Un altro nuovo mondo

Racconto di Roberto Pedotti.

Informe, senza nome, con tutti i nomi. 

«Agid Böhm, Germania. Luogo di nascita: Magdeburgo. Quindici anni di servizio. Dipartimento: astrofisica teorica. Famiglia: assente. Sei stato scelto per il quindicesimo lancio. Congratulazioni». Lo sguardo del rettore gli fa capire quanto sia importante per lui quest’ultima nomina.

L’anno è irrilevante, ma non lontano. L’umanità, sopravvissuta a ogni suo tentativo di uccidersi da sola, vede per la prima volta dall’Osservatorio di Greenwich qualcosa di ben strano: sette punti nel cielo, quasi contemporaneamente, brillano intensamente di una luce azzurrina, per poi dileguarsi nel firmamento. La squadra di astronomi che assiste all’evento la chiama convergenza, la definisce come una coincidenza, tra le infinite casualità dello spazio infinito. 

Ma il giorno dopo, altre ventiquattro stelle scompaiono. 

«Heat death», e mentre lo dice non gli sembra che esca alcun suono dalla bocca. Immagina invece di aver creato una bolla, ripiena di parole e significati: in tedesco quel termine ne ha così tanti

«Ma che bel bambino, come si chiama?»

«Agid. Agid, dài, di’ ciao alla signora».

Suo padre lo spinge in avanti dolcemente, gli strofina la nuca per rassicurarlo, ma Agid si mette le mani davanti alla bocca e corre a nascondersi dietro le sue gambe imponenti, grandi come la più grande quercia del mondo. Anni dopo, al liceo studia di Yggdrasil, l’albero mitico che tiene il mondo intero, e pensa alle gambe del padre, impiantate salde per terra. 

Kauer Böhm è sdraiato su un letto di ospedale. Non vede più – dice la dottoressa –, il tumore gli ha preso gli occhi. Papà sta morendo fra mura ingiallite. Papà che quando aveva avuto la varicella gli aveva regalato una piccola mappa del sistema solare ed era stato con lui tutto il tempo a raccontargli dei curiosi altri nuovi mondi che aspettavano dall’altra parte di esser scoperti. Papà che aveva sorriso sentendogli dire per la prima volta che voleva studiare le stelle, papà.

Agid pensa a Yggdrasil e alle sue gambe che non riesce più a vedere, fra le coperte pesanti, mentre gli carezza la barba incolta. Nella sua mente, là sotto le radici corrono a impiantarsi nelle fondamenta dell’ospedale e più in fondo ancora, fino ad arrivare al nocciolo della terra. 

Nocciolo. Nüss. Hasselnüss. Nocciola. Ed eccola davanti ai suoi occhi in mezzo alle figure informi, dove tutto cambia, il guscio scuro e lucido che riflette la luce (che luce? Da dove arriva questa luce?) E sembra, no, è la stessa che aveva gettato nel fiume con lei la notte che era partita. 

Il tonfo quando cade in acqua sembra coprire tutti gli altri rumori del bosco. Anche lei lo avverte, si guardano e senza capire perché ridono. 

Ha le labbra strette e le iridi verdi costellate di satelliti castani, che si illuminano di luce propria mentre gli parla di microbi e tardigradi e ambergris. Lui la guarda come se fosse un miracolo. Per un attimo non gli interessa nulla dello spazio, delle stringhe, delle stelle di neutrini, rivede l’enormità del tutto nella sua pelle liscia e scura e preferisce gettarsi in lei che in una navicella verso il vuoto, che in quel momento gli appare freddo, freddissimo. 

Quando si rivestono le chiede se è sicura di partire, spera non confessandolo in un suo ripensamento, ma lei risponde che è deciso, che ha già comprato il biglietto e che la sua vita la attende là, lontano, che oltreoceano ci sono cure sperimentali nuove, e che anche non fosse, ci sono tante piccole bellezze che deve ancora scoprire. Che vuole ancora scoprire.

Rialzandosi, ansima, ma non smette per un attimo di fissare Agid, come se stesse forzando il suo cervello a fotografare le sue borse sotto gli occhi, i lineamenti scavati e le cicatrici dell’acne, tutti i dettagli che lo rendono una persona, e non un’idea. Gli dice che è meglio così per entrambi, che se restasse lui non si dedicherebbe al suo obiettivo, toccare le stelle con mano. Racconta una storia che suona falsa ad entrambi, su come sia meglio andarsene quando c’è ancora amore. Gli carezza la guancia, gli lancia un’ultima occhiata, coi suoi occhi profondi e vasti, lo spazio fra due corpi celesti, lo stesso che lui sente sta per crearsi fra loro due .

 «Promettimi di dirmi cosa c’è al centro di tutto quando ci sarai arrivato».

Heat Death. 

E la nocciola si apre e al suo centro danza una fiamma ardente, ma più Agid la fissa, più tremola incerta. 

È su tutti gli schermi, su tutti i giornali. Heat death, la fine del ciclo del nostro universo, una serie di reazioni a catena che partono dalle sue estremità per arrivare al suo centro, nell’occhio. Ogni sole innesca una supernova, ingloba i pianeti circostanti per poi scomparire dalla mappa. In meno di venti giorni, quattrocentoventi sistemi solari vengono osservati estinguersi. 

Ma si calcolava che mancassero milioni di anni.

I calcoli erano sbagliati.

Tempo stimato perché succeda al sistema Helios: meno di due anni.

Possibilità di impedirlo:

Nessuna. 

La fiammella muore. Intorno tutto si fa buio, ma Agid lo sente muoversi ancora. Come scosse telluriche, sente che non ha ancora finito di vivere. Scalcia, ma manca poco, manca poco. 

Qualche ricco e potente crea delle capsule fatte per resistere al vuoto siderale, iper-reattive e dotate di ogni comfort. Dittatori, CEO e presidenti vengono avvistati catapultarsi oltre l’atmosfera senza alcun preavviso, puntini che veloci scompaiono e tornano al niente.

Ma il mondo non cade in preda al caos. Nelle città e nei paesi la gente si riunisce. Canta, gioca, ride, fa l’amore, si abbraccia. Questa volta tutti sanno che non c’è fuga, che il più forte farà la stessa fine del più debole, e si ama di più.

Accademie, istituzioni, governi si stringono in un ultimo interrogativo: le più grandi menti del pianeta si trovano per la prima volta nella storia a concordare sul fatto che prima della fine è necessario sapere cosa ci sia nell’Occhio dell’Universo, nel suo centro rovente. Lo chiamano Dio, il Tutto, il Nucleo Quantico delle possibilità, l’Uovo, ma il nome non importa più. I lavori per creare i veicoli da scagliare nel vuoto procedono veloci, velocissimi, perché chi lavora vuole aiutare a trovare l’ultima risposta e sacrifica tutto con mani sporche e felici.

Agid è fra i primi a iscriversi al programma, supera tutti gli esami con il massimo dei voti, pensando a suo padre e a lei, pensando che deve a loro ogni cosa, e non si risparmia.

«Agid Böhm, Germania. Luogo di nascita: Magdeburgo. Quindici anni di servizio. Dipartimento: astrofisica teorica. Famiglia: assente. 

«Sei stato scelto per il quindicesimo lancio».

Agid sta cadendo ma non esiste un terreno su cui atterrare. Sente il clamore dei balli sulla Terra e l’utero di sua madre morta durante il parto. Agid cade e continua a cadere, senza appigli

Salendo sulla rampa di lancio, vede Mark correre verso di lui. Incurante delle norme di sicurezza, strattona le guardie e il pubblico per avvicinarsi. 

«È morta, Agid. Erano anni che il cuore giocava a dadi con lei. Mi ha chiesto di ricordarti della promessa». E il cuore di Agid ora gioca a dadi con lui, si inabissa, ma non cambia rotta. I passi dentro la scatola in titanio e speranza non sono meno decisi. 

Quando si stacca da terra, la navicella è un pennello leggero, e traccia fra le nuvole i suoi occhi. 

I piedi di Agid, astrofisico e astronauta, non toccano terra, ma non sente più di stare precipitando. Le contrazioni intorno a lui si sono fatte più lente. Attorno, sagome aliene si mischiano a immagini familiari. Un letto di ospedale, una nocciola, un libro di mitologia nordica. 

È a metà strada, a migliaia di anni luce da casa, che una voce elettronica lo avverte:

«Attenzione. La massa di Helios ha superato il limite critico di stabilità. Collasso imminente».

Non la vede, Agid, la fine di tutto quel che ha conosciuto. Non riesce nemmeno a immaginare il sole, che in un agosto lontano brillava mentre lui correva con uno shuttle giocattolo in mano, rinchiudersi nella grandezza di una nocciola e poi esplodere in una luce bluastra, catturando nel suo abbraccio il golfo di Palermo, le montagne dell’Oklahoma, i boschi di Magdeburgo.

Mentre il computer urla, lui torna alle gambe del padre e agli occhi di lei, a Yggdrasil, le cui radici salde non possono cedere nemmeno davanti all’esplosione del sole.

E continua verso la meta. 

Tutto tace.

Agid si sorprende a udire il suo respiro all’interno del casco. Nel silenzio cosmico, suona come quello di un gigante risvegliatosi da un sonno lungo millenni. Lo trattiene per qualche secondo ma appena si accorge quanto sia spaventoso non avvertire niente, comincia a respirare angosciosamente. 

Agid iperventila, cade nel panico, si contorce al posto dell’Universo, forse credendo di starlo salvando, di starlo invitando a ballare con lui, a scuoterlo, a reagire. Ma l’universo è silente.

La navicella passa attraverso la polvere di sistemi consumati. Dallo schermo il pilota vede nastri di luce carezzare le pareti del vascello, avvista forme tetradimensionali fissarlo curiose, lingue di tenebra che si accoppiano con batteri impossibilmente enormi, meraviglie e terrori che non riesce a descrivere e che gli bucano la testa se tenta di concentrarsi. Tutti lo lasciano andare, e lui si racconta sia perché anche loro capiscono dove sta andando, si convince lo stiano incitando verso la meta, gli stiano dicendo che manca poco, ancora poco, scimmia col casco, sei quasi arrivata. 

E Agid, ultimo pilota, ultimo essere umano, scorge l’Occhio dell’Universo, distante e allo stesso tempo vicinissimo: è un buco rigonfio, solcato da fulmini solidi che si imprimono e si spezzano in altri multicolore, è un cerchio perfetto senza geometria, un punto minuscolo che avvolge l’orizzonte, un trucco ottico che rimane dopo averlo lasciato, porte del Paradiso e voragine infernale. 

Si dimena, Agid, primate di cromosoma XY, sente di non essere più del tutto vivo. 

È a quel punto che la nave si incrina. Le pareti si piegano, cambiano di materia, decadono, diventano di legno, poi di pietra, poi di leghe sconosciute e irreali, di colori nuovi ed estranei che si sfaldano e si ricompongono, e Agid avverte le ossa scricchiolare e gli occhi cuocere dentro le orbite, il cervello congelarsi, contrarsi ed espandersi toccando il cranio.

Agid sa di stare morendo, ma spinge i propulsori, la tuta, le gambe, la mente, spinge ogni cosa mentre perde il controllo lanciandosi verso l’orizzonte degli eventi e solo quando sa di essere oltre si abbandona alla presa dell’Occhio.

Agid si schianta contro il cielo. 

*

C’è della terra sotto il suo palmo. È umida e calda, e fili di erba dondolano in mezzo alle sue dita. 

Si alza, confuso. Ricorda di esser caduto e di aver volato, ricorda di essere morto. Si rende conto di esserlo in parte. 

L’odore di legno vecchio come il mondo invade le sue narici, e senza pensare al come, capisce dove si trova: sono i boschi attorno a Magdeburgo. Querce e faggi e salici piangenti lo accolgono a casa. Agid si toglie il casco, inspira. L’ossigeno non riciclato gli fa salire le lacrime agli occhi, ed è solo quando con il dorso del guanto le scosta che le vede tutto intorno a lui.

