Su “Arca di Noè” di Gianna Manzini

Nota di lettura a cura di Eleonora Negrisoli.

Copertina di Arca di Noè di Gianna Manzini

Nella primavera di quest’anno Rina Edizioni ha ripubblicato Arca di Noè, raccolta di racconti di Gianna Manzini ormai da decenni fuori catalogo. I racconti erano già, in parte, apparsi in Animali sacri e profani (Casini, 1953), ma trovarono la loro versione definitiva nell’edizione Mondadori del 1960, con il titolo Arca di Noè.

L’operazione editoriale di Rina sembra collocarsi entro due tendenze critiche ben precise. La prima riguarda il recupero di autrici dimenticate o escluse dal canone letterario, a cui la critica e l’editoria italiana e internazionale stanno finalmente dedicando crescente spazio. Rina Edizioni, appunto, nasce con questo esatto obiettivo, come ci ricorda il Manifesto posto in calce a tutte le pubblicazioni della casa editrice. Riscrivere la storia letteraria si configura come azione necessaria per restituire voce a chi è stata tolta e, quindi, per guardare al contemporaneo da un altro punto di vista, adottando una stortura imprescindibile per la comprensione della sua complessità. Cambiare postura, dunque, ma anche cambiare forma: per stare dentro questa complessità occorre assumere una struttura rizomatica. Si assiste infatti – ed ecco la seconda tendenza – a una crescente ibridazione dei saperi. Tra le varie relazioni possibili – con i femminismi, la teoria queer, gli studi postcoloniali, e così via –, la critica letteraria stabilisce connessioni anche con l’ecologia e gli animal studies. E qui arriviamo a Gianna Manzini, che in tempi non sospetti aveva scritto di animali[1] attraverso uno sguardo inconsueto.

Benché i racconti dell’Arca di Noè riflettano una prospettiva antropocentrica e specista (implicita nella forma mentis novecentesca), il continuo riferirsi in modo didascalico a certe pratiche umane che violano la soggettività animale – ad esempio la caccia, la pesca, la sperimentazione scientifica – provoca nel lettore la sensazione dello straniamento. Questo meccanismo narrativo riesce a decostruire la percezione automatizzata che ci abitua a considerare gli animali proprietà dell’umano. È normale, leggendo Manzini, domandarsi che effetto faccia a una trota moribonda giacere su un piatto, oppure pensare alle gabbie dello zoo come prigioni, o ancora definire l’invenzione del cappone sopruso e delitto: è la narratrice-autrice a dichiararcelo. Il suo sguardo si posa sugli animali con interesse quasi scientifico, nel tentativo di comprendere i gesti di creature vicine ma sconosciute: «che festa,» – scrive in Il mio bestiario, prefazione alla raccolta – «sapere esattamente, con precisione, in tutte lettere, che cosa vuol significare un’ala quando appena si solleva e si ricompone serrandosi»[2].

Nei racconti la relazione tra umano e animale si consuma quasi interamente nello sguardo (John Berger, parecchi anni dopo, scriverà Perché guardiamo gli animali?), ed è attraverso quella osservazione che la scrittrice individua nel legame con gli animali «qualcosa di più vasto e segreto»[3]. Essi sembrano custodi di un qualche sapere iniziatico, di un oltre a cui in pochi, capaci di incanto e compassione, possono accedere: «ecco che, non si sa come, un granello di vita ignorata vien proiettato di sorpresa al centro di una splendente emozione. Queste fortune capitano di rado; a me, di tanto in tanto con gli animali. Fortune; non arbitrii coscienti; non invenzioni»[4]. Manzini intuisce nell’alterità animale la possibilità di aprirsi a una verità nascosta, a un mistero di cui queste creature, seppur attraverso il silenzio, si fanno messaggere.

Emilio Cecchi aveva definito Manzini animalista[5], e questo ci dice molto sull’originalità che la sua scrittura deve aver rappresentato per la letteratura italiana. Tuttavia, il rischio di sovrainterpretazione è molto alto: nell’Arca di Noè non c’è un messaggio politico esplicito, né è facilmente desumibile come invece in altre opere sul tema animale. È però indubbio che in questo bestiario l’esistenza animale venga riconosciuta al di là di quella umana, invertendo automaticamente la tendenza che ci ha abituato a considerare gli animali oggetti da asservire. Manzini non esorta a adorare gli animali, né proteggerli, ma mi sembra significativo concludere con la potente metafora contenuta nel penultimo testo della raccolta, Il sangue del leone. La protagonista fa un sogno ispirato a un episodio agiografico, rappresentato su una sua vecchia cartella da scrivere: San Girolamo si reca nel deserto, dove resta per tre anni. Qui, un giorno, arriva un leone che mette in fuga quasi tutti i monaci. Girolamo rimane e, riconoscendo nella zampa del leone una spina, gliela leva e cura la ferita.

L’immagine a cui probabilmente Gianna Manzini fa riferimento nel racconto Il sangue di leone: Giovanni di Paolo (Siena, 1403-1482), San Girolamo medica la zampa del leone, 1436, 44,5 x 32 cm, Archivio di Stato di Siena.

[1] Per comodità, da ora in avanti con il termine “animali” ci si riferirà a tutti gli animali non-umani.
[2] G. Manzini, Il mio bestiario, in Arca di Noè, Rina Edizioni, Roma 2023, p. 8.
[3] Ivi, p. 6.
[4] G. Manzini, Pascolo a Carbonin, in Arca di Noè, cit., pp. 141-142.
[5] Cfr. E. Cecchi, Manzini animalista, in Letteratura italiana del Novecento. Vol. 2, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1972, pp. 926-928.

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