Presto mi staccherò da terra

Racconto di Caterina Villa, secondo classificato al Premio Lo Spazio Letterario 2024.

Pubblichiamo di seguito il testo terzo classificato per la sezione “Racconti” della terza edizione del Premio Lo Spazio Letterario: Presto mi staccherò da terra di Caterina Villa.


Un cappellino color panna, una tutina gialla e bianca, una verde. Due body di cotone così piccoli che non mi entrerebbe nemmeno un braccio. Aggiungo due mutande comode per me, di quelle senza cuciture, e un paio di calze elastiche. Mi servono per contenere l’esplosione dei capillari e delle vene che si sono dilatate negli anni, come fiori che non sanno smettere di sbocciare. Per ultime prendo le scarpette fatte all’uncinetto. Le ho ordinate su internet, dentro il pacco di cartone sembravano ancora più piccole, affogate in un mare di pezzi di polistirolo. Poso una mano sulla pancia, dove sento il peso della mia creatura, anche se lei non si muove mai. Immagino di toccare le sue dita minuscole. Le ho viste all’ultima ecografia, mentre sopra di me mio marito e la dottoressa confabulavano a bassa voce. Ho chiesto, le vedete. Non mi hanno risposto ma io le ho distinte chiaramente, tremolavano sullo schermo in bianco e nero come un ricordo mai morto.

Chiudo la zip. La borsa è color tortora, compatta. Me l’ha consigliata una commessa giovane con le labbra cariche di lucidalabbra. Ho passato la mano sul tessuto impermeabile, nelle infinite tasche e taschine. La prendo, ho detto alla fine e le unghie rosse con cui ha battuto il prezzo mi hanno fatto pensare alla bocca della mia creatura quando piangerà per chiamarmi. Cammino per la stanza mentre aspetto che mio marito venga a prendermi. Apro di nuovo l’armadio, è enorme e ricoperto di specchi; ricordo vagamente di averlo tanto desiderato in un tempo che adesso mi sembra appartenuto a un’altra donna. Abbiamo degli scomparti separati, io e mio marito. Qui i suoi completi, lì i miei vestiti. Uno scaffale è mio, uno è suo, uno mio e uno suo. Mi piego per raggiungere quello più basso. La pancia mi schiaccia la vescica, ma non è una sensazione spiacevole. Mi ricorda che finalmente sono piena fino all’orlo. Infilo le mani dietro i miei golf e afferro le tute, le magliette, le felpe. Le tiro fuori e le sparpaglio sul pavimento. Sono tutte piccolissime. In ginocchio, circondata dai vestiti che indosserà la mia creatura, sento che sto per schiudermi.

Se li vedesse mio marito li getterebbe via. Per questo li ho acquistati di nascosto e ho fatto a pezzi le loro buste grandi e colorate prima di farle sparire nei secchi in strada. Esito, poi li ripongo in fondo allo scaffale e chiudo l’armadio. Manca un’ultima cosa e per recuperarla devo andare nel ripostiglio e tirare fuori la scala. Faccio attenzione a mantenere i movimenti lenti, regolari. La serratura è vecchia, scatta a fatica. È quassù che ho relegato i vecchi album di fotografie, il cappotto blu che mia madre ha portato fino a che ha potuto, l’astuccio di stoffa in cui ho nascosto gli assorbenti inutili da quando ho smesso di sanguinare, ma che non volevo buttare. La scatola è lunga e stretta, sul coperchio il nome in lettere dorate di un negozio che non esiste più. Mi sento come se il mio corpo fosse troppo stretto per contenermi. Riscendo piano, i talloni nudi contro gli scalini gelati.

Apro la scatola e resto ferma a osservarla, acquattata sul suo letto di carta velina, le righe bianche e rosa strette come tagli di lametta. L’ho portata con me in ogni trasloco e l’ho riposta nei luoghi più bui che ho trovato. L’ho vista nei miei sogni e nelle mie preghiere così tante volte che non so contarle. Non l’ho mai indossata.

Mi sono sposata d’inverno come mia madre. Lei non ha voluto accompagnarmi all’altare, anche se mio padre non c’era più. Si era vestita a lutto, un buco nero spalancato nella navata, che risucchiava l’aria e lo spazio. Inghiottiva le note dell’organo. Mi son fissata le mani tutto il tempo. Il bouquet era di gigli. Sentivo freddo. La chiesa era enorme, le parole del sacerdote salivano verso l’alto e svanivano. Le ho dimenticate.

La camicia da notte me l’ha regalata qualche giorno dopo. È entrata nell’appartamento in cui ci eravamo appena trasferiti con la scatola davanti a sé, come uno scudo. Era mia, adesso è tua, mi ha detto, il cappotto ancora addosso. Ero la sua unica figlia femmina e da quando sono nata mi ha cresciuta con un amore impastato di ferocia che non aveva riservato ai miei fratelli. Mi aveva guardato sollevare il coperchio. Il fruscio della seta aveva riempito la stanza come un respiro. Poi si era mossa con uno scatto, le sue dita sulla mia pancia erano ghiacciate anche attraverso la lana del maglione. La camicia da notte mi era scivolata dalle mani, era caduta a terra. Devi riempirti o finirai col volare via, dai retta a me, ha detto, gli occhi azzurri e duri come le biglie per cui i miei fratelli litigavano da bambini.

Una fitta mi taglia il basso ventre. La voglia di ripiegarmi su me stessa fino a diventare un quadratino di carne è intatta, anche se il tempo ha invecchiato me e si è portato via lei. Mia madre ha indossato questa camicia da notte quando ha partorito me e i miei fratelli, e oggi finalmente sarò io a riempirla. La poso sopra le scarpette e richiudo la borsa.