Fra i tronchi aleggiano migliaia di luci minuscole, ciascuna non più grossa di un granello di sabbia. Vorticano senza peso e si condensano in galassie delle dimensioni del suo volto.

«Sono meravigliose», e la sua voce ora echeggia fra gli alberi e non fa più paura. 

Corre Agid entusiasta a esplorare la mappa del cosmo, senza metodo e con un bisogno infantile, piange e le gocce si impigliano fra la polvere di stelle, e così non si rende conto che ai lati della foresta il bagliore si sta spegnendo, prima lentamente, poi senza pietà. 

Quando se ne accorge, impazzisce. Corre furioso a vedere le luci, tutte le luci, bestemmia e sa che il tempo è già scaduto.

Le afferra con più cura che può, le tiene accanto ai suoi occhi, ma ogni fiocco che gli muore davanti è minuto e splendido e terribile, troppo intricato perché possa capirlo in una vita che non ha già più. Le parti di un telaio impossibile si sgretolano in polvere fra i polpastrelli.

Agid Böhm, tedesco, nato a Magdeburgo, quindici anni di servizio, del dipartimento astrofisica teorica, ultima persona in vita, capisce meno adesso di quando era partito. Si mette le mani davanti alla bocca, ma non ha gambe imponenti dietro cui nascondersi. Sotto il terreno le radici di Yggdrasil, vecchie, stanche, hanno lasciato la presa. Rivede suo padre entrare in camera, in piena notte, per sedersi al lato del letto e sussurrargli che è tardi, che c’è tempo domani per leggere di tutte le stelle distanti, di spegnere la luce ora. Chiede a entrambi altro tempo, ancora un attimo, per favore.

Ma la foresta non ha orecchie per ascoltare, e resta una fiamma solitaria accanto al fiume. Oltre, non c’è più nulla.

Così, Agid si appoggia al tronco che sa esser lo stesso vicino al quale con lei aveva fatto l’amore, e si accascia. 

Nel momento in cui l’ultimo tizzone si spegne, chiude gli occhi, e quasi gli sembra di sentire qualcuno accanto, col viso poggiato sull’incavo della spalla. 

Un fascio di nervi brilla in un’ultima striscia di messaggi, simile al calore di una carezza alla guancia, a una mano strofinata sulla nuca. Un rumore di foglie toccate dal vento attraversa le tenebre.

E una costellazione di immagini implode ai margini del cervello. Le illustrazioni di un libro mutano nelle radici di un albero nascoste da lenzuola d’ospedale. Labbra strette in un sorriso triste si affiancano a satelliti castani trasformati in cenere. Le dita di un bambino mentre tentano di afferrare il cielo dipinto sul soffitto di camera sua.

Agid tende qualcosa, le ultime sinapsi che restano gli suggeriscono “mano”, anche se mani non ne ha più, prova a raggiungerlo ancora una volta.

Poi la lascia andare.

Agid non aprirà mai più gli occhi, eppure vede chiaramente la nocciola sul fondo del fiume,

il seme del prossimo Yggdrasil.

Agid vede.

Lo vede.

Un altro nuovo mondo, sbocciato nel solco del vecchio.


Roberto Pedotti è insegnante, traduttore e giornalista. Scrive poesie e racconti, e cerca di trovare le poche giuste parole con cui esprimersi (spesso fallendo). Adora le incomprensioni e gli anagrammi, e infatti online lo si trova come @orbiteprodotte.

Su “La verità e la biro” di Tiziano Scarpa

Nota di lettura a cura di Lavinia Ceci.

Autore prolifico e discusso, Tiziano Scarpa ha recentemente pubblicato per Einaudi il suo ultimo lavoro dal titolo La verità e la biro. Dico lavoro perché, a ben vedere, tale titolo difficilmente rientra nella tradizionale categoria di romanzo, quello fatto di trame e personaggi. Infatti, come l’autore stesso specifica con un’«Avvertenza» ad hoc in apertura, il racconto segue una sorta di collazione di «fatti accaduti anni fa e altri abbastanza recenti»; fatti, appunto, che precedono «quella diagnosi» su cui l’autore non si dilunga ma che lascia come «sottinteso di ogni parola», un sottofondo dagli «accesi toni azzurro cielo o rosso sangue». In sostanza, La verità e la biro appare alla penna dell’autore come un richiamo all’ordine, una ricognizione personale, un tentativo di intrecciare in nome del Vero i due grandi temi della sua poetica: il sacro della filosofia, dell’arte e del bello; il profano dell’indagine nei più materici aspetti dell’esistenza umana e nei rapporti che in essa si iscrivono. Eppure, sono gli occhi del lettore il vero target della riflessione: strumenti in grado di decifrare e progressivamente svelare le verità – tali o presunte – di cui l’autore dissemina il testo, quasi nel tentativo di prodursi in un’estrema confessione, quasi un denudarsi, che assume i drammatici connotati della summa filosofica.

Il testo ha un’impostazione diaristica, struttura che permette all’autore di muoversi liberamente all’interno delle questioni discusse, lavorando tanto per associazioni paratattiche di idee quanto in forme concentriche: spesso una riflessione tira l’altra, generando un sistema di parallelismi e variazioni che, pur nella loro incostanza, mostrano una logica di fondo che segue il fil rouge della verità e della sua confessione, intendendo «apertamente affrontare la questione della verità, [de]le cose che si possono dire e quelle che è meglio tenere segrete per non sgretolare la società». D’altro canto, l’impostazione diaristica ha una sua deontologia della verità, e l’autore la prende a monito e regola per costruire l’impalcatura del discorso. Discorso che procede entro la narrazione di un duplice viaggio: quello estivo in compagnia della consorte Lucia, in una Grecia spaccata tra il consumismo dei villaggi turistici e le reminiscenze filosofiche della Grecia Antica di pensatori e poeti; quello più intimo e personale di rilettura della propria esistenza, dall’infanzia all’età adulta, con annessa confessione di fatti ed eventi veritieri e particolarmente segnanti.

In tale articolata dinamica, che lavora in modo ondivago tra passato e presente, teorico e pratico, Scarpa dissemina i suoi strampalati spunti di riflessione, fornendo spesso quadretti bassi e triviali: il sesso orale praticato da una studentessa di filosofia, donna le cui parole avevano sempre un ché di vero, almeno a detta dello scrittore, «perché me le raccontava lei stessa, di persona»; la spiaggia nudista su cui approda con la moglie; il catechista pedofilo; il consumismo della Grecia turistica. La riflessione sulle figure femminili appare quella più insistita: le diverse ragazze menzionate nel romanzo, tutte senza nome, assumono agli occhi dell’autore oramai anziano il ruolo di mistiche portatrici di verità quotidiane, che vengono in un certo senso “consumate” al pari dell’atto sessuale. La studentessa di filosofia, quella di letteratura russa, la ragazza dagli occhi spiritati scatenano, nel distratto e quotidiano loro mettersi a nudo dinanzi a un uomo, riflessioni profonde che dialogano col presente dell’autore in un progressivo disvelamento di verità taciute o nascoste. Ovviamente, si tratta di un meccanismo tutto interno alla mente dell’autore, rispetto al quale il contatto con queste figure è puramente funzionale: le donne non vengono assunte a divulgatrici di queste piccole verità, ma sono semplici evocatrici, le cui azioni o parole inducono realizzazioni intime e veridiche nel profondo dell’autore; rivelazioni che rimangono ancora nella memoria fortemente agganciate all’eccentricità sessuale di queste donne, la cui sola esistenza si fa ispirazione.

L’aggancio alla dimensione filosofica si verifica proprio nel momento di massima assolutizzazione di questi quadretti, in cui Scarpa adulto si ritrova a riflettere; e riflette sui significati profondi di certi comportamenti o frasi casuali delle sue compagne o delle persone che ha incontrato; o più semplicemente lo fa quando si sente particolarmente ispirato perché in contatto con le anime di autori e pensatori classici. In tale intreccio, l’aspetto forse più interessante riguarda il rapporto col lettore. L’acquisizione di queste verità illuminate, infatti, verrebbe presentata da Scarpa all’interno di una forma narrativa che vede la riflessione inserita all’interno di una vera e propria sovrariflessione, vera struttura del romanzo. Le verità giovanili, estrapolate dalle discussioni postcoitali con donne senza nome, acquisite a seguito di ripensamenti e nuove interpretazioni di fatti ed eventi passati, diventano la base per la costruzione di un romanzo che è di per sé una continua ricerca di verità, che si palesa agli occhi dell’autore e del lettore quasi nello stesso momento. Verità, vera o presunta, perché di un romanzo si tratta e giustamente Scarpa ne rispetta i canoni: «poter essere libero di scrivere la verità che comprende anche le mie fantasie, le storie inventate che ho pubblicato».

Sole nero

Racconto di Martina Faedda.

La spiaggia era coperta di ciottoli, si facevano via via sempre più piccoli fino a diventare sabbia dentro all’acqua. Antonio e Francesco giocavano a pallone sulla battigia, con i piedi scalzi e i calzoni arrotolati sulle caviglie; intanto Aurora e Camilla avevano sparso barbies e altre bamboline tra le pietre. Le loro madri, poco distanti, prendevano i primi raggi del sole primaverile senza perderli di vista. Mentre Camilla le mostrava tutti i vestitini di ricambio che aveva ricevuto per il compleanno, Aurora guardava il fratello in lontananza.
“Anche io voglio mettere i piedi in acqua”, disse.
A Camilla però non andava. “Mi dà fastidio la sabbia che si appiccica tra le dita quando mi rimetto le scarpe.”
“Allora chiediamo se vengono a giocare a palla con noi, senza bagnarci i piedi.”
“Non possiamo giocare con le bambole? Io mi vergogno, non sono brava a calcio.”
“Dai, mi annoio.”
Camilla sbuffò.
“Uffa. Va bene”.
Le due bambine si diressero verso i rispettivi fratelli, lasciando le madri a recuperare tutti i giochi mollati in giro. La tramontana accarezzava loro le guance arrossate dal sole.

“Sai che se hai bisogno puoi chiamarmi quando vuoi, vero?”
“Grazie. Sarà strano tornare a lavoro e non passare più tutto questo tempo con loro.” disse Rachele, la mamma di Aurora e Antonio, voltandosi a guardare le teste bionde dei suoi figli che giocavano insieme agli amici. I riflessi tra i loro capelli cominciavano a schiarirsi in primavera, per diventare quasi bianchi a fine estate. Lei era più scura, li avevano presi dal papà.
“Però ne hai bisogno. Devi riprendere a fare qualcosa per te.”
“Lo so.”
“Loro come stanno reagendo?”
“Non malissimo. Aurora fa un po’ più fatica. Non vuole andare a dormire, fa gli incubi, la pipì a letto. Mi sveglia quasi ogni notte.”
“Ha cinque anni, penso sia normale, vista la situazione.”
“Può darsi.”
Rimasero in silenzio qualche secondo, una nuvola solitaria aveva coperto i raggi del sole.
“E Antonio?”
“Lui va meglio, però è molto nervoso. Sua sorella lo infastidisce, prima di venire a svegliare me prova a mettersi nel suo letto come quando erano più piccoli. Tre anni di differenza non sono così pochi. Sto pensando di dividerli in due stanze.”
“Aurora non la prenderebbe male?”
La conversazione fu interrotta bruscamente da un grido acuto che si tramutò immediatamente in singhiozzi. Aurora era per terra sui ciottoli che piangeva, mentre Camilla cercava di consolarla.
“Che è successo?” domandò Rachele spazientita.
Aurora si strofinò via le lacrime dagli occhi con il dorso della mano. “Antonio mi ha spinta!”
“Sei una lagna.” Si lamentò il ragazzino. “Stavo solo riprendendo la palla, non l’ho spinta giuro.”
La madre la afferrò da sotto le ascelle e la tirò in piedi, poi le pulì la gonna blu dalla polvere dei sassi con delle brusche manate. “Dai, non è successo niente” disse Antonio alla sorella, a voce più bassa. La bambina tirò su col naso e fece cenno di sì con il capo.
La madre di Camilla e Francesco li raggiunse e propose di andare a prendere il gelato, lanciando un’occhiata di complicità a Rachele. Tutti i bambini acconsentirono felici, specialmente Aurora, che si era già dimenticata dell’accaduto e sorrideva entusiasta, con le ciglia ancora appiccicate l’una all’altra per le lacrime.
“Grazie” disse Rachele, seguendo i bambini che correvano verso la gelateria.

