“Come qualsiasi altro poeta” – Intervista a Marwan Makhoul

Intervista e traduzione dall’arabo a cura di Enrica Fei.

Marwan Makhoul

Quest’intervista, avvenuta telefonicamente il 22 marzo del 2024, è associata alla traduzione commentata di tre opere del poeta sempre a cura di Enrica Fei. La trovate qui, sul nostro sito.

Marwan Makhoul (1979), di cui abbiamo analizzato la poetica qui, è un poeta palestinese che vive nello Stato d’Israele. È nato da un padre palestinese e una madre originaria del Libano. Raccontando situazioni ordinarie, comuni, aneddoti apparentemente banali della vita di tutti i giorni, Makhoul racconta la realtà del popolo arabo nello Stato d’Israele, l’identità e diaspora palestinese e i soprusi che subiscono tutte le comunità «vulnerabili» del mondo, per usare le sue parole. Lo abbiamo incontrato per chiedergli cosa significhi essere un palestinese con passaporto israeliano e discutere con lui della sua attività poetica.

EF: Cosa significa essere un poeta arabo e palestinese che vive in Israele?

MM: Ci sono circa due milioni di palestinesi che non hanno lasciato la loro patria nel 1948 durante la guerra tra le organizzazioni sioniste e gli eserciti arabi. Centosessantacinquemila palestinesi sono rimasti a vivere nelle loro città nel 1948 e nel tempo si sono trasformati in due milioni di cittadini. Questo in termini di informazioni storiche, ma in termini di come mi sento come cittadino palestinese o poeta che vive in Israele, credo che non sia certo colpa mia se sono nato nello Stato di Israele.

Sono nato nella mia patria. Israele è lo stato che è venuto dopo e che è stato costruito sulla mia patria, sulla sua cancellazione e sulla cancellazione dei miei antenati. È lo Stato di Israele che è venuto dopo, non sono io che mi sono trasferito in Israele. La mia presenza è legittima. Perché vivo in Israele o perché accetto Israele? Non ho scelto di vivere in Israele, ho scelto di rimanere nella mia patria. La differenza tra patria e stato è enorme. Lo stato è un’istituzione, la patria è la terra, il luogo di un popolo, la sua storia e la sua cultura: io sono rimasto nella mia storia e nella mia cultura continuando a rappresentarne un legittimo membro.

I miei sentimenti a riguardo non sono dei migliori, perché un palestinese che vive all’interno dei territori del 1948, oggi chiamati Israele, è un palestinese che soffre di una crisi: che patria e stato non coincidano e che il popolo, quello palestinese, non governi il proprio paese ma sia governato dalla comunità ebraica.

Vorrei vivere in uno stato di tutti i cittadini; uno stato in cui possiedo gli stessi diritti di qualsiasi altra persona. Non ho gli stessi diritti di un cittadino ebreo. Vorrei vivere in un paese laico, non costruito su base settaria o religiosa. Penso che non ci sia differenza tra Daesh (Stato Islamico dell’Iraq e Siria, ISIS, N.d.T.) e lo Stato ebraico: a mio avviso, sono entrambi stati che si fondano su principi religiosi, ben lontani da uno stato laico. Uno stato civile deve tenere ben distinti le istituzioni statali e la religione. Una delle ragioni dell’arretratezza della comunità araba e islamica è il legame profondo tra religione e stato. Questo è ciò che sento e in cui mi sto impegnando. Alcuni dei miei scritti poetici trattano proprio di questo.

EF: Come si vive giorno per giorno, da persone arabe, nello Stato d’Israele?

MM: Credo che la vita dei palestinesi che risiedono all’interno dei territori del 1948 – all’interno della cosiddetta Linea Verde (linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio del 1949 fra Israele e Siria, Giordania ed Egitto alla fine della guerra del 1948–1949, N.d.T.) – sia migliore dei palestinesi che vivono in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza, e nettamente migliore dei palestinesi che vivono nei campi profughi. I palestinesi che vivono nei territori del 1948 non hanno perso la loro terra, la loro casa. D’altra parte, però, sono cittadini che non godono di tutti i diritti di cui dovrebbero godere in democrazia. Abbiamo visto di recente come lo Stato d’Israele non sia più una democrazia ma una dittatura, che impedisce ai cittadini nei territori del 1948, me compreso, di esprimere la propria appartenenza al suo stesso popolo, di sostenere la propria causa, manifestare per il cessate il fuoco e per fermare l’uccisione dei civili a Gaza.