Non me ne sono accorta subito. È cominciata con un gonfiore e una pesantezza che non sapevo definire. Poi hanno iniziato a stringermi troppo le calze, non sono più riuscita a entrare nei miei pantaloni preferiti. La consapevolezza mi si è posata sul fondo dei pensieri, come sabbia. Non ho avuto bisogno di test o di analisi e non mi è mai interessato sapere se fosse un maschio o una femmina. Non cambiava l’amore che già provavo. Ricordavo i racconti di amiche che avevano partorito ormai decenni prima, ma sentivo che la mia situazione era diversa. Si meritava delle regole nuove. Per esempio, non ho mai avuto la nausea. Qualche volta, la mattina dopo colazione, ho infilato due dita in gola per provare anche quello, ma poi mi ero sentita sporca, come se stessi sgualcendo un miracolo. Un pomeriggio ho guidato fino a un capannone in periferia. L’insegna diceva “vestiti per taglie forti”, e ho comprato di tutto: pantaloni, casacche, maglioni. Ci ho nascosto dentro il tesoro che mi dilatava. Non volevo che mio marito lo sapesse, non subito almeno. Siamo sposati da quarant’anni, ma non ha mai capito la mia paura di volare via. Non ha mai avvertito il terremoto che mi squassava con ogni perdita, con ogni test di gravidanza negativo. Non le ha mai sentite lui, le urla dei fantasmi che infestavano il mio utero vuoto. Ho custodito il mistero della mia creatura finché ho potuto. L’ho tenuta al riparo, anche quando faceva male, anche quando potevo sentirla scansare e schiacciare i miei organi. Non erano importanti. Non come lei. Le ho fatto ascoltare le mie canzoni preferite, le ho parlato di me; delle mani di mia madre sulle mie spalle, di come tiravano per farmi stare dritta; delle sue unghie perfette quando mi mostrava le foto del suo matrimonio. Ancora e ancora. Lei nel suo abito bianchissimo, il sorriso di mio padre come una ferita. Ho promesso alla mia creatura che non sarei stata come mia madre. Che l’avrei solo amata. Che non me ne sarei andata prima del tempo e con una manciata di parole amare in bocca. Due giorni fa sono andata al cimitero. C’era vento, nei vasi davanti alla tomba i fiori erano secchi, scricchiolavano. Lei mi ha guardato dalla foto di porcellana con il viso che aveva prima della malattia, gli occhi accesi. Non ho detto nulla, mi sono solo sbottonata il cappotto. Ho ruotato piano prima a sinistra e poi piano a destra per farle vedere bene cosa ero diventata.

Quando arriva, mio marito guarda sia me che la borsa. Hai preso una vestaglia, chiede. Io mi stringo nelle spalle. Ti servirà, insiste lui, hai sentito il dottore, rimarrai ricoverata per qualche giorno. Mi fissa dritto negli occhi. Dopo l’ultima visita mi ha detto: adesso ti devi operare. Io ho paura dell’anestesia, di cadere in un luogo da cui potrei non risalire, ma se è l’unico modo per far venire al mondo la mia creatura sono disposta anche a farmi tagliare a pezzi. Lui, figli, non ne ha mai veramente voluti. Non capisci, vorrei dirgli. Così rispondeva mia madre ogni volta che mettevo in discussione il modo in cui mi demoliva. Non capisci cosa vuol dire essere una madre, sibilava e le sue parole tagliavano e sigillavano insieme. Sono convinta che lo abbia pensato anche alla fine, quando me ne stavo in piedi accanto al suo letto, i miei fantasmi che ridevano. Seduta in macchina mi sento come se dentro di me tutto stesse prendendo una rincorsa; mi chiedo quanto sarà lungo il salto e dove atterrerò.

In ospedale mi fanno accomodare in camera. Ripongo nell’armadio la borsa e la vestaglia che mio marito mi ha costretto a portare. Mi siedo sul letto. Proprio davanti a me c’è un crocifisso. Ha le braccia sottili, allungate fino all’impossibile. Sento freddo anche se fuori c’è il sole. Mio marito entra ed esce dalla stanza. Oltre la porta socchiusa intravedo brandelli di camici. È sera quando mi portano dei fogli da firmare. La penna ha uno strano peso tra le mie dita. Cade, la raccolgono, me la rimettono in mano. Firmo e mi sembra che le spalle di mio marito tremino un po’. Corro in bagno e ho paura che, se non sto attenta, la mia creatura potrebbe scivolare giù con un tonfo. Passo la notte sveglia. La stanza mi sembra piena d’acqua densa, sporca e grigia. Cammino davanti alla finestra, il cielo è nero e senza fondo. Non so che ore sono ma a un certo punto tutto esplode di luci bianche e rosse, pulsano oltre il vetro. Lentamente realizzo che è un aereo, vicinissimo, seguo il suo cammino notturno verso l’aeroporto. Ne vedevo tanti da ragazzina, in spiaggia. Brillavano bianchi e azzurri come promesse mentre la sabbia mi cuoceva le piante dei piedi. Ricordo la pelle abbronzata di mio padre. Sei proprio una signorina, diceva, e io sedevo più dritta sulla sdraio, il seno che cominciava a spuntare e a farmi male sotto il costume. L’acqua si agita, poi recede. Mi sdraio a letto e penso agli aerei fino a che non arriva l’alba. Poi mi alzo, mi spoglio, nella luce bluastra la mia pelle è bianca e fredda come il ventre di un pesce. Indosso la camicia da notte e mi sembra che la seta bisbigli qualcosa, ma non afferro le parole. Mio marito arriva poco prima dei medici, mi abbraccia, inclina il corpo in modo da toccare la mia pancia il meno possibile.

