di una superficie (appenderli al muro o accostarli a terra): vedere il libro come successione fisica di pagine libera molte energie e rende gli spostamenti (o le sottrazioni o le aggiunte) più rapide, più indolori. Sono in effetti due tecniche di estraniamento, piccoli esercizi per uscire fuori dal sé.

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Che la poesia sia espressione del sé è un pigro adagio. Certo che la poesia ha sempre a che vedere con la propria esperienza (chi lo nega non vede le mani con cui scrive), ma se non è contemporaneamente trasfigurazione di sé in altro, è solo una noiosa tiritera ombelicale. E la poesia, quando c’è, è metamorfosi. Insomma – come in ogni altra forma d’arte – è solo una questione di stile: è il lavoro sulla forma che permette questo salto, questo calvario della materia biografica che si incendia e diventa movimento e luce. In questo preciso senso, la finzione della poesia è la sua verità e la verità è la sua finzione. Si tratta di arrivare (a forza di lavoro sulla sintassi e sul ritmo e sulle memorie letterarie) in questo cortocircuito fra grafia del bios e memoria retorica e poi saperci restare dentro un cammino di parole e immagini. Una poesia che sia solo un racconto di sé, per quanto una vita possa essere interessante e commovente, sarà sempre una poesia sciatta (tanta poesia “lirica” finisce così); e, al contrario, una poesia solo retorica e proceduralmente innovativa sarà solo un vociare senza scopo o al massimo un campionario di formule da riusare altrove (tanta poesia di “ricerca” finisce così). Quando si arriva al paradosso raggiunto, che ci sia un io, un tu o un egli, che ciò che bruci sia tuo o di un altro o di nessuno, non importa più nulla: solo è sovrana la restituzione, l’effetto, la forza che scorre nelle parole; con cosa ciò accada, è del tutto secondario, o meglio: è qualcosa che pertiene alla critica, all’aneddoto, alle chiacchiere postume.

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

È una domanda complessa, è difficile rispondere. Ti posso dire che senz’altro considero Favole (Transeuropa, 2009) come il mio esordio: è il mio primo libro di poesia nel senso che è il primo percorso di testi che ho lavorato con una lingua che considero reale, mia. E che ciò sia accaduto con l’auspicio di Mario Benedetti (che firmò la prefazione) è stato importante: non solo per ragioni personali, ma perché dice qualcosa sulla mia formazione e su ciò che ha contribuito a costruire la mia scrittura. Ho sentito di iniziare a scrivere davvero proprio grazie all’incontro con alcuni libri del mio tempo (Notti di pace occidentale di Antonella Anedda, La città dell’orto di Stefano Raimondi, Tema dell’addio di Milo De Angelis, Umana gloria di Mario Benedetti), ma anche grazie all’ascolto delle letture dal vivo, ai dialoghi intimi con alcuni poeti, ai loro consigli di lettura, senza i quali non sarei andato da nessuna parte. Un peso altrettanto grande per la mia formazione l’ha avuta la filosofia e in particolare il magistero di Carlo Sini, la cui riflessione sull’alfabeto e sul lavoro del simbolo è per me e per la mia poesia una lezione centrale. È importante per chi scrive incontrare la poesia contemporanea non solo nelle opere e nella scrittura, ma anche nelle figure e nei modi vitali in cui ciò accade in un tempo storico; in questo incontro sono compresi ovviamente anche i lettori e le loro restituzioni. Benedetti mi spronava a incontrare i miei coetanei, a dialogare con loro, a organizzare incontri e letture e così ho fatto: alcune compagne e compagni della mia generazione sono stati per me decisivi per definire la mia scrittura. Penso a libri come Pasta madre (2013) di Franca Mancinelli, La direzione delle cose (2014) di Roberto Cescon, Appartamenti o stanze (2016) di Carmen Gallo, Trasparenza (2018) di Maria Borio e come il recente Posti a sedere (2019) di Luciano Mazziotta o Campo aperto (2022) di Bernardo De Luca. Sono libri che mi hanno aiutato a capire non tanto come scrivere, ma cosa fosse il caso di buttare via.

4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Non ho molto da dire sull’argomento. Ci sono presentazioni che vengono bene e altre no, dipende tutto dal grado di preparazione di chi conduce l’incontro e dalla disponibilità del poeta a prendere sul serio il momento di scambio intellettuale con il pubblico e con chi conduce. Non tutti danno a questo momento lo stesso valore e non ne faccio una colpa: è anche una questione di attitudine personale. Dico però che per me è un momento importante, sia da conduttore che da ospite. Non ho alcun interesse se ci sono cento persone o cinque: chiunque sia lì, sta cercando qualcosa e questa disponibilità è un valore. Considero la presentazione pubblica della poesia e la sua lettura a alta voce un momento di militanza culturale: il modo in cui la poesia accade nella realtà storica del mio tempo. Mi piacerebbe che più spesso di come succede oggi ci fossero spazi consoni all’ascolto e alla lettura e ci fossero più occasioni per ragionare sui libri significativi del passato, sulle forme e sui temi, più workshop e laboratori invece di insistere – come spessissimo accade – sulla promozione dell’ultimo libro di poesia uscito qualche settimana fa. In questo senso, recentemente, ho incontrato una realtà molto bella a Milano, un collettivo che si chiama “Murmur”, promosso da Maria Luce Cacciaguerra e Greta Sugar: organizzano delle letture-laboratori, aperte al pubblico, in spazi e formule che cambiano continuamente, ma sempre informali e intimi, lontano sia dall’idea promozionale, che dall’idea intellettualistica dell’agone letterario. Ho trovato un clima di scambio e di dialogo sulla parola poetica e sulle sue forme davvero raro: vorrei più occasioni così, in cui accostarsi all’ascolto della parola dell’altro significa cercare di mettere in comune qualcosa di sé, in una ricerca che trova nella poesia un veicolo potentissimo.

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