Il giorno dopo, Aurora e Camilla erano sedute in due seggioline verdi al tavolo dell’asilo e coloravano concentrate sui loro disegni. Nel foglio di Aurora, quattro figure stilizzate giocavano a palla: una mamma, un papà, e due più piccole coi capelli dello stesso giallo del sole, il cerchio nell’angolo in alto a sinistra. In quello di Camilla, invece, due bambini si tenevano per mano, le braccia due righe rosa e la mano un unico pallino. Camilla finì di disegnare il cielo, un rettangolo azzurro in tutto il confine superiore del foglio, poi si alzò, si diresse verso la cattedra della maestra e le mostrò il disegno. Dopo qualche secondo tornò trionfante dall’amica e glielo porse.
“Lo puoi dare ad Antonio? Glielo regalo”, disse Camilla, sventolando il foglio.
Aurora prese il disegno. “Perché lo vuoi regalare a mio fratello?” chiese stizzita.
“Perché lo amo e voglio che diventiamo fidanzati.”
“Ma lui è grande, ha otto anni!”
“Anche mio papà è più grande di mia mamma.”
Aurora infilò il foglio nel suo zainetto, spiegazzandolo.
“Così lo rovini!”
“Tanto è bruttissimo.”
Gli occhi di Camilla si fecero umidi. “Antipatica”, sbottò, e corse dalle altre bambine che giocavano con gli animali di plastica nel morbido tappeto dell’aula.
Aurora rimasta sola guardò il suo disegno, che ancora doveva finire di colorare. Le quattro figure avevano gli stecchetti delle braccia protesi verso la palla, che sospesa per aria sembrava un altro sole, nero, al centro del cielo, proprio sopra la testa del padre.

Quella sera, dopo cena, Antonio giocava al game boy sul divano e Aurora era seduta per terra davanti a lui che guardava la televisione. Rachele, in cucina, preparava le loro merende per il giorno seguente.
Aurora si alzò e andò a sedersi vicino al fratello, poi si protese sopra la sua spalla per vedere meglio lo schermo.
“Posso giocare con te?” chiese dopo un po’. Il fratello annuì senza distogliere lo sguardo dallo schermo. “Appena perdo ti faccio fare una partita.”
L’omino vestito di rosso correva in avanti saltando gli ostacoli e i mostri che arrivavano in direzione opposta. Saltò su dei mattoncini sospesi in aria, poi di nuovo giù e riprese a correre, fino a che un salto sbagliato non lo fece schiantare contro un nemico e il gioco si interruppe.
“Tocca a me!” disse Aurora.
“No, non ho proprio perso, sono solo tornato indietro, ora ricomincia.”
“Non è vero, hai perso, hai detto che potevo giocare!”
“Anto, falle fare una partita, dài” ordinò la madre entrando nella stanza.
“Appena perdo la faccio giocare” sbuffò lui.
Rachele sistemò le merende dentro i loro zainetti e trovò in quello di Aurora il disegno. “Che bello questo disegno. Chi sono?”
“Siamo io e Anto, l’ho fatto per lui.”
La madre la guardò sorpresa. “E perché ti sei disegnata coi capelli scuri?”

“Così.”
Rachele voltò il foglio. Sul retro del disegno la maestra aveva scritto la data e una dedica: Per Antonio da Camilla.
Il videogioco tra le mani di Antonio strombazzò in segno di game over e lui lo passò alla sorella.
“Sei sicura che l’hai fatto tu questo?” continuò Rachele.
Aurora nascose lo sguardo nello schermo, senza rispondere.
Antonio si alzò e andò dalla madre. “C’è scritto che l’ha fatto Camilla! Sei una bugiarda” disse correndo nuovamente sul divano e strappando il gioco di mano alla sorella.
“Cosa ti importa?” gli urlò Aurora, con gli occhi pieni di lacrime, a pochi centimetri dalla faccia.
La madre si avvicinò e alzò la voce per richiamare la loro attenzione. “Basta. Smettetela subito. Aurora, non si dicono le bugie!”
La bambina cominciò a singhiozzare e ansimare, le lacrime le si rovesciavano copiose sulle guance.
“Aurora, basta piangere.”
La bambina si alzò dal divano e corse fuori dalla stanza, sbattendosi la porta del salone alle spalle. Rachele la seguì fino alla cameretta. Era sdraiata nel suo lettino con tutte le luci spente e la trapunta di Winnie the Pooh tirata fin sopra la testa. “Posso?” le chiese sulla soglia.
“No. Vattene via!” rispose la bambina, con la voce ovattata dalle coperte.
“Aurora, stai facendo i capricci. Si vede che sei stanca, almeno stanotte dormirai. Buonanotte.”
La bambina non rispose e la madre uscì. 

Poco dopo Antonio entrò nella stanza e si infilò nel suo letto, appoggiato alla parete opposta di quello della sorella. Aurora, ancora rifugiata, singhiozzava flebilmente.

“Auri? Sei sveglia?”
“Sì.”
Antonio accese una luce.
“Perché hai rubato il disegno di Camilla?”
“Perché non voglio che vuoi più bene a lei.”
“Ma io mica le voglio bene. È lei che ha fatto un disegno per me, non io.”
“Non mi importa, non voglio che ti faccia i disegni.”
“Tanto era bruttissimo.”
Aurora si scoprì la testa, ridacchiando. “È vero.”
“I tuoi disegni mi piacciono molto di più.”
“Domani finisco di colorare il mio e te lo porto.”
“Va bene. Buonanotte Auri.”
“Buonanotte Anto.”
Antonio spense l’abat-jour sul suo comodino. Dopo qualche secondo sentì nuovamente la voce della sorella, che lo chiamava.
“Anto?” sussurrò lei.
“Dimmi Auri.”
“Posso venire nel letto con te?”
Lui sospirò “Va bene, ma solo questa volta.”
Le fece spazio tra le coperte mentre lei si incastrava dentro al lettino per bambini dove in due, ormai, stavano stretti.

Io abbreviazione di Dio. Una lettura de “Le schegge” di Bret Easton Ellis

Nota di lettura a cura di Simone Salomoni.

Su Le schegge, ultimo romanzo di Bret Easton Ellis, è già stato scritto molto e il contrario di molto: il capolavoro dello scrittore californiano, l’ennesima riscrittura del solo romanzo che lo scrittore californiano ha scritto nella sua carriera, Ellis al massimo del suo splendore, Ellis al massimo della sua sciatteria stilistica.

Quello che mi interessa fare qui (per altro non so dire se Le schegge sia un capolavoro, se sia il capolavoro di Bret Easton Ellis, mentre sono anche io convinto che Ellis abbia scritto un solo romanzo – come quasi tutti gli scrittori: la differenza è che Ellis lo fa in maniera più spudorata e quindi onesta – e cercato a ogni riscrittura la forma finale di sé: ho l’impressione che ora sia riuscito a raggiungerla e gli auguro di potere spurgare il suo male), non so se è stato fatto altrove, non mi pare, è riflettere su come Bret Easton Ellis si ponga, si muova – come scrittore ma anche come vivente: per BEE le due cose sono più che per altri inscindibili – si mimetizzi e si esponga all’interno di un romanzo come Le schegge, romanzo che potremmo con una certa sicurezza inserire nel novero delle cosiddette autofinzioni.

Partiamo da un fatto evidente: Ellis ci ricorda costantemente di essere uno scrittore, lo fa ogni dieci pagine per oltre settecento pagine e in maniera neanche troppo velata, lo fa a partire dallo splendido, davvero splendido, incipit e pertanto, se questa è la sua autobiografia di uno scrittore dobbiamo allora leggerla ricordandoci che per lo scrittore, come scriveva Rimbaud, io è – SEMPRE – un altro.

Chi è allora io per Bret Easton Ellis ne Le schegge? Io, innanzitutto, è abbreviazione di Dio, e Ellis gioca e quasi porta all’estremo l’idea facendosi Dio e demiurgo del proprio mondo narrativo, e mi pare lo faccia servendosi principalmente di tre personaggi, tre protagonisti, se vogliamo: il suo doppio narrativo, Bret, autore e narratore e protagonista de Le schegge, Robert Mallory, lo studente nuovo arrivato affetto da problemi mentali, nemesi dello stesso Bret, e The Trawler, tradotto da Giuseppe Culicchia con Il pescatore a strascico, sadico e misterioso serial killer che impera su Los Angeles.

Bret, Mallory e The Trawler sembrano a un primo sguardo, e senza possibilità di smentita, tre personaggi diversi, separati, monadi indipendenti l’una dall’altra che si muovono all’interno dello stesso spazio narrativo. Fin dalle prime pagine, però, Ellis insinua il dubbio che Mallory possa essere The Trawler o quantomeno che la sua apparizione a Los Angeles sia collegata all’apparizione e agli omicidi del Pescatore a strascico: “E poi naturalmente, si presentò il Pescatore a Strascico. Per circa un anno c’erano state diverse effrazioni e aggressioni, e sparizioni, e poi nel 1981 venne rinvenuto il secondo cadavere di un’adolescente scomparsa – il primo era stato scoperto nel 1980 – e infine fu collegato alle effrazioni nelle case. Tutto questo avrebbe potuto verificarsi senza la presenza di Robert Mallory, ma il fatto che il suo arrivo fosse coinciso con lo strano offuscamento che aveva iniziato a insinuarsi nelle nostre vite fu una cosa che non mi fu possibile ignorare, sebbene gli altri lo facessero, a loro rischio e pericolo” (pag. 19).

Ellis insinua e quando l’autore insinua il lettore, o quantomeno il lettore che sono io, si sente autorizzato a insinuarsi a sua volta, a insinuarsi e insinuare propositi e desideri autoriali più o meno manifesti, nascosti non come fatti ma come fantasmi nelle pieghe della narrazione e così il lettore che sono io si è trovato a chiedersi: ma non è che come BEE (il narratore) insinua una correlazione se non una sovrapposizione fra Robert Mallory e The Trawler, BEE (l’autore) voglia insinuare anche una correlazione se non una sovrapposizione fra BEE (il personaggio) e Robert Mallory?

ATTENZIONE: NON PROSEGUIRE LA LETTURA SE SI TEMONO SPOILER.

Questa ipotesi diventa qualcosa in più di un’ipotesi mano a mano che si avvicina la fine del romanzo – Bret e Mallory hanno un confronto, un tentativo di chiarimento delle incomprensioni avute “Non sapevo più che cosa dire, perché non c’era nient’altro da dire – niente faceva presa su di lui, era come parlare a uno specchio” (pag. 682) nel quale Mallory finge di sedurre Bret salvo poi umiliarlo “Lo guardai in faccia e il sorriso sexy era sparito, e lui si tirò via e sedette sul bordo del letto e poi mi guardò dall’alto in basso e con una lieve traccia di disgusto si ripulì la bocca col dorso della mano e mormorò: – Frocio del cazzo –. E poi: Lo sapevo” (pag. 684) – e prende maggiore forza durante la notte in cui prima Thom e Susan (il migliore amico di Bret e la sua fidanzata) vengono aggrediti con la ferocia che caratterizza The Trawler e dopo avviene la colluttazione fra Bret e Robert Mallory – “Abbassai lo sguardo e vidi che stringeva in pugno un coltello da macellaio. E poi lui vide il coltello che impugnavo io” (pag. 694) “Incespicai alla cieca in avanti alzando il coltello, ma Robert era corso fuori dalla stanza e io collassai contro il lavabo del bagno ma non riuscivo a vedermi nello specchio perché c’era troppo vapore” (pag. 697) – colluttazione nella quale è Mallory a soccombere.