Il letto scivola per i corridoi. Vorrei poter spiegare all’infermiere che mi accompagna che questo è il giorno in cui finalmente la mia vita avrà un senso, ma ho paura di dirlo ad alta voce. Resto sdraiata mentre il soffitto scorre veloce e poi piano sopra la mia testa.

Non so più aprire gli occhi, le palpebre sono come appiccicate. Mi prudono il naso, le guance, il collo, i polmoni, il cuore. Le mie mani sono lente e non riescono a grattare dappertutto. Le passo sulle labbra. Sento il rumore che fanno quando si spaccano. Una specie di sibilo. La bocca è un grosso sasso al centro del mio cranio. Dal seno in giù è come se mi avessero scavato dentro. In spiaggia io e i miei fratelli facevamo delle buche profondissime. Certi giorni immaginavo mia madre che inciampava e cadeva e cadeva, fino al centro della terra e oltre. Le mie palpebre si scollano piano. Una fessura grigia. Una macchia. Una parete. Il crocifisso. Vorrei girare la testa per non guardarlo ma ho il collo bloccato. In compenso, la pietra che avevo in bocca si è sciolta, è salata sulla lingua. Provo a muovere le gambe e le dita dei piedi, sono avvolte da qualcosa di fresco e di ruvido. In mezzo alle cosce ho un tizzone che brucia. Penso: la mia creatura. Ma le parole sono cadute nella buca sulla spiaggia. Dal fondo sale l’acqua di mare. Mio fratello minore urlava sempre quando iniziava a sgorgare.

Tengo la mano sospesa in aria davanti al mio viso. È viola e gialla e l’ago al centro sembra un insetto. Con un dito tocco la pelle, non fa male. Il mio collo si muove di nuovo, mi guardo intorno. Sono sola, sulla sedia c’è la giacca di mio marito, ma lui non è qui. Tiro su con il naso, non sento il suo odore. C’è solo un sentore di sangue e di qualcosa di denso, mi ricorda la pomata che spalmavo sulle piaghe di mia madre. Negli anni avevo perso il ricordo del suo corpo e l’ho ritrovato nel modo sbagliato. Infilo una mano sotto il lenzuolo. Il braccio si porta dietro dei tubi che fanno un suono di campanelle. I miei polpastrelli sono impacciati, si impigliano nella garza. È tutto piatto, non c’è più niente. Aiuto, penso, ma non so come dirlo. Le unghie grattano sul cerotto. Il dolore è secondario. Tasto e schiaccio. Stringo i denti. Mi sembra che dondolino nelle gengive.

Come si sente, chiede un’infermiera, avrà sì e no vent’anni. La pelle liscia e pallida, gli occhi grandi. Dov’è, chiedo io. Le sue sopracciglia sono molto folte, disordinate. Si torcono. Suo marito è al telefono, risponde. Non lui, ribatto io. Lei si affaccenda intorno alla flebo, si piega a terra, non riesco a vedere cosa fa. Tra poco passeranno a cambiare la sacca del drenaggio, dice. Parla troppo veloce. Vorrei afferrare le parole e rimettergliele in bocca. Insegnarle come si fa a parlare a modo, forse sua madre non l’ha fatto. Fosse stata figlia mia… Dov’è, chiedo di nuovo. Lei si stringe nelle spalle. Stia tranquilla, signora, l’anestesia lascia qualche strascico ma presto sarà come nuova, risponde, un sorriso le deforma la bocca. Non voglio essere nuova, voglio la mia creatura. È maschio o femmina? Forse questo non lo dico ad alta voce perché lei si gira, esce. Io infilo di nuovo le mani sotto il lenzuolo, gratto ma il cerotto tiene, sembra che l’abbiano fuso con la mia pelle. Mi chiedo come dirò al mio bambino che per farlo uscire mi hanno spaccata in due. Voglio chiamare il suo nome, ma non lo conosco. Ho tanto insistito con mio marito, lui, però, non mi ha mai dato retta. Eccolo che rientra. Voglio alzarmi, dico. Lui sospira. È presto, risponde. Dove lo hanno portato, chiedo e già sento sotto le dita la sua pelle. Ha i capelli, domando, perché mi sembra importante saperlo. Mio marito si passa una mano sulla faccia, le dita scendono e sembra che gli portino via gli occhi, le guance, i baffi. Devo chiamare qualcuno, chiede, la voce bassissima come il sibilo di una bestia nascosta. Sono la madre, devo vederlo, mormoro. Non c’è nessun bambino, dice e non guarda me ma il crocifisso con le sue braccia lunghissime, da mantide. L’ho pregato così tanto, così forte. È morto, chiedo a lui che però resta muto. Non c’è mai stato, dice mio marito e si alza, esce di nuovo dalla stanza. Mi sembra di essere rinchiusa in una capsula che mi sta portando più lontano dalla Terra ogni secondo che passa. Oltrepasso l’orbita del pianeta, ecco che è tutto spento e freddo.

Qualche ora più tardi arriva un dottore. Ha il camice immacolato. Socchiudo gli occhi perché tutto quel bianco graffia qualcosa dentro di me. Tutto bene signora, la massa era piuttosto importante ma l’abbiamo asportata integralmente, scandisce bene le parole che mi cadono addosso una dopo l’altra come sassi. Dov’è, chiedo. Lui si aggiusta gli occhiali sul naso, lancia un’occhiata a mio marito. So che l’ha portato dalla sua parte, chissà cosa gli ha raccontato. Al laboratorio del reparto di anatomia patologica, risponde e mi guarda come se fossi una cosa molto sbagliata da chiudere in un posto buio. Mio marito annuisce, mi fissa e allarga le braccia. Un gesto che chiede che vuoi di più, adesso ci credi. Ma io non ci credo. L’ho sentito. L’ho riconosciuto dopo una vita intera.