Gli israeliani vogliono che decidiamo se essere completamente israeliani o completamente palestinesi, ma noi non siamo né l’una né l’altra cosa. Mi spiego: siamo palestinesi a tutti gli effetti tranne che rispetto alla nostra identità civile, intesa come appartenenza nazionale, politica e come vogliamo essere riconosciuti. Siamo israeliani perché viviamo in Israele e abbiamo la cittadinanza israeliana. Non vogliamo rinunciare a questa cittadinanza, perché questa cittadinanza ci permette di rimanere nel nostro paese, nella nostra patria. Vogliamo, però, ottenere tutti i nostri diritti, e questo significa, anche, il cambiamento del nome dello Stato, il cambiamento della sua identità, il cambiamento della sua bandiera, il cambiamento dell’inno nazionale. Solo così questo Stato diventerà lo stato di tutti i suoi cittadini e anche gli altri palestinesi godranno di eguali diritti, che si trovino in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza o nei campi profughi.

EF: Passiamo al tema della diaspora. La diaspora è un elemento che pertiene sia all’identità ebraica che a quella palestinese. In che modo si articola e differenzia tra le due identità? Quali sono gli elementi che distinguono la diaspora nella storia dell’identità ebraica e in quella della storia palestinese?

MM: I musulmani vivono ovunque nel mondo. I cristiani vivono ovunque nel mondo. I buddhisti vivono ovunque nel mondo. Perché gli ebrei vogliono vivere solo in Israele? Perché sostengono che questa terra sia un loro diritto storico, loro e di nessun altro? Se hanno lasciato questo Paese tremila anni fa, perché vogliono tornare in questo Paese che non gli appartiene più, se non in senso strettamente religioso, e sradicare le persone che già vi vivevano tremila anni fa? Tremila anni fa noi eravamo lì come palestinesi.

Perché vogliono sradicarci per il loro ritorno? Io non odio gli ebrei, voglio vivere con gli ebrei perché sono Marwan, una persona non religiosa, e voglio che tutti vivano assieme, ma non sulla base dell’annullamento reciproco. Non voglio che, affinché gli ebrei tornino nella Palestina storica o in uno stato – la Terra di Israele, come la chiamano –, io debba essere sradicato dalla mia casa e il mio popolo debba essere sfollato. Questo avviene da settantasei anni e non è mai stata trovata una soluzione. Questo è il problema e questa è la differenza: Israele è uno Stato di occupazione con il mantello del vittimismo. È l’unica occupazione al mondo che si sente vittima. Non ho alcun problema che il mondo smetta di perseguitare gli ebrei e difenda questa minoranza nel mondo. La soluzione per la difesa di questa minoranza, però, non può andare a scapito del popolo palestinese.

EF: Parliamo adesso della tua attività poetica. Come esprimi i tuoi messaggi sociali e politici attraverso la tua poesia?

MM: Quando scrivo poesie, non penso a inviare messaggi. Scrivo solo poesie. Ciò che emerge dalla mia poesia è che non esprime solo me stesso, ma anche altri. Tutti i palestinesi si sentono discriminati, che vivano all’interno (della Linea Verde, N.d.T.), sotto l’occupazione, a Gaza, in Cisgiordania, o in diaspora. E questo vale per tutte le minoranze vulnerabili del mondo. Questo è l’elemento che caratterizza la mia poetica; qualsiasi essere umano che si trova sotto occupazione o in un luogo che li discrimina come minoranza vulnerabile e i cui diritti non vengono garantiti può provare empatia e identificarsi: i nativi americani, gli abitanti del continente africano, i tibetani, il popolo basco, gli irlandesi, gli scozzesi, i ciprioti, e così via. Non sono solo un poeta politico, però: sono anche un poeta ordinario che scrive di tutto, che affronta tutti gli ambiti della vita.

EF: Quali sono i tuoi modelli? Quando pensiamo alla poesia palestinese, pensiamo subito a Mahmoud Darwish. Ma la poesia palestinese, e quella araba in generale, ha una lunga storia e una ricchissima tradizione. Che impatto ha avuto su di te?

MM: Credo che una persona o un popolo che citi un solo poeta o un singolo modello sia un popolo poco istruito, un popolo con una consapevolezza limitata. È un popolo che imita: imita un poeta, o un cantante, un ballerino, un leader. Un poeta arabo dovrebbe essere come un poeta francese, nella cui tradizione letteraria rientrano decine di poeti, decine di musicisti, decine di artisti e decine di politici. Se ci aggrappiamo a nomi specifici e trasformiamo il creativo o il politico in un dio – un’icona elevata a qualità di star –, è perché non abbiamo particolari successi o raggiungimenti degni di nota.

Io sono come qualsiasi altro poeta: sono influenzato da tutti e non sono direttamente influenzato da nessuno. Sono influenzato da tutti a più livelli e in vario modo, proprio come nella vita negli ambiti più diversi.

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