Anche se le indagini ufficiali dicono il contrario, Bret insiste sulla possibilità che Mallory – prima di aggredirlo – abbia aggredito i suoi amici con inumana ferocia (a Susan è stato amputato un seno, mutilazione che caratterizza The Trawler, come vedremo), salvo poi aprire al lettore (o almeno: al lettore che sono io) un diverso e inquietante scenario – “Io indossavo una camicia Polo azzurra, con le maniche lunghe, abbottonata fino al collo, ma una delle maniche era ricaduta indietro quando avevo alzato un braccio per premerle un dito sulle labbra, e mi resi conto che era lì che stava guardando. Il sorriso da sballata era sparito e i suoi occhi incrociarono i miei e poi tornarono sul mio braccio. L’atmosfera ovattata, spossata, della stanza cambiò, e si attivò qualcosa – tutto stava ronzando. Susan prese a tremare intanto che tornava a guardarmi. Prima che potessi fermarla lei si sporse e tirò più su la manica. Dapprima non disse niente, ma mi resi conto che stava guardando una profonda ferita sull’avambraccio circondata da un livido viola e giallo.
Le sembrava di aver visto il segno di un morso. Lo disse alzando la voce.
Le sembrava che quel segno di un morso fosse esattamente dove aveva morso l’intruso sabato sera” (pag. 716) – lo scenario nel quale The Trawler possa in realtà essere lo stesso Bret.

La casa abbandonata su Benedict Canyon – casa appartenente alla famiglia di Mallory nella quale Bret entra abusivamente in cerca di un collegamento fra Robert Mallory e The Trawler – a me sembra funzionare come un corpo, il corpo che contiene la psiche di Ellis: il proprietario è Mallory, al suo interno vediamo muoversi esclusivamente Bret, ma sul finale si scopre che è il luogo nel quale, in effetti, è stata rinvenuta la quarta vittima di The Trawler: “Il suo corpo era stato «decorato»: la bocca riempita di pesci, la testa e il collo di un gatto cuciti sulla fronte, il resto del corpo dell’animale che fuoriusciva dalla vagina, mentre le gambe erano state ripiegate e divaricate come se Audrey stesse partorendo. La testa era adorna di corpi così che una sorta di parrucca le coprisse il cranio. I seni mancavano – erano stati rimossi, e nelle cavità erano state posizionate le teste di due gatti. L’ano era stato forzato col muso di un cane decapitato a cui era stato cucito il collo strappato a un altro cane. Come ho detto, solo mesi dopo venimmo a conoscenza di tali dettagli, e solo di alcuni: ci volle un anno perché l’orrore di ciò che il Pescatore aveva «realizzato» venisse reso noto nella sua interezza. Anche se il corpo della quarta vittima del Pescatore era stato ritrovato nella casa sulla Benedict Canyon, Robert Mallory non era mai apparso come il sospettato numero uno nei giorni successivi – appresi in seguito che si trattava di una teoria «allettante» ma che certi dati semplicemente non combaciavano.” (pag. 709-710). Una lunga sequenza per stomaci forti, la descrizione di un corpo smembrato che sembra quasi essere la sublimazione orrorifica del lavoro di selezione, correzione e montaggio di uno scrittore.

So che non è per forza così, mi rendo conto che attraverso gli strumenti della critica ufficiale l’analisi potrebbe dare risultati diversi, però io non sono un critico, e questa idea casa-corpo rafforza in me l’ipotesi che mi ha suggestionato, che mi ha portato a pensare: ma è possibile che per Bret Easton Ellis Bret, Mallory e The Trawler siano in effetti saldati, indissolubili, inscindibili? A me pare di sì. Mi pare che essi possano essere interpretati come la rappresentazione freudiana della psiche umana di Ellis nella quale Bret ha la funzione di IO (il giovane ragazzo ricco consapevole della propria omosessualità, pronto a sperimentarla ma non ancora ad accettarla), Robert Mallory quella di SUPER IO (Mallory è reduce da un ricovero psichiatrico, d’accordo, rappresenta comunque tutto ciò che Bret non è ma forse vorrebbe essere: bello e eterosessuale al punto da riuscire a sedurre Susan, la ragazza che Bret avrebbe voluto per sé, fosse stato eterosessuale) e The Trawler quella di ES (ciò che Bret sarebbe potuto diventare se avesse dato diverso sfogo assoluto alla sua parte oscura, se non fosse arrivata la scrittura a sublimare gli istinti più indicibili e violenti).

Se poi volessi andare oltre o di lato, e mi prendessi la libertà di immaginare un BEE ebbro di Cristianesimo, di immaginare un autore più europeo e meno americano, cosa che assolutamente Ellis non è – o almeno non mi pare proprio che sia – potrei arrivare ad affermare che Le Schegge potrebbe essere un tentativo di messa in scena di Dio più che di Io, la messa in scena di uno scrittore, demiurgo e trino, nella quale Bret è Padre, Mallory è figlio e The Trawler è Spirito Santo. Le Schegge è un romanzo che si presta a molte letture e molti lettori. Può essere letto come un thriller, la tensione è altissima e non cala mai; ci si può fermare a un secondo livello di lettura e leggervi la storia che segna la fine traumatica di una giovinezza e la nascita di uno scrittore; ci si può trovare molto altro: quello che ci ho trovato io – senza alcuna pretesa di univocità – è la sofferta ricomposizione di una trinità umana disgregata e sottomessa al trionfo dell’ego autoriale.

Galassie

Racconto di Deborah Guarnieri.

La catenina d’oro che suo padre portava al collo al momento dell’incidente la madre gliel’aveva infilata nella borsa in camera mortuaria, poco dopo che il medico di famiglia le aveva infilato nella stessa borsa un flaconcino di gocce che la sua migliore amica aveva definito non proprio omeopatiche. Avrebbe potuto girarla due volte attorno alla caviglia per farci una cavigliera, tre volte attorno al polso per farci un braccialetto, ma aveva preferito conservare la catenina lì, sul fondo della borsa.

Per la città era un periodo brutale, la violenza assopita si risvegliava ciclicamente, si sollevava dall’asfalto come il miasma di una pestilenza. Si finiva accoltellati sul viale per una carta di credito o per goliardia. Ogni volta assumeva una forma diversa e quella era la volta dei coltelli e del sangue. Accadeva di notte quindi si scoraggiava la vita notturna. Questa, l’unica misura adottata. Per lei non era un problema, per lei non era un problema niente. Lei ora la notte dormiva. Usciva per comprare le gocce, usciva per andare dalla psichiatra a farsi prescrivere altre gocce. Dal fondo della borsa la catenina la fissava con occhi di biscia.

Sperimentava da settimane, testava una quantità sempre differente, guardava le meduse dissolversi nell’acqua poi andava a rannicchiarsi sul letto, sopra il lenzuolo, aspettava che l’intonaco bianco del muro si espandesse in uno spazio infinito intorno al suo corpo, una nuvola di ovatta che la avvolgeva al punto che non vedeva più niente se non quel bianco accecante. Prima di ogni nuova prescrizione la psichiatra le domandava a cosa pensasse durante quei pomeriggi che trascorreva distesa e lei rispondeva: a niente, mangiava il minimo essenziale perché l’annebbiamento non si dissipasse, perché la nuvola di ovatta al massimo si sfilacciasse. Dalla finestra della cucina osservava la luce assumere il colore e la consistenza dell’albume dell’uovo, appollaiarsi sui rami addensata in blocchi cubici. Si accorgeva del calo dell’effetto dal sopraggiungere di una visione, un tunnel, lei camminava in questo tunnel, doveva essere un tunnel lunghissimo perché le pareti non convergevano mai verso l’occhio giallo dell’uscita. Mentre vagava in quella foschia lo aveva incontrato, lui era nero, tutto nero, le iridi nere si confondevano con le pupille. Si erano guardati e si erano riconosciuti, si erano visti attraverso immediatamente; toccandosi, avevano trovato conferme. Insieme si sarebbero saziati. Insieme sarebbero stati invincibili.

Mangiavano caramelle schifose perché i denti non si sarebbero cariati, non dormivano perché non avrebbero sentito stanchezza. Lei non era tornata più a casa, non aveva più bisogno di una casa. Fumavano e i polmoni non sarebbero anneriti, fumavano in continuazione e se la passavano, se la poggiavano l’un l’altro sulle labbra, sputandosi nella bocca si scambiavano la saliva. Si fermava a scrutarlo per cercare di capire se le piacesse davvero la sua faccia, ma non era la bellezza del corpo, qualche pura simmetria a ispirarli; era il fatto che la sua figa fosse piccola e calda e il suo cazzo sempre duro, che le mani di lui, prima o poi, dovessero ritrovare le sue cosce, quelle mani grandi che le lasciavano galassie nere verdi e viola, quelle mani grandi che la picchiavano e quel cazzo duro che la fotteva fino allo stremo, fino a quando non restava che il suo involucro da usare, mentre lei trapassava, si elevava in quello stato beato della semi-incoscienza.

Si erano stabiliti in un buco di quaranta metri quadri con poche finestre non esposte a est, frigido come uno scantinato, avevano preso a uscire soltanto di notte perché la luce non guastasse il loro ordine. Il giorno impone le proprie leggi mentre la notte si può plasmare. Si addormentavano, non era cosa voluta ma una conseguenza, l’apice dell’amplesso e della perdita di coscienza, lo facevano per ore, le sue mani sul torace, tutto il suo peso premuto sul torace, quando lei rinveniva, se faceva buio, uscivano, vagavano per la città perché i piedi non avrebbero fatto male, i calli non sarebbero spuntati, anche se lei portava sempre stivaletti con il tacco quadrato, i piedi non facevano mai male.

Più volte era successo che, tornati a casa, lei sfilasse lo stivaletto e trovasse il sangue. Sangue secco impregnava le calze e la pelle intorno alle unghie. Era sempre il piede sinistro a sanguinare. Dopo le botte, le galassie nere verdi e viola comparivano a sinistra, dopo le sberle era l’occhio sinistro ad andare, per un istante, fuori fuoco. Ricordava una visita dal ginecologo, poco dopo averlo conosciuto, crampi da sudori freddi l’avevano assalita all’inguine sinistro, e giù per tutta la gamba sinistra, il ginecologo le aveva infilato la sonda e le aveva comunicato che a ovulare era stato il suo ovaio sinistro. Il male si insinua sempre a sinistra. La destra è di Dio.

A tratti la folgorava il pensiero che stesse succedendo qualcosa alla sua parte sinistra ma lo ignorava. Se fossero rimasti insieme lei non sarebbe marcita. Era tornata a vedere i colori, grazie a lui, grazie a loro insieme vedeva a colori e non più il bianco accecante, e non più il tunnel. I colori della notte e delle galassie non la ferivano, non erano invadenti, squillanti, la notte nella città era nera, rosso carminio e verde scuro, soprattutto verde scuro, verde muschio, la notte nella città era gocciolante e frigida come lo scantinato, così che nemmeno lo sbalzo di temperatura li poteva colpire. Il sottopassaggio della stazione era il posto più umido della città. Aveva quell’odore di tessuto bagnato asciugato male, e macchie di piscio, e un rimbombo da latrina. Era un posto da evitare. Si circumnavigava il quartiere, pur di non passarci. Forse, erano da attribuire a quell’umidità i miasmi della violenza.

Aveva capito subito che qualcosa non andava perché il sottopassaggio era giallo e verde acido. Ascoltava i loro passi, i suoi tacchi quadrati e pensava che se stavano insieme non sarebbe successo niente, siamo insieme e non ci succederà niente, e gli strizzava la mano. Erano usciti con il buio, come al solito, come sempre, avevano seguito la corrente e la musica che trascinava, aveva piovuto e i marciapiedi luccicavano, avevano svoltato due o tre angoli ma la musica proveniva dall’altra parte dei binari, al di là dell’edificio della stazione, non potevano vederla, potevano solo sentirla. Il sottopassaggio era la via più breve, lui aveva detto: due minuti e saremo di là, due minuti, che saranno mai due minuti, bastava trattenere il respiro prima di entrare, sarebbe riuscita a trattenerlo due minuti. Ma quel giallo e il verde acido incrinavano la bolla, stavano forando la loro bolla, crick, un uovo che si buca, aveva accelerato il passo perché la bolla non si crepasse, continuando a trattenere il respiro, se siamo insieme non ci succederà niente, ma dovevano uscire, non le piaceva restare nel tunnel, lì le pareti convergevano verso l’occhio dell’uscita quindi dovevano uscire, tornare ai colori rassicuranti della notte. Rosso carminio, verde scuro, verde muschio. Erano lì che li aspettavano.