È notte. Cammino piano, curva in avanti. In una mano ho la busta del catetere e nell’altra quella del drenaggio. È piena di un liquido color marmellata di fragole. Il corridoio è in penombra. Mi appoggio al muro, alle porte chiuse delle altre stanze. Il dolore mi assale a ondate, come il mare della mia infanzia, ma non posso fermarmi. Entro nell’ascensore che inizia a scendere verso il piano interrato. Le porte si aprono su un silenzio denso. Niente pianti, né disegni o fiocchi sulle pareti. Ogni porta è contrassegnata da un cartellino, mi fermo davanti a tutti. Leggo con il naso appiccicato alla carta, le lettere mi si intrecciano davanti gli occhi. Le buste di sangue e di pipì mi pesano come macigni in fondo alle braccia. Accanto alla porta con su scritto “laboratorio di anatomia patologica” c’è una vetrata. Nella stanza hanno lasciato delle lampade accese, mandano una luce tenue che illumina lunghi tavoli. Un grumo bollente mi pesa in petto. Abbasso la maniglia. C’è un odore aspro nell’aria. Tutto è pulito e in ordine. In fondo alla stanza c’è un frigorifero. Mi sembra di essere precipitata in un luogo che non è di questo mondo, in una sacca silenziosa dove vengono esiliati quelli come me. Vuoti o svuotati. Tiro lo sportello del frigo, si apre con uno scatto. Al centro del secondo ripiano, dentro una vaschetta, c’è una massa rossa e marrone. Attaccata alla plastica c’è un’etichetta con il mio nome. Le buste mi scivolano via dalle dita. Il dolore è un tamburo che mi suona nelle ossa. Allungo le braccia, le mani mi tremano. Sollevo il coperchio. È gelido. Schiaccio la carne, la sposto. Cerco un occhio, un orecchio, una mano. So che ci sono, che li ho portati dentro. Le mie dita affondano. Non esce nemmeno il sangue. Voglio urlare ma non ci riesco. Stringo la massa che doveva essere il mio bambino. Il vuoto si dilata di nuovo nelle mie viscere. Presto mi staccherò da terra.

Lazzaro

Racconto di Alberto Bartolo Varsalona, secondo classificato al Premio Lo Spazio Letterario 2024.

Pubblichiamo di seguito il testo secondo classificato e con menzione speciale della giuria per la sezione “Racconti” della terza edizione del Premio Lo Spazio Letterario: Lazzaro di Alberto Bartolo Varsalona.


“εἶπαν οὖν οἱ µαθηταὶ αὐτῷ · Κύριε, εἰ κεκοίµηται σωθήσεται”
Gv 11,12

Fuoco era la statale, che amici e parenti s’erano portati botti e contro-botti da mezza Palermo: bombe, tuoni che facevano tremare le celle, sbarre e catene al Pagliarelli. Era da poco iniziato lo spettacolo d’artifici, di sbummichiate in su per il buio cielo, fuoco su fuochi, e lampi, e tagli come di tempesta, di malotempo verticale sull’immondo fiume Oreto, ove scorre non acqua, ma melma.

Gli ospiti dello stato si godevano, aggrappati alle sbarre delle finestre, la loro ospitata a intermittenza: per lo più la sua monotonia, fatta di mangiate e dormite e grascia e corpi uno sull’altro che non c’era più spazio, non ce n’era più di spazio – e che ci liberassero, pensavano, se non lo sanno manco loro dove infilarci. Ma l’ospitata statale era cosa sacra e non poteva essere negata, né rifiutata: solo nelle angustie, ristrettezze fisiche e morali, gli ospitati statali si educavano, s’affinavano a lima le animuzze penitenti: sottovoce s’inquisivano sul ferro del letto a castello – mi scusasse se ho fatto questo, se ho fatto quest’altro, mi scusasse: vero dico, non per finta, vero.

In questa cupa noia da confessionale, tra i rosari che il parroco aveva dato loro in pasto, come se avessero dovuto masticare le perline a mo’ di scaccio e semenza, la sorpresa era cosa assai gradita, fosse anche dilaniante e furiosa come quel gioco di fuoco. E durante lo spettacolo protratto di schizzi tambureggianti e astrali, d’immensi ventagli, pioggie d’oro e girasoli, i parenti davanti ai cancelli sul viale regione manco se li guardavano più, manco rivolgevano loro mezzo saluto, mezzo bacio schioccante, che avevano la testa rivolta al cielo, fattosi ora non di aria, ma di fuoco, e in quel cielo scorgevano strane cose e segni: facce, colpe: forse memorie.