Era lì che li aspettava. Stava appoggiato al muro e lo avevano superato fingendo che non ci fosse. Avevano visto quel che c’era da vedere: un uomo macilento, ma un telaio agile, nervoso. Li aveva attaccati alle spalle.

Lui gli aveva sferrato un pugno, sapeva quanto le sue mani potessero far male, era lei a chiederlo: di più di più. Lo aveva messo a terra e gli si era seduto sopra. L’aveva guardata. Non aveva detto niente ma lei aveva sentito è il tuo turno. Quegli occhi neri nerissimi le stavano lasciando il posto. I colori della città erano baluginati nei suoi, tutti mescolati, cerchietti vorticanti, no non glielo avrebbero portato via, aveva alzato il piede, aveva sbattuto le palpebre, no non le avrebbero tolto anche lui, aveva affondato il piede, il tacco quadrato nello zigomo, no non avrebbe perso anche lui, l’uomo macilento aveva spalancato la bocca nel tentativo di morderle la caviglia, non voleva tornare nel tunnel, aveva alzato, affondato, di nuovo alzato, affondato, aveva sentito le ossa spezzarsi sotto il tacco quadrato. L’uomo era rimasto immobile con la bocca spalancata, la mascella frantumata. Da allora non erano più stati visti. La notte erano rientrati nel buco e si erano seduti sul letto; a gambe incrociate, lui, in ginocchio, lei, dietro di lui. Aveva afferrato la biscia dal fondo della borsa. Aveva chinato la testa e gli aveva annusato i capelli, la nuca, il collo fino all’orlo della maglietta. Sì, era umido, ora, quell’odore umido di sudore dimenticato addosso. Aveva portato il naso sopra la spalla, aveva inspirato, su di sé non riusciva a sentirlo ma era sicura di avere addosso anche lei, ora, quell’odore, l’umidità. Aveva sollevato la catenina d’oro, le estremità tra pollice e indice, gliel’aveva posata sul petto, aveva chiuso il fermaglio dietro il collo.

Su “Arca di Noè” di Gianna Manzini

Nota di lettura a cura di Eleonora Negrisoli.

Nella primavera di quest’anno Rina Edizioni ha ripubblicato Arca di Noè, raccolta di racconti di Gianna Manzini ormai da decenni fuori catalogo. I racconti erano già, in parte, apparsi in Animali sacri e profani (Casini, 1953), ma trovarono la loro versione definitiva nell’edizione Mondadori del 1960, con il titolo Arca di Noè.

L’operazione editoriale di Rina sembra collocarsi entro due tendenze critiche ben precise. La prima riguarda il recupero di autrici dimenticate o escluse dal canone letterario, a cui la critica e l’editoria italiana e internazionale stanno finalmente dedicando crescente spazio. Rina Edizioni, appunto, nasce con questo esatto obiettivo, come ci ricorda il Manifesto posto in calce a tutte le pubblicazioni della casa editrice. Riscrivere la storia letteraria si configura come azione necessaria per restituire voce a chi è stata tolta e, quindi, per guardare al contemporaneo da un altro punto di vista, adottando una stortura imprescindibile per la comprensione della sua complessità. Cambiare postura, dunque, ma anche cambiare forma: per stare dentro questa complessità occorre assumere una struttura rizomatica. Si assiste infatti – ed ecco la seconda tendenza – a una crescente ibridazione dei saperi. Tra le varie relazioni possibili – con i femminismi, la teoria queer, gli studi postcoloniali, e così via –, la critica letteraria stabilisce connessioni anche con l’ecologia e gli animal studies. E qui arriviamo a Gianna Manzini, che in tempi non sospetti aveva scritto di animali[1] attraverso uno sguardo inconsueto.

Benché i racconti dell’Arca di Noè riflettano una prospettiva antropocentrica e specista (implicita nella forma mentis novecentesca), il continuo riferirsi in modo didascalico a certe pratiche umane che violano la soggettività animale – ad esempio la caccia, la pesca, la sperimentazione scientifica – provoca nel lettore la sensazione dello straniamento. Questo meccanismo narrativo riesce a decostruire la percezione automatizzata che ci abitua a considerare gli animali proprietà dell’umano. È normale, leggendo Manzini, domandarsi che effetto faccia a una trota moribonda giacere su un piatto, oppure pensare alle gabbie dello zoo come prigioni, o ancora definire l’invenzione del cappone sopruso e delitto: è la narratrice-autrice a dichiararcelo. Il suo sguardo si posa sugli animali con interesse quasi scientifico, nel tentativo di comprendere i gesti di creature vicine ma sconosciute: «che festa,» – scrive in Il mio bestiario, prefazione alla raccolta – «sapere esattamente, con precisione, in tutte lettere, che cosa vuol significare un’ala quando appena si solleva e si ricompone serrandosi»[2].

Nei racconti la relazione tra umano e animale si consuma quasi interamente nello sguardo (John Berger, parecchi anni dopo, scriverà Perché guardiamo gli animali?), ed è attraverso quella osservazione che la scrittrice individua nel legame con gli animali «qualcosa di più vasto e segreto»[3]. Essi sembrano custodi di un qualche sapere iniziatico, di un oltre a cui in pochi, capaci di incanto e compassione, possono accedere: «ecco che, non si sa come, un granello di vita ignorata vien proiettato di sorpresa al centro di una splendente emozione. Queste fortune capitano di rado; a me, di tanto in tanto con gli animali. Fortune; non arbitrii coscienti; non invenzioni»[4]. Manzini intuisce nell’alterità animale la possibilità di aprirsi a una verità nascosta, a un mistero di cui queste creature, seppur attraverso il silenzio, si fanno messaggere.

Emilio Cecchi aveva definito Manzini animalista[5], e questo ci dice molto sull’originalità che la sua scrittura deve aver rappresentato per la letteratura italiana. Tuttavia, il rischio di sovrainterpretazione è molto alto: nell’Arca di Noè non c’è un messaggio politico esplicito, né è facilmente desumibile come invece in altre opere sul tema animale. È però indubbio che in questo bestiario l’esistenza animale venga riconosciuta al di là di quella umana, invertendo automaticamente la tendenza che ci ha abituato a considerare gli animali oggetti da asservire. Manzini non esorta a adorare gli animali, né proteggerli, ma mi sembra significativo concludere con la potente metafora contenuta nel penultimo testo della raccolta, Il sangue del leone. La protagonista fa un sogno ispirato a un episodio agiografico, rappresentato su una sua vecchia cartella da scrivere: San Girolamo si reca nel deserto, dove resta per tre anni. Qui, un giorno, arriva un leone che mette in fuga quasi tutti i monaci. Girolamo rimane e, riconoscendo nella zampa del leone una spina, gliela leva e cura la ferita.

L’immagine a cui probabilmente Gianna Manzini fa riferimento nel racconto Il sangue di leone: Giovanni di Paolo (Siena, 1403-1482), San Girolamo medica la zampa del leone, 1436, 44,5 x 32 cm, Archivio di Stato di Siena.

[1] Per comodità, da ora in avanti con il termine “animali” ci si riferirà a tutti gli animali non-umani.
[2] G. Manzini, Il mio bestiario, in Arca di Noè, Rina Edizioni, Roma 2023, p. 8.
[3] Ivi, p. 6.
[4] G. Manzini, Pascolo a Carbonin, in Arca di Noè, cit., pp. 141-142.
[5] Cfr. E. Cecchi, Manzini animalista, in Letteratura italiana del Novecento. Vol. 2, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1972, pp. 926-928.

L’orrore più grande

Racconto di Giuliano Tomarchio.

«Cosa ci sta succedendo, Chris? Che sta succedendo a tutti quanti?».

Juliana si spinse oltre il bracciolo della poltrona per ispezionare il volto di Chris, pallido e chino sul pavimento, mentre affondava le unghie nella stoffa verde dell’imbottitura. Chris non si mosse. Aveva gli occhi puntati verso un abisso sottostante che vedeva solo lui, una zona negativa nel suo salotto che stava risucchiando via tutta la luce delle sue pupille, e la vita che un tempo c’era dietro di esse. Cristiano “Christian” Della Rocca, considerato un tempo il miglior investigatore privato di New York, sagace ma un po’ burbero, era ormai ridotto a un guscio vuoto di dubbi e incertezze, messo di fronte a un caso che non aveva né capo né coda, un’orgia di elementi indiziari disseminati in un viale di cadaveri: la sua esistenza.

Cos’è successo, caro Chris? Dov’è finita la tua arguzia, la tua battuta sagace sempre a portata, il tuo intuito trascendentale in grado di connettersi a un mondo paranormale oltre le soglie della percezione umana? Nella tua carriera hai affrontato sette assassine, novelli alchimisti, demonologi e dementi, fattucchieri e omicidi telepati e hai sempre trovato una soluzione elegante quanto conveniente e improvvisa come un fulmine a Catacumbo… Ma che soluzione darai all’insolubile, stavolta?

La New York esoterica si era aperta al tuo terzo occhio, i suoi misteri erano diventati la tua quotidianità. Ebbene, ora ti viene presentato un mistero ben più grande, che non trascende soltanto il mondo empirico, ma la tua realtà. Te ne è stato dato un semplice assaggio, eppure appari così inerme! Guardati: non riesci nemmeno a sollevare lo sguardo sulla tua amata, Juliana Jade, una donna impetuosa, corvina, tutta nervi, istinto e sentimenti. La sua voce è rotta dal pianto, ma non riesci neanche a guardarla. Chris, povero idiota, come farai a raccontarle l’indicibile, a spiegarle per filo e per segno i risvolti del caso, con voce calma e superba come un padre che parla alla figlia seienne, come facevi ogni volta?

Ma eccoti muto, immobile, in attesa che qualcuno ti metta le parole in bocca.

«È… una maledizione? È opera di Flynt?» Juliana tentò di spezzare il silenzio abbozzando un ragionamento, tornando ai vecchi schemi, a un passato radioso e leggero di indagini e congetture.

Ma no, cara Juliana: non è uno stratagemma di Eugene Theodore Flynt, diabolica nemesi del tuo amante e massonico maestro dell’Occulto. No, nessuna di quelle scemenze. Persino tu, però, ingenua Mrs. Jade, iniziavi a collegare i puntini del grande schema di questo orrore innominabile. Benché mancasse una ragione, non poteva essere un caso; non potevano essere solo un insieme di eventi contingenti tutte le sventure che vi erano capitate.

Era iniziato con la morte di Alistair Moore, l’ufficiale britannico che, al contrario del nostro “detective”, era rimasto nelle forze dell’ordine della città, da sempre sospinto da un forte e disgustoso senso del dovere. Ma non per questo avevano smesso di essere amici. I migliori, anzi. Fu una tragedia quando, nel ’29, la Borsa crollò e il nobile Alistair si tolse la vita con un colpo di pistola al cuore perché inondato da debiti che avrebbero afflitto almeno cinque generazioni dopo di lui. Tutto a causa di quegli investimenti edilizi a Manhattan che tu, Chris, il suo più grande confidente, gli avevi consigliato di fare!

Una vera tragedia. Così come quella che colpì Alice Della Rocca, la cara sorella, vispa, geniale, mai quieta e dall’orientamento sessuale ambiguo. Ah, Alice era una grande inventrice, fautrice di decine di apparecchiature pseudo-scientifiche che avrebbero fatto arrossire il Dottor Frankenstein, ma che di certo ti hanno aiutato, caro Chris, a risolvere decine di casi senza che tu mostrassi un pizzico di gratitudine, duro e distaccato come sei. Peccato che una di quelle stesse diavolerie l’abbia trasformata in uno scarafaggio fotofobico. Chissà che non sia quello che tu abbia schiacciato per errore, eh, Chris?