Avevano fatto le cose per bene: era già passata una buona mezzora di botti, ma l’attesa masculiata, il rimbombo definitivo e assoluto, tardava ad alzarsi per l’aria. E sebbene lo spettacolo proseguisse, coi suoi frastuoni laceranti, quello se ne stava immobile e rannicchiato nel suo angolo di cella, che non ne voleva sapere niente di svegliarsi. Tutte le avevano provate e niente ci poteva: il picciotto dormiva di un sonno profondo, non di creatura morta, ma di entità in stallo: come se avesse spento, d’un tratto, il lumino della vita sua, fuocherello pentecostale sul cervello. Passava il giorno così, smuovendo la sua obliosa letargia a colpi di runfuliate, ora silenti e caute, ora graffianti, capaci di provocare trasalimenti ai compagni di cella, o alle guardie del corridoio. Non era un sonno tranquillo e pacificato, di lavoratore che si arricampa dopo aver buttato il sangue, ma dormita schifiata e umiliata, scaricata in brevi spasmi sulla faccia. Siciliano o maghrebino, nessuno sapeva da quale antro recondito del mondo fosse uscito fuori, che mica si ci poteva parlare, faccia a faccia, quattr’occhi, a chiedergli come ti chiami, da dove vieni: nessuno sapeva niente, né dentro né fuori dal carcere, come se fosse sfuggito per miracolo a qualunque autorità burocratica, infallibile domanda istituzionale, e pareva quasi che lo stato se lo tenesse sotto custodia giusto per fargliela scottare la strafottenza sua. Aveva la faccia smorfiosa e la pelle olivastra dei morti di fame, solo questo sapevano, che quello dormiva, runfuliava di bella.

«Lazzaro manco con le bombe si sveglia! Vai a sapere che si fumò…»

Divertito gridava agli altri Cusimano, sempre guardando l’aria infuocata, ed era come se parlasse alla notte. Il Pagliarelli scoppiava di gente, che a poco si dormiva uno sull’altro e le sezioni del carcere, i luoghi separati per reati, s’erano mescolati in un’oscena promiscuità di diversissime detenzioni: lo spaccino di borgata chiacchierava a lungo con l’ergastolano, il cravattaro col pluriomicida, tessendo una sapiente e fittissima rete di conoscenze che sempre s’andava slargando, di maestranze antiche e tecniche incrociate per eludere il braccio smorto della legge, della giustizia bendata con la bilancetta per pasta o pane – bracci obliqui, piatti dispari.

«Crack sarà stato, che per ora ai mercati scorre manco fosse acqua.» Rispose, fattosi serio, Gambino, che se li era visti morire tra le mani, tra spasmi e sussulti, alcuni picciotti, mentre a Lazzaro gli era finita di lusso, che dormiva beato. Non polvere bianchissima per nasi delicati di gente composta e incravattata, ma surrogato nauseabondo a sfasare ogni connessione, ogni recettore: lo scarto dello scarto svenduto, botta violenta che al primo scoppio di plastica salisse veloce, per poi stroncarsi, offuscando il mondo.

«Ma quando mai… Non ha niente il tunisino: sta meglio di tutti noialtri messi insieme, fresco e pettinato. Non lo vedete che ci sta prendendo per il culo? Se la ride, e ci scommette…»

Disse Spina seduto al tavolo da gioco dall’angolo più interno della cella, lì dove non arrivavano i lampi di colore, e Ferrante gli diede manforte, calando pesante briscola e pigliandosi ogni carta.

«L’abbiamo capita la pensata sua, che si fa ‘sta scenata, ‘sta farsa da teatro per farsi trasferire: all’Ucciardone si respira meglio che gira l’aria di mare. Viene il cuore che ce l’hanno a portata di mano, e s’arrifrescano anche solo col pensiero d’averla vicina. Per questo fa il teatrante…»

E nelle pause dilatate lasciavano intendere oscuri interessi e spietati tornaconti.

«Non gli fa giustizia ‘sta ‘ngiuria al malandrino. L’attore lo dobbiamo chiamare – altro che Lazzaro – grande e famoso attorone, che qualche volta ce lo vediamo spuntare in tivvù mentre si fa la sua parte, e runfulìa…»

«E magari la gente gli batte pure le mani!»

Era più forte di lui: ricercatissima scenata portava avanti il siciliano-maghrebino, coi suoi tratti di razza indistinta, che dormendo dormendo manco mangiava, tanto che si era disposto di far venire – quotidie – assistenti statali, convocati direttamente dal Palazzo della giustizia: sacerdoti di culti indicibili sulla vita, che d’urgenza con le loro pipette, coi loro sali minerali tentavano di alimentare quel corpicino olivastro che sul letto andava scomparendo, come se le ossa già prendessero curve forme, pieghe di lenzuola. Lazzaro aveva le vene già sfaldate sotto la pelle, infrante in sbocchi di sangue, rami bluverdi sul braccio, che gli assistenti manco potevano attaccare mezza flebo, mezza farfallina, e quindi si limitavano a bagnargli le labbra che la bocca l’aveva sigillata, e la vita sua pareva trascinarsi lungo la patina umida che varcava le gengive.

«Talè, talè che bravo: non ci può niente… non s’arrende…»

«Bella vita da magnaccio si fa Lazzaro, che non dà conto a nessuno e si fa le meglio dormite: servito e riverito che pare un barone. Scaltro è… scaltrissimo…»

Rinforzò Spina, ed ebbe un sussulto, un conato improvviso di vomito che gli fece salire la brodaglia della cena, quando per incerte e stranissime correnti la cella fu travolta da una zaffata stomachevole, e ciascuno smorfiando si tappò il naso, che il tanfo era insopportabile e li svuotava d’aria.

«Che è cretino Lazzaro che vuole il trasferimento? Da dove minchia parte ‘sto fiume disgraziato non si può capire…»

L’Oreto, il laido corso d’inafferrabili natali, scorreva col passo di una colata lavica, densissimo e melmoso, come se a monte fosse stato animato da soli scarti, soli detriti, o come se il medesimo fosse stato un arto incancrenito della campagna – Conca Ossidata. Di giorno in giorno si faceva sempre più lento, scrutando le forme delle rive, dei clivi che su di esso s’annegavano: s’ancorava alla terra per farsi terra; o quantomeno palude. Svogliato voleva forse arrestarsi definitivamente, e scontare la sua intossicazione di viscere, rigettando ogni cosa.