Persino Malleus Cole, il tuo mentore, il paziente professore la cui mente non è più tornata dal viaggio nel sovrannaturale, l’uomo saggio e mite che ti ha insegnato tutto, non è scampato alla catena di tragedie. Ormai definitivamente impazzito, vaga per le sale di un istituto psichiatrico in attesa di una lobotomia che lo salvi da se stesso e dalle creature demoniache che sono venute a fargli visita.

Ma come è potuto accadere tutto questo? Quale la causa comune di questi destini?

Questa è la parte più crudele dell’orrore, Chris. Che tu sai. Tutto.

Chris, senza staccare lo sguardo dal vuoto in cui la sua anima stava precipitando, porse la Lettera a Juliana. Il pezzo di carta giallastra sembrava un brandello di carne tumefatta, strappata a un corpo morto di recente. Benché la stanza fosse illuminata dalle ampie finestre in stile vittoriano, la Lettera rimaneva nell’ombra. Juliana avvicinò la mano tremante al foglio sospeso per aria. Una volta che lo ebbe fra le mani, Chris lo lasciò andare con sollievo, come si abbandona un carico pesante. Juliana avvicinò la lettera al volto. Quando, infine, trovò il coraggio di guardare la pagina, vide parole scritte col sangue, in una grafia folle. Immediatamente, la carta le tagliò le dita, un tuono echeggiò nella valle più vicina e una porta di quercia sbatté da qualche parte. Non ebbe bisogno di leggerla; il contenuto della Lettera, semplicemente, le invase la mente, come una macchia di inchiostro riversata su un foglio bianco.

«Cosa… come può essere… Chris… Io…»

Ora sapeva anche lei. Avresti voluto risparmiarle l’Orrore, Chris, un ultimo gesto disperato di amore, quell’amore profondo che non le avevi mai dimostrato, che non sei capace di esprimere. Ma era tardi. Tardi come lo è per me. Pare che la “Saga del Detective Maleficarum” sarà il mio unico lascito a questo mondo. Diciotto romanzi e centinaia di racconti brevi con protagonista il grande Chris Della Rocca, l’indagatore dell’incubo più amato dalle sessantenni. Il più dozzinale rifacimento di una parodia malfatta di Sherlock Holmes, unito al morboso gusto gotico di un’ambientazione sovrannaturale ed esoterica nella New York degli anni Venti e poi Trenta. Un’idea partorita a forza fra sangue e feci per pagarmi l’affitto e un condizionatore decente. Ero addirittura entusiasta quando, quel tredici ottobre, giorno da maledire in ogni calendario, ricevetti la telefonata dell’editor Fronelli, o “Frodelli”, come lo chiamo io. Tale fu l’entusiasmo che firmai qualsiasi foglio, in triplice copia, firmai senza leggere e firmai col sangue.

Quel sangue che adesso macchia quella Lettera, caro Chris.

“Un successo editoriale”, lo chiamarono. Un fulmine a ciel sereno; altro che Catatumbo… E quando iniziarono ad arrivare tutti quei soldi, pensai davvero di avercela fatta. Di aver vinto il gioco. Ma ero stato giocato. Sono dovuti passare trent’anni per accorgermene. Poi altri quindici. Fu a quel punto che capii che non mi avrebbero fatto scrivere mai più nient’altro che questo. Che la mia reputazione si basava solo su “quello del Detective Della Rocca”. Che ero disprezzato e deriso in qualunque circolo letterario, considerato, al più, uno scaltro e viscido opportunista, quando non un mediocre plagiatore. Soprattutto, capii di essere stato maledetto quando mi resi conto che la saga non avrebbe mai avuto fine. Che ero legalmente obbligato a “non far cessare l’esistenza finzionale” dei miei protagonisti. In altre parole, non posso farvi fuori. Furbo, il Frodelli, ad avermi ingabbiato fin dal principio e ad avermi costretto a scrivere abomini a metà fra l’italiano e l’inglese, per via di una qualche infernale linea editoriale che ancora oggi non comprendo. Ormai non ha neanche più senso cercare un cavillo, una scappatoia legale. Potrei anche uscirne con facilità, con un avvocato decente. Ma che senso avrebbe? Nessuno mi prenderà mai più sul serio, neanche se mi mettessi a scrivere un Infinite Jest o una nuova Recherche – e non ho neanche più la forza o la capacità di farlo; ho procrastinato abbastanza a lungo da non sapere più perché scrivevo. E siamo del tutto onesti, almeno fra noi: non sarei mai stato in grado di farlo. Vedi, Chris? La tua ragion d’essere si riduce a una nota a piè di pagina di un contratto e all’indolenza di un vecchio amareggiato! Dovrai vivere avventure scadenti e mal strutturate fino alla fine dei miei giorni. Purtroppo, godo di ottima salute e il mio stile di vita benestante mi garantisce l’accesso alle migliori cure. No, la tua leggenda non è destinata a concludersi. Uscirà presto anche una di quelle dannate serie televisive su di te, caro Chris. Per mesi ho avuto a che fare con quegli idioti di sceneggiatori americani, pieni di domande insulse, predicatori di neologismi pomposi e senza senso.

No, non posso ucciderti, Chris Della Rocca. Posso, però, con la scusa del genere, dell’orrore cosmico crescente, catapultare te e ciò che ami in un incubo senza fine. Posso renderti insopportabili quei tuoi baffetti ispidi; posso farti cadere quei quattro peli che ti sono rimasti in testa. Forse posso gambizzarti, devo controllare il contratto. Soprattutto, posso maledirti con la conoscenza. La consapevolezza di vivere in un inferno letterario, sottoprodotto della mente di uno scrittore indegno di questo nome, ti accompagnerà in ogni tuo gesto. È una questione editoriale, vedi; non potrai mai suicidarti e scappare dall’orrore. I tuoi “fan” non me lo perdonerebbero.

Per il resto, non preoccuparti: ho già pensato alla tua prossima battuta. Una chiosa efficace – ma non troppo, non vorrei alzare il livello – per “confortare” la tua donna.

Chris, incapace persino di produrre liquido lacrimale, con gli occhi secchi e sbarrati si alzò e andò a prendersi un sigaro Montecristo, una nuova marca con cui aveva sostituito i suoi amati Romeo y Julieta, che non riusciva più a trovare da nessuna parte. Fumare un sigaro lo aiutava sempre a pensare e distendersi. Ma il sigaro, non appena toccò le sue labbra, gli lasciò una sensazione di viscidume e acido in bocca. Lo allontanò amareggiato e si massaggiò i folti baffi con le dita, un altro dei suoi gesti più amati, quasi una firma; ma i suoi stessi peli lo punsero, e avvertì una crescente irritazione sopra il labbro. Juliana era affondata nella sua poltrona verde acido. Stava anch’ella sprofondando nel medesimo abisso del suo amato. La nausea crescente dentro di lei si stava trasformando in disprezzo. Disprezzo silenzioso e strisciante. Disprezzo per Chris. Egli si voltò e, senza espressione alcuna, recitò come un automa una frase inserita a forza nel suo processore.

«Nella mia vita, ho affrontato ogni tipo di orrore. Ma adesso siamo precipitati nel più grande… ed esso è ovunque.»

E non poté che sospirare. Anzi, no. Non sospirò affatto. Se lo tenne tutto dentro, insieme al putrido sapore del Montecristo.


Giuliano Tomarchio ha studiato cinema e sceneggiatura, ma la sua vera passione è fare Mexican Mule. Ha pubblicato diversi racconti sulla rivista «MALPELO» e un paio su «Spaghetti Writers»; un suo scritto è sfuggito alla censura dell’imminente antologia “Limonə” di «Malgrado le Mosche». Dice di scrivere per l’audiovisivo; ma questo è facile dirlo.

Un cristallo di neve, un gatto morto – Intervista a Mircea Cărtărescu

Le parole dei vivi | Intervista a cura di Fausto Paolo Filograna. Traduzione dall’inglese di Chiara Ciarpelli. Foto di Juan Manuel Serrano Arce.

Pluricandidato al Premio Nobel, universalmente considerato uno dei più importanti scrittori contemporanei. Inoltre poeta, saggista rumeno, dotato di una poetica assimilabile all’opera di Joyce,  Kafka, Pavic e, soprattutto, Thomas Pynchon, Mircea Cărtărescu (Bucarest, 1956) è stato esponente di spicco della Blue Jeans Generation. Oggi è considerato il più importante autore romeno contemporaneo. In questa intervista l’autore racconta l’importanza dell’ultimo suo libro pubblicato in Italia: Melancolia.

Su Melancolia (La nave di Teseo, 2022)

1) L’infanzia appare spesso nei tuoi libri, penso soprattutto ai tuoi monumentali romanzi Abbacinante e Solenoide, ma non ne è mai stata protagonista. In questo libro è il tema principale. Ho trovato singolare che nel momento in cui parli di questo tema adotti la forma frammentaria del racconto. Ci puoi spiegare questo passaggio? 

Melancolia non è direttamente collegato a Orbitor (Abbacinante, N.d.T.) e Solenoid (Solenoide, N.d.T.), anzi, è un tentativo di sfuggire alle strutture molto complesse e intricate di quei grandi romanzi. È un libro neoromantico e surrealista, nel segno di Giorgio De Chirico e H. C. Andersen. I cinque racconti sono fiabe metafisiche, chiuse ermeticamente nel loro enigma. Melancolia” è il libro più puro finora. Lo amo per il suo stile, la stranezza e l’atmosfera di innocenza.

Ho scritto Melancolia quando avevo sessant’anni, come una sorta di richiamo e rielaborazione del mio primo libro di prosa, Nostalgia, scritto trent’anni prima. In entrambi l’infanzia e l’adolescenza sono il tema principale, entrambi sono scritti archetipici composti da cinque storie, la prima e l’ultima delle quali costituiscono un prologo e un epilogo dei libri veri e propri. I racconti non sono affatto brevi, alcuni sono piccoli romanzi, tra i migliori che abbia mai scritto: “REM” e “I gemelli” in Nostalgia, “Le pelli” in Melancolia. Sono uno scrittore della vita interiore, di quella notturna, e penso che viviamo circondati da enigmi. Quando siamo bambini, tutto ci appare strano, poetico e onirico. Ecco perché mi interessa tanto quell’età paradisiaca.

2) Che relazione c’è tra il tema dell’infanzia e la tua età attuale?

L’età ha poco a che fare con la nostra vita interiore. Un artista, così come ogni persona creativa, è colui che è in grado di conservare il bambino dentro di sé fino alla vecchiaia. Cioè, una persona capace di non lasciarsi coinvolgere dal denaro, dal potere, dal prestigio, dalla politica e dalla cronaca, dal giudizio sugli altri e condurre la sua vita all’insegna della bellezza, della creatività, dei miracoli quotidiani. Infanzia e poesia sono la stessa cosa: una propensione per la delicatezza che si può trovare in una goccia di rugiada, in un’equazione, in un concetto filosofico, in una teoria scientifica, in Dio, in una graffetta, in un cristallo di neve o in un gatto morto. Viviamo tutti non solo in un sottomarino giallo, ma anche in un’enorme poesia: ogni bambino lo sa bene, ma gli adulti fanno del loro meglio per dimenticarlo e vivere nella noia, nell’avidità e nella turpitudine.

3) Il titolo di questo libro, Melancolia, rimanda a un contesto clinico e scientifico da cui hai sempre attinto. Ci vuoi raccontare perché hai usato un nome con una così lunga tradizione e soprattutto il nome di una malattia per un libro incentrato sull’infanzia?