«Una volta pure un cavallo ci ho visto: mi taliò col muso locco e gli incisivi lunghi lunghi. All’inizio ci ridevo, poi no, che era morto e manco se ne scendeva: il fiume pareva tenerselo a galla per farmelo guardare. Tutto sminchiato… non aveva pace: sarà in mare adesso…»

Disse sottovoce Gambino, quasi a non volere rievocare – forma e colore – la morte violenta e animale, e ricevette prontissima la risposta di Spina, che pure logorandosi sempre nell’angolo più interno della cella, conosceva ogni movimento, in entrata e in uscita, ogni spiffero, parola detta o magari pensata dentro al carcere.

«Tutte cose là vanno a buttare; mica solo i cavalli: che fa, magari deve profumare? Pure le carte nostre, tutte quelle cose stampate – lo sanno loro, lo sanno, quello che c’è scritto – manco le guardano più, e le vanno a vurricare là sotto… come tanti cavalli…»

Se n’erano accorti subito i più acuti, che il fiume negli ultimi tempi s’era incartato, attuppato da stracci e cartacce: geroglifici consunti, alfabeti cifrati dai quali spiccavano nomi, e articoli, e commi, e anni. Raccolte le inutili carte, giornalmente, piccoli cortei di guardie giunti alle sue rive, gliele davano in pasto, come a volergli dare un contraccolpo micidiale, un’indigestione fatale: rutto inespresso alla divinità fluviale.

Scorrevano, incartapecoriti, anche i loro fantasmi anagrafici: Cusimano, e Gambino, e Spina, e Ferrante lambivano l’alveo in una poltiglia di dati improcessabili, ammuffiti lungo i fumi pestiferi che loro stessi dovevano sorbirsi, chiusi e stipati nelle loro celle – e soli brevi respiri tiravano, sui palmi della mani a serrare naso e bocca, come a voler sfuggire dalla frustata finale e cadaverosa.

«Questa giustizia me la chiamate? I giudici la ripassata delle nostre azioni se la possono fare al fiume, con qualche retino…»

Solo le generalità del dormiente, che mai s’erano indovinate, erano sfuggite del tutto a quella parola bendata, o forse il fiume le aveva da sempre occultate nel suo ventre di carcassa, intorno al suo cuore nervoso e affaticato che aveva precorso lo Stato; che aveva previsto Lazzaro stesso.

Tardava, tardava ancora il colpo definitivo, quasi non fosse stato nemmeno calcolato dai masculari, quasi non dovesse mai arrivare. E ogni rimbombo faceva tremare il busto da uccellino dei pelleliscia, figli e nipoti degli ospitati che i giochi d’artificio se li sentivano sul petto, sul cuore, e dovevano scaricare nella corsa quella energia trasmessa, imprevista e vigorosa, come volessero ripercorrere, in terra, quelle traiettorie colorate. Parevano ingestibili, che nessuno riusciva a farli stare composti, magari pigliandoseli mano e manuzza – saluta a papà, saluta al nonno e al bisnonno, allo zio, al trisavolo – invano ordinavano a strattoni i parenti maturi e maturati.

Pure loro lo conoscevano Lazzaro. Non l’avevano mai visto, eppure l’avevano scolpito in testa, tale e quale a com’era: così indistinto, così vago. Agli incontri con gli ospitati parentati, nei silenzi che a loro spettavano in quei momenti, quel nome avventuroso usciva sempre, sparlato e umiliato. Era un grande attore che le provava tutte per uscire, o quantomeno per farsi trasferire, e per lui facevano il tifo, chiedendo novità ai parenti, sperando di vederselo fuori e baciargli la mano: pure loro volevano scapparsene dalle zaffate dell’Oreto, dal malovento rifiutato, e sempre lo chiamavano da fuori, quasi servisse proprio lui per la loro fuga. Restavano i più sicuri, sempre saldissimi nelle loro opinioni: Lazzaro sarebbe uscito fuori, camminando fresco e profumato, senza alcuna benda.

«È mago e prestigiatore, mica se ne poteva scappare muto muto.

Vuole fare una cosa sistemata per noialtri che siamo il suo pubblico.» Disse un pelleliscia, parente diretto di un ospitato, che dei colloqui dentro al carcere ricordava solo il nome straniero del dormiente.

«Il nome suo, gridiamo il nome suo che esce!»

Suggerì un’altra pelleliscia, gracile gracile, con una voce squillante e luminosa: attendeva insieme a tutti gli altri un evento inesorabile, babbiando col mezzo sorriso sulle labbra.

Nei loro moti furiosi avevano occhi solo per il settore che s’era già fatto luogo di miti e di conti, di gesta straordinarie e prodigi: sapevano, sapevano bene che come arrivava la masculiata Lazzaro se ne usciva, magari volando, e con la pace della previsione guardavano dilatarsi, alimentarsi da sé, quel trionfo di miscele chimiche, di zinco arsenico antimonio rame in fiammate azzurre violette carminie, e anche se passavano i minuti, e le ore, e i mesi, mai volevano dormire, che il sangue gli bolliva, e pensando a Lazzaro, gli ribolliva, violento e smisurato: come se la vita, in lui inarcata, verticale s’alzasse in loro. Venivano colpiti in pieno dalle luci di nitrati, quasi che l’oro e l’argento potessero stendersi solo in quelle pelli lisce, e parevano dei lumini, sul lato degli orti infecondi, davanti i cancelli: un tappeto fitto di lumi smaniosi.