Inizialmente, durante il Medioevo, la malinconia era effettivamente un concetto medico, tradotto come “la bile nera” (“Il sole nero della malanconia”, scrisse nei secoli Gérard de Nerval). Ci si riferiva a sentimenti di depressione, tristezza, impotenza e mancanza di motivazione di alcuni pazienti nelle primitive istituzioni di salute mentale. Ma dopo che Robert Burton scrisse la sua immensa opera, Anatomy of Melancholy, divenne un concetto culturale con un’enorme influenza sullo sviluppo del pensiero e delle arti europee (la letteratura romantica, ad esempio, non è concepibile senza questo concetto). Uno scrittore che aspira a essere fondamentale o universale non può ignorare i suoni più profondi dell’animo umano, i suoni gravi della solitudine, della tristezza e della depressione. Tutti questi definiscono l’eterna malinconia.

I bambini non conoscono la malinconia (sebbene ci siano studi clinici sulla depressione nei bambini e negli adolescenti), perché vivono fuori dal tempo che corrompe ogni cosa. Ma l’infanzia è ancora molto legata a questo tema, perché ogni persona adulta che talvolta ha il coraggio di immergersi nella propria vita interiore percepisce la propria infanzia come un’enorme perdita, una patria perduta senza possibilità di ritorno. I ricordi d’infanzia scorrono come lava liquida dentro di noi, ma sono sepolti in profondità sotto la crosta della pelle adulta, del cervello adulto, della vita adulta, caotica e priva di senso. Sono sempre terribilmente malinconico quando sfoglio le foto sul mio computer: gli anni passano e non c’è modo di tornare indietro, e le poche foto in bianco e nero, sbiadite, di quando ero bambino sono ora come lame che mi trafiggono il cuore.

4) Proust appare nei meandri consci e inconsci della mente delle persone che leggono le tue opere. Addirittura il bambino del racconto “Le volpi” si chiama Marcel. Che relazione hai con la sua opera? Chi è Marcel?

Marcel in realtà sono io, Mircea, non Proust. Molti critici hanno oscillato tra due poli cercando di descrivere il mio lavoro e il mio metodo: Proust e Kafka. Ma mentre Kafka ha avuto, e tuttora ha, un’enorme influenza sulla mia vita quotidiana e artistica, non posso dire lo stesso di Proust. Ovviamente ho letto il suo libro diverse volte, a volte con piacere, altre volte con noia, e ammetto che è stato un grande scrittore, ma non sento una particolare affinità con il suo mondo. Non tutti gli autori che utilizzano frasi complesse ed elaborate sono proustiani, così come non lo sono tutti quelli che trattano della “memoria involontaria”. Nella letteratura rumena moderna degli anni ’30 e ’40 c’era un gruppo di scrittori che ammirava molto Proust e per questo venivano chiamati “il gruppo proustiano”. Ma leggendo i loro libri si scopre con sorpresa che nessuno di loro ha davvero compreso la novità del suo metodo e che nessuno ha seguito le sue orme. Orbitor (Abbacinante, N.d.T.), la mia opera più importante finora, può dare l’impressione di un libro “proustiano” perché è molto voluminoso e contiene frasi molto lunghe, ma il suo scopo non è quello di recuperare ricordi perduti, bensì di costruire un intero mondo dalla mia sostanza cerebrale, come il ragno che tesse la sua tela dai filamenti brillanti.

5) In un’intervista su L’indiscreto, fatta da Vanni Santoni, racconti di scrivere le tue opere su grandi quaderni. Che differenza c’è tra il funzionamento della tua mente e ciò che scrivi su quella carta?

Ho sempre scritto a mano, mi piace molto. È più intimo, più umano e ti concede più tempo per pensare e immaginare. Scrivo a mano il mio diario ormai da 50 anni, quindi sono piuttosto abituato a scrivere con la penna stilografica. Mi piace che le mie pagine siano belle, quindi detesto cancellare le parole o strappare le pagine. I miei manoscritti sono puliti, sembrano copie di un originale inesistente. Orbitor (Abbacinante, N.d.T.), ad esempio, ha 1500 pagine, ma non c’è una pagina strappata, ci sono poche parole cancellate, anzi è stato pubblicato senza modifica alcuna. Tutti i miei libri, anche quelli più grandi, sono la prima stesura. Inoltre, non esiste un piano o una sinossi e non uso alcuna documentazione. È tutto nella mia mente: i miei libri sono in realtà mappe o ologrammi della mia mente. Per me, scrivere è come rimuovere una pellicola bianca dalle mie pagine per rivelare il testo già scritto.

È vero che solo alcuni dei miei libri, come Solenoid (Solenoide, N.d.T.), Orbitor (Abbacinante, N.d.T.) e il mio diario, sono scritti a mano. Altri, come Melancolia o Theodoros, il mio ultimo libro, sono scritti al computer. Questo perché dopo aver compiuto 60 anni ho perso la pazienza necessaria per scrivere a mano. Ma il resto – nessun editing, nessun piano, nessuna documentazione – è rimasto invariato. Forse perché sono uno dei pochissimi scrittori al mondo che ancora crede nell’ispirazione, nel senso più letterale del termine: la sensazione che qualcuno di molto più saggio e dotato di me mi detti effettivamente ciò che scrivo. Il vero scrittore non è mai solo, così come il fantino da solo non vince mai le corse: ha bisogno di un cavallo per farlo.

6) Qual è il tuo rapporto di scrittore con la Romania? 

“Nessuno è profeta nella propria patria”, dice il proverbio, ed è proprio così. Negli ultimi vent’anni mi sono ritrovato ad essere molto più apprezzato all’estero che nel mio paese e nella mia cultura. Tuttavia, vivo ancora in Romania nonostante le molte avversità e mi piace molto vivere tra i miei connazionali. C’è un sottile strato di persone ben istruite, che comprano ogni sorta di libro, partecipano a tutti gli eventi culturali, concerti, spettacoli teatrali e festival e sono veri cittadini del mondo. Tra loro ho dei buoni amici, che rendono la mia vita nel mio paese molto piacevole. Oltre a viaggiare molto all’estero, partecipo attivamente alla vita culturale e letteraria del mio paese, partecipo a molti eventi sul palcoscenico, a festival di poesia o narrativa, do letture delle mie opere in molte città. È bello risiedere nel proprio Paese, indipendentemente da quanto si viaggia e da quanto si è trattati male a casa propria. Senti di appartenere ad un posto, senti di essere tra le persone che ami.

7) Chi ti conosce tramite i social sa che hai una predilezione per un certo tipo di camicie, con un certo tipo di disegno. Lo stesso tipo di disegni si trova spesso, in varie forme – mentali, organiche, metafisiche – nei tuoi romanzi. Desideri avere quei disegni anche sul corpo, nella tua vita non letteraria di Mircea Cărtărescu?

Sono già impressi sul mio corpo, tatuati su ogni singolo centimetro della mia pelle. I miei simboli e disegni mentali avvolgono il mio corpo come una toga viola. Le persone che mi conoscono e mi amano li percepiscono come abiti reali, sottili, leggeri e pieni di colori cangianti.

8 Quali sono i tuoi autori viventi preferiti? Sembra che tra gli scrittori della tua generazione ci sia una certa preferenza per gli autori morti. Ci puoi dire cosa pensi di questo?

Gli autori morti sono solo quelli mediocri. Gli altri, a cominciare da Omero e Virgilio, sono ancora vivi dopo migliaia di anni. Non mi interessa se un autore è morto o vivo, cinese o etiope, donna o uomo, etero o gay. Discrimino solo tra autori che riesco a leggere e autori che non riesco a leggere.

Eppure, sono pieno di gioia al pensiero che sto ancora calpestando lo stesso suolo e respirando la stessa aria di alcuni degli déi del mio Pantheon interiore, come Mario Vargas Llosa, Thomas Pynchon, Paul Auster, Dacia Maraini, Bob Dylan o Salman Rushdie. Sono felice e grato di essere loro contemporaneo.


Melancolia è composto di Tre storie – incorniciate da due evocativi racconti brevi – che affrontano alcuni grandi temi come la paura del cambiamento, la solitudine, l’amore con l’immaginazione del ragazzo e lo stile del grande scrittore. I tre racconti riguardano altrettante fasi: l’infanzia, perché “è nell’infanzia che ha inizio la melancolia, quel sentimento che ci accompagna per tutta la vita, quella sensazione che nessuno ci tiene più per mano”, l’età della ragione e l’adolescenza. Quando la madre esce per fare la spesa, un bambino di cinque anni è convinto che non tornerà. Marcel, invece, ha otto anni e vive in simbiosi con l’adorata sorellina Isabel, in un mondo in cui gli adulti sembrano non essere altro che presenze fugaci. Ivan di anni ne ha quindici e si sente l’uomo più solo dell’universo. In un armadio conserva le pelli che, di anno in anno, crescendo, ha dovuto cambiare. Quando incontra Dora e se ne innamora inizia a chiedersi se anche le donne, come gli uomini, cambiano pelle.

Mircea Cărtărescu  ha vinto molti premi, tra cui l’Internationaler Literaturpreis a Berlino (2012), lo Spycher in Svizzera (2013), il premio di Stato per la Letteratura europea conferito dalla Repubblica austriaca (2015), il premio Gregor von Rezzori  Città di Firenze (2016) e il Prix Formentor (2018). È stato inoltre più volte segnalato per il premio Nobel. In Italia Voland ha pubblicato i romanzi Travesti (2000), la monumentale trilogia di Abbacinante, consistente in L’ala sinistra (2007), Il corpo (2015) L’ala destra (2016); Perché amiamo le donne (2009) e Nostalgia (2012, vincitore del Premio Acerbi). Nel 2021 Il Saggiatore pubblica Solenoide, da molti considerato il suo capolavoro, mentre nel 2022 esce per La nave di Teseo Melancolia. Altrettanto importante, sebbene in Italia poco considerata, è la sua produzione in poesia, rappresentata in italiano da Il poema dell’acquaio, edito per Nottetempo nel 2015. La sua produzione finora tradotta in Italia è opera interamente del traduttore Bruno Mazzoni, professore ordinario dell’Università di Pisa.

Fumo negli occhi

Racconto di Marco Parlato.

Ho una fascinazione per le case degli altri, mi basta stare sulla soglia per immaginare segreti nascosti in bella vista. Una finestra aperta, il pavimento profumato, la lavatrice in funzione, avviene sempre qualcosa di inconfessabile prima che una porta di casa venga aperta.

Così ho pensato sulle scale che portavano al primo piano. Dalla parete di vetromattoni sulla destra filtrava la sagoma di Martin Paredes. Sembrava stesse trafficando con i cuscini del divano. Giunto in cima alle scale l’ho trovato seduto con le mani sulle ginocchia.

Avrà pronunciato delle formalità rimaste inascoltate, perché mentre parlava mi sono accorto di non essermi portato dietro il coltello e allora il mio volto ha certamente rivelato le mie intenzioni. Sono momenti, questi, in cui crediamo alla telepatia, come quando sentiamo che il telefono sta per squillare, e squilla davvero. Questo mistero, per cui da uno sguardo Martin Paredes abbia capito, io non me lo spiego tuttora. Mi sono arrangiato con il trofeo che stava sulla scrivania. Sangue ovunque, le mie impronte, la macchina vista dai vicini, altre testimonianze, mi hanno preso subito.

Il commissariato puzza di muffa e di sudore, i visi dei poliziotti sono fieri, hanno il mento all’insù, perché il crimine fa marcire anche i palazzi e un buon poliziotto col marcio ci convive. Ma meglio lasciar stare le metafore, che in un commissariato sono pericolosissime.

Seduto e ammanettato nella stanza degli interrogatori, osservo il commissario Acuña avvicinarsi, sputarmi il fumo del cigarillo in faccia, non per sbeffeggiarmi, lo fa con chiunque, non distingue più il respiro dal fumo.

Vuole dirci cosa è successo?, mi chiede.

Il problema di un reo confesso è che tutti gli credono.

Ho difficoltà a organizzare una confessione, dovrei cominciare da ciò che conosco meglio: la mia fascinazione per le case degli altri, appena entrato in un appartamento immagino segreti nascosti in bella vista. Una scrivania ordinata, la cucina che profuma di limone, il letto rifatto e impeccabile. Cosa fa la gente, prima di aprirci la porta?