Non sapevano, non sapevano ancora delle botte e dei cappi, dei tagli sulle vene e dei ricoveri, delle cinture stese e legate al collo, giù come serpi. Non sapevano; e giocavano, inseguendosi sul largo viale, facendo vibrare l’immenso recinto di grate, quasi volessero violarlo: Lazzaro svegliati, gridavano al buio loro soli, Lazzaro vieni fuori.

Case in prossimità del raccordo anulare

Racconto di Alessandro Tesetti, primo classificato al Premio Lo Spazio Letterario 2024.

Pubblichiamo di seguito il testo vincitore per la sezione “Racconti” della terza edizione del Premio Lo Spazio Letterario: Case in prossimità del raccordo anulare di Alessandro Tesetti.


L’Istat rileva un’importante e non trascurabile congestione di case lungo il raccordo anulare che abbraccia la capitale. Le case si susseguono pochi metri di distanza l’una dall’altra, sono piuttosto simili: forma rettangolare, un’ottantina di metri quadri ogni appartamento, massimo tre piani.

Gli agenti immobiliari dichiarano che i tabagisti cercano case in prossimità delle strade ad alta velocità, dei balconi non gliene fotte proprio, nemmeno dei colori spenti o dell’intonaco ceduto, gli importa solo dell’adiacenza alle strade ad alta velocità, di ampie finestre dove affacciarsi. Io confermo, sono un fumatore immattito dal vizio, e mi piace vedere le macchine che scorrono e corrono sotto casa mia, però mi piace vederle più dal balcone che da un buco nel muro. Ho in affitto un appartamento al terzo piano, pago poco perché affaccia esattamente all’uscita dell’autostrada A1 Tor Vergata direzione Napoli. Le pareti non sono spesse, i vetri vibrano al soffio di vento poco incazzato, quando passano grossi tir o auto prestanti, la casa trema da far paura, la polvere pullula nei fasci di luce. Non ho mai pulito casa, ci pensano le macchine che passano, velocità che alza la polvere sbattendola flaccida e caotica e serpentina nei vari antri. Così come le sigarette mezzesbucciate collezionate in bilico sul davanzale, con le vibrazioni crollano giù, nel balcone al piano di sotto, e poi è compito dell’inquilino buttarle. Curiosità mia è verificare dove le butta, se di sotto con una scopa o le raccoglie in un sacchetto: quasi sempre di sotto con una scopa.

Siamo tutti diffidenti qui, ci salutiamo malamente quando affacciati, ognuno dai propri antri, ci mettiamo a fumare. Uno vorrebbe un po’ di intimità, mettersi a fumare senza altri cristiani, solo col raccordo anulare che abbiamo davanti e contare le macchine, le moto, i tir. L’inquilino di sotto sembra farlo apposta, appena mi sente, subito esce fuori a fumare. Non so che orecchie abbia, sente la rotella dell’accendino e s’affaccia, che dici, tutt’apposto? (solito esordio) io rispondo con un grugnito o con un sì. Lo so che vorrebbe parlare ma io non ne ho voglia, lui può parlare se vuole, sono io che non ho voglia di sentire la mia voce, di ascoltare la sua sì, può capitare. Ogni tanto si mette a raccontare dei suoi cazzi e scazzi: l’ex moglie che lo tradiva con suo fratello, lui che la tradiva con la cugina, il figlio che lavora a Mestre, le puttane che frequenta in Portonaccio, se ho voglia di farmi un giro pure io.

Ma io consumo la sigaretta, s’accumula la cenere all’estremità, faccio con la saliva una lunga stalattite e miro con l’intenzione di prenderlo in testa per poi risucchiare quand’è al limite. Mi parla senza guardarmi, e perciò non s’è mai accorto della stalattite, dovrebbe contorcere il collo, invece inchioda i gomiti sul parapetto e guarda dritto a sé: conta le macchina, le moto, i tir.

Gli psicologi studiano il motivo per il quale i residenti attorno al raccordo anulare pratichino con gran ferocia, delle volte unicamente, ossessivamemte, il sesso anale: ricevuto o donato.

Il mio caso non è, non stringo un corpo da anni. La notte prendo la macchina, faccio un giro completo del raccordo a centoventi, poi esco all’uscita Prenestina. Rallento e cerco le cosce che fanno per me, giro in fretta quando trovo quelle giuste. Accendo una sigaretta e gioco tra prima e seconda marcia, le puttane mi mandano a fanculo quando faccio le finte, perché rallento e pensano che mi stia per fermare, invece ci ripenso e vado via. Capita di voler ascoltare la loro voce, capita e non voglio altro. Allora mi fermo e abbasso il finestrino, cinquanta dicono, ed io non rispondo, cinquanta dicono, ed io non rispondo ancora una volta, non mi va di sentire la mia voce, ma la loro sì. Imprecano e mi danno dell’idiota, cazzo vuoi sei venuto a rompere i coglioni, noi qui stiamo lavorando, vattene via idiota. L’idioma è spesso dell’Europa del nordest o misto tra francese e inglese tipico di Lagos e Nigeria in generale, frasi scarne e rituali masticate in quel italiano-dialetto non imparato ma assorbito, udito e perciò ripetuto senza sede né sedimentazione: metto la prima e vado. Nello specchietto vedo un braccio alzarsi e una bocca spalancata senza voce. Non ho soldi, esco sempre senza soldi così da non avere il mezzo. La tentazione ce l’ho, non ho il mezzo, il fine sta a un passo da me con cosce che fanno per me e la bocca arrossettata, il mezzo è rimasto coscientemente a casa, in tasca non ho un centesimo. Una volta ad una di loro ho risposto, dopo il solito esordio (sempre soliti esordi, tutti noi parliamo per repertori), della bestemmia e dell’idiota: culo, dico, culo chiedo. Cento, fa lei, ma lo dice per meccanismo, l’espressione è incredula, sa di star perdendo tempo. Sorrido e non rispondo, metto la prima e un braccio alzato che fa sciò sciò stronzo. L’unica volta che ho ascoltato un’altra parola da quelle bocche arrossettate, il secondo step di quelle frasi rituali e scarne, emanate e non custodite.

Tre anni fa quando stringevo il corpo, non abitavo ancora qui e non ho mai avuto il desiderio di praticare sesso anale. Vorrei chiedere all’inquilino di sotto se ogni volta spende una piotta, perchè così dicono gli psicologi: vivere vicino al raccordo anulare provoca un aumento del desiderio rettale, ricevuto o donato; e magari è vero, perciò indago, ma non c’è questa confidenza, forse la prenderebbe a ridere, ma non mi va di sentirlo più amico ogni volta che ci affacciamo a fumare, gli uomini hanno questa cosa che si sentono più amici quando parlano di sesso, si sentono più amici quando parlano di violenza e aggressioni e bande e gruppi e misure e superiorità. Contorcebbe il collo per guardarmi e sarei costretto a guardarlo, nella verticalità che ci separa, non formare le stalattiti, perlomeno notare le fibre cutanee, le rughe faticose, la

contorsione. Quando poi gliel’ho chiesto, lui s’è fatto una bella risata, una risata talmente scenica che gli è caduta la cicca dalle mani, poi com’è suo solito s’è contorto dicendo ma quelle fanno così, tu ci devi giocare, quelle fanno così, ci provano, devono pur incassare, ti direi di venire con me, andiamo insieme, ti mostro come si fa, non più di venti per quello e cinquanta per l’altro, sennò come ci arrivo a fine mese, quando si rigira mirando e conteggiando le vetture, accende un’altra sigaretta e continua a ridere, di una risata davvero plateale. Provo a formare la bava ma non ho saliva.

Gli psicologi verificano un netto numero di onirismo notturno da parte dei residenti in prossimità del raccordo anulare preoccupante: nel sogno c’è il proprio corpo che gira su stesso senza fermarsi mai soffrendo di nausea sfibrante e poi una perdita d’equilibrio, la caduta e la morte.

Io come ho detto prima, la notte prendo la macchina e giro, il più delle volte fin quando non mi viene sonno e mi addormento alla guida. Allora cerco un parcheggio spoglio e dormo o continuo a guidare per vedere quello che succede. Non mi piace tornare a casa e provare a dormire, mi fa sentire solo e gli uomini hanno questa cosa che non sopportano sentirsi soli, e poi non dormo, che senso ha tornare a casa se poi non dormo. In macchina di sogni non ne faccio, il mio psicologo dice sia l’assopimento furioso imposto a sassate, quindi è normale non sognare; a non essere normale, dice, ma io non sono molto d’accordo, è addormentarsi in macchina.

Vado dallo psicologo che saranno dieci anni, ma lo frequento da molti anni addietro. Eravamo pischelli quando ci siamo conosciuti alla scuola di recitazione, il venerdì pomeriggio a Garbatella. Io facevo la parte del tossico e lui del matto, portavamo in scena Caligari, e nessuno capiva, eravamo davvero bravi ma nessuno capiva. Poi con l’università abbiamo smesso di recitare, io mi sono trasferito a Bologna per fare il Dams e lui è rimasto a Roma. Ha iniziato Medicina con l’idea di fare psicoanalisi poi, neanche un anno che s’è scocciato e ha virato in Psicologia, non gli interessava studiare il corpo umano ma solo la coccia, non più i matti ma gli stati dell’umore, le persone alle prese con le oscillazioni.

Essendo amici si prende meno soldi, quando le cose gli vanno bene non si prende niente. Evitiamo di uscire come una volta, non ci prendiamo una birra da anni, l’ultima volta è stata per confidarmi la morte di sua madre, e lo doveva fare evidentemente fuori da dove ci vediamo di solito e cioè fuori dal luogo di lavoro per non confondere o peggio scambiare i ruoli in cui siamo finiti e invischiati, non più amici ma medico e paziente. Ci incontriamo nel suo studio, un paio di domande di transizione, poi iniziamo. La mia disperazione è sempre più o meno la stessa[1], lui mi dà degli spunti ma non ho mai capito se è bravo. Di rivolgermi a qualcun altro non se ne parla, non ho soldi e poi vederlo è un modo per non perderlo. Forse sto meglio quando prendo la macchina e vado da lui, sto meglio nell’attesa dell’incontro che dura giorni e non arriva, mentre quell’oretta di monologo e breve dialogo a volte aiuta a volte no. Esco da lì e mi sento svuotato ma è la stessa sensazione del post coito, dura un attimo, la stessa sensazione di quando cerco quelle donne e interazione con esse ma poi mi mandano via. Ed io che continuo a dire al mio migliore amico, nonché disgraziatamente, psicologo, che mi voglio ammazzare quasi ad avvertirlo, e lui che mi dice: il motivo è l’oppressione artistica, devi scrivere cazzo, perché non scrivi, concentrati cazzo. Il turpiloquio è la linea sottile che smentisce i nostri ruoli, da medico-paziente ad amici, mi fa stare meglio. Ma forse non siamo più nemmeno amici, dovrei cambiare psicologo per tornare ad essere quello che eravamo, io il tossico e lui il matto in un teatro della Garbatella, io quello andato via, lui quello rimasto, a vederci finita la sessione, recuperare il tempo perduto. Allora provo a scrivere di notte in macchina l’inverno sui vetri appannati, come se il problema fosse il mezzo, il supporto: non la carta, non il computer, servono i vetri. Ci sono due personaggi