Così ho pensato sulle scale che portavano al primo piano. Attraverso la parete di vetromattoni sulla destra non vedevo Martin Paredes, ma sentivo il rumore dei bicchieri poggiati sulla scrivania. Giunto nello studio ho preso il whisky che mi ha offerto, abbiamo brindato.

Il sole che filtrava dalle finestre segava la stanza. Paredes mi ha fatto una domanda nell’ombra, ha aspettato la risposta nel fascio luminoso, poi è tornato nell’ombra con un passo all’indietro, la mano che si muoveva accanto al cassetto della scrivania… Ci credete che lo spionaggio aziendale esiste persino qui? L’imprenditoria provinciale è un pollaio di gallinacci spennacchiati, ma ho detto niente metafore, con le metafore un uomo si rovina. Meglio le faccende concrete, la bottiglia che si spacca sulla testa e poi il vetro che trapassa la gola di Martin Paredes; io che provo a cancellare le tracce, ma con un macello simile basterebbe un novellino per prendermi.

Infatti mi portano subito in commissariato, la stanza per gli interrogatori è la più puzzolente.

Insomma, vuole dirci che è successo?, chiede il commissario Acuña.

Mastica un bastoncino di liquirizia. Lo sanno tutti che non fuma più, i cigarillos fanno malissimo, ha detto il dottore, così dice la moglie. Ma tutti sanno che Acuña, quando risolve un caso, se ne va sul tetto del commissariato e si fuma un robusto. Sputa il fumo più in alto possibile perché vorrebbe riempirne il cielo, creare il proprio mondo grigio nel quale sarebbe l’unico a sapersi muovere.

Mi rendo conto che le parole si susseguono con poca efficacia, il racconto è incoerente, c’è davvero qualcuno che si fida dei rei confessi? Dovrei cominciare da ciò che sento davvero mio. Non c’è niente di più intimo di un delitto.

Confesso di avere una fascinazione per le case degli altri, mi basta stare in strada e osservare le facciate, le file di finestre attraverso le quali osservo teste, mezzibusti in movimento, dettagli dell’arredo e immagino i peggiori segreti appena sotto la linea del davanzale, segreti che vengono nascosti in bella vista non appena la porta dell’appartamento viene aperta. Segreti che stanno dietro la porta di villa Paredes. Mentre salgo le scale tocco la superficie liscia della parete di vetromattoni sulla destra e guardo la sagoma deforme di Martin Paredes al centro della stanza, nella mano ha un oggetto scuro, che cambia dimensione al mio scorrere da un mattone all’altro.

Abbasso il finestrino e accendo un cigarillo. L’aria è calda e immobile. Devo scacciare fuori il fumo che rimane nella macchina e mi pizzica gli occhi. Nel cielo il sole è ancora alto e non tutti i vicini sembrano essere partiti per le vacanze.

Un paio di ore, magari tre, poi suonerò al campanello di Martin Paredes, varcherò la porta e salirò le scale fino al suo studio, nel quale mi starà aspettando con una mano nella tasca, un sorriso imposto, un caffè dal sapore strano che mi pento già di avere bevuto.


Marco Parlato ha pubblicato romanzi e racconti. Nel 2015 è stato scelto come autore italiano per il progetto Scritture Giovani di Festivaletteratura di Mantova. I racconti più recenti sono apparsi sull’antologia Multiperso (pièdimosca edizioni), su Super Tramps Club e sul terzo numero di Quattro. foglio letterario (Nuova Editrice Berti). Vive e scrive a Foligno.

Crescita

Racconto di Caterina Iofrida.

Da qualche tempo passavo i miei pomeriggi in un bar che serviva la crema di caffè. Mi ero trasferita da poco, un mese appena, ed ero in cerca di punti di riferimento per costruirmi una routine. Era l’inizio dell’autunno ma faceva ancora caldo; in genere, ordinavo la crema subito e in seguito, a metà pomeriggio, un tè freddo. Andò così anche quel martedì, solo che il tè era finito e presi un bicchiere di vino bianco. Avevo appena bevuto il primo sorso quando avvertii un prurito alla mano. Era localizzato in un punto preciso, appena a destra della nocca del mio mignolo sinistro.

A prima vista, non c’erano punture di zanzara o screpolature in quel punto, né alcun segno di arrossamento. Mi grattai e decisi di provare a non pensarci, mi guardai attorno a lungo, poi bevvi un altro sorso. Il prurito però non si attenuava, anzi dopo il secondo sorso di vino si fece più intenso e persistente. Mi grattai di nuovo, portando via un po’ di pelle, e rimasi a fatica seduta a finire il mio vino, prima di precipitarmi casa a cercare una pomata lenitiva. Per allora, andava molto peggio, e pure con la pomata la situazione non migliorò.

Arrivò l’ora di cena e mi preparai una salsa di pomodoro, tagliai l’aglio a pezzetti, sminuzzai il peperoncino, non potendo fare a meno di interrompermi a intervalli regolari e grattarmi.

Dopo cena, guardai un film fino a metà, ma il prurito non mi permise di concentrarmi a sufficienza, così decisi di andare a dormire. Un’ora dopo, di addormentarsi non se ne parlava, così decisi di prendere qualche goccia del sedativo che conservavo per i momenti difficili. Riuscii a dormire sei ore di fila.

Sei mesi prima, nessuno avrebbe immaginato che di lì a poco mi sarei trasferita lontano dalla mia città natale. Non l’avevo mai lasciata per più di una ventina di giorni, e un certo numero di fatti pratici – una casa di proprietà, tre gatti, un marito – stavano là a indicare una certa propensione alla stabilità, che del resto io stessa non mi sarei sognata di negare. Apparentemente, la mia routine quotidiana era rimasta identica da una quindicina di anni, ma nell’ultimo periodo erano cominciate a succedere cose.

Una di queste era stata la sparizione del pettine: lo riponevo sempre nel primo cassetto del mobiletto del bagno, eppure una mattina non ce lo trovai, e da allora non ricomparve mai più. Avevo cominciato allora a servirmi di una vecchia spazzola, ma, usando quella, i miei capelli non assumevano lo stesso aspetto di prima, rimanevano più gonfi; inoltre, una volta terminato di pettinarmi, impiegavo qualche minuto in più a liberarla dei miei capelli rimasti impigliati. Sul momento, tuttavia, non avevo dato peso alla faccenda.

Il risveglio fu sgradevole: il prurito era fortissimo, e nel grattarmi sotto le coperte, ancora mezza addormentata, sentii qualcosa di diverso dal solito. Mi ripromisi di controllare una volta che fossi stata più presente a me stessa, quindi andai a lavarmi la faccia e misi la moka sul fuoco. Osservai con attenzione il quadratino di pelle tra la nocca del mignolo e quella dell’anulare e notai che ora c’era un piccolo bozzo, come un rigonfiamento.

Andai al lavoro e trascorsi l’intera mattinata in ufficio sforzandomi di non grattarmi troppo spesso e di concentrarmi, ma non andò molto bene. Il prurito aumentava e pure il rigonfiamento, dopo qualche ora, mi sembrava cresciuto. Mi chiedevo se fosse davvero così o se, invece, mi stessi suggestionando per il fastidio profondo che provavo. Di sicuro, ero spaventata. Cercai su Google il recapito di un dermatologo in città e presi un appuntamento, ma non avrei potuto vederlo prima di due settimane. Nel tardo pomeriggio ero molto nervosa e preoccupata, e al prurito si era aggiunto un leggero dolore nello stesso punto. Tornai a casa e, senza mangiare, presi direttamente il sedativo, in una dose doppia rispetto alla sera precedente.

Il mattino dopo non sentii la sveglia e aprii gli occhi a fatica solo intorno alle dieci e trenta, intorpidita e con una gran confusione in testa. Capii subito che c’era qualcosa di diverso: il prurito era sparito, e così il dolore. Non avvertivo più nulla. Sdraiata a pancia in su, estrassi la mano sinistra dalle coperte e me la portai davanti agli occhi. Non c’era traccia di arrossamenti o bozzi. Cominciavo a tirare un cauto sospiro di sollievo, eppure c’era ancora qualcosa. Ma cosa? Continuai a fissare la mia mano per qualche secondo, sbattendo le palpebre. Tra mignolo e anulare non c’era più il bozzo, ma qualcosa c’era: un dito.

Dopo il pettine, era stata la volta dei calici da vino. Non erano scomparsi tutti assieme, certo; della prima sparizione mi ero accorta soltanto per caso, e chi sa dopo quanto tempo: non li utilizzavo praticamente mai tutti e otto assieme. La sparizione del secondo calice era stata un inconveniente da poco, ma quando venne a mancare anche il terzo mi trovavo nel bel mezzo di una cena con altre due coppie, che nemmeno conoscevo bene, e non mi aveva fatto piacere bere vino da un bicchiere da acqua. Quando, alla fine, ne era rimasto uno solo, avevamo finito per non adoperarlo più, e l’assenza di calici, anche se sulle prime non ci avevamo fatto caso, aveva modificato l’atmosfera delle nostre cene. Non che non bevessimo più vino, ma non rimanevamo più a sorseggiarlo con calma parlando a lungo, tra una portata e l’altra o una volta terminato di mangiare.

In seguito Alberto, mio marito, un avvocato, aveva cominciato ad alzarsi spesso da tavola per andare a controllare il cellulare di lavoro nello studio, e io avevo preso a guardare serie tv dopo cena, con il mio portatile appoggiato sul tavolo di cucina e gli auricolari nelle orecchie. Avevo cominciato con una sola puntata alla volta, poi ero arrivata anche a tre o quattro di fila, per cui raggiungevo Alberto a letto molto tardi, quando lui già dormiva. Dopo le prime volte, lui non mi aveva più chiesto di che serie si trattasse, e pian piano avevamo smesso completamente di farci domande a vicenda.

Grassottello e più corto del mignolo, ma comunque dotato di tre falangi, il sesto dito della mia mano sinistra appariva turgido e aveva la pelle molto più morbida e liscia di quella che ricopriva il resto del mio corpo; era nuovo. Lo esaminai con curiosità, piegandolo, stendendolo, muovendolo a destra e a sinistra, avanti e indietro. A quanto pareva, non aveva nulla da invidiare alle altre dita: funzionava a meraviglia.

Il giorno della scoperta non andai più al lavoro: si era fatto tardi, e poi avevo troppe cose per la testa: se farmi fare dei guanti su misura e da chi, se mascherare il dito agli occhi degli altri e come – arrivata a sera, decisi di non farlo – e pure a come lo avrei usato. Non mi venne in mente nessun impiego preciso, eppure mi sentivo in qualche modo certa della sua utilità. Non avevo fretta di capire, comunque.

Dopo cena, mi versai del vino rosso nel calice che avevo comprato qualche giorno prima – uno solo, tanto per cominciare, per me – e andai a prendere lo smalto. Bevvi un sorso di vino, poi lentamente, con grande cura, tinsi di rosso acceso la piccola unghia del mio nuovo dito. Nella penombra della cucina, brillava come sangue vivo.


Caterina Iofrida è nata a Pisa il 16 gennaio del 1981, è una nottambula che di giorno fa la biologa e la notte scrive. Oltre alla lettura ama molto il cinema, coltiva entrambi come passione e non ha mai voluto studiarli, per non rovinarsi il gusto. È convinta che nulla sia stato mai scritto bene quanto le sceneggiature delle commedie di Lubitsch, tranne forse le serie tv di Amy Sherman-Palladino, ma sa che si tratta di un’affermazione contestabile. Scrive regolarmente solo da quattro anni e talvolta si chiede perché non abbia cominciato prima, ma soprattutto non ha più intenzione di smettere, perché la faccenda la diverte troppo. Suoi racconti sono usciti su riviste online e blog letterari come Malgrado le moscheNazione IndianaKairosQuaerereIn fuga dalla bocciofilaMicorrizeVoce del verboIl mondo o niente, sulla rivista cartacea Seconda Cronaca (Cupressus Editore) e in due antologie, Fiabe storte (Edizioni Il Foglio, 2017) e In virus veritas (MdS Editore, 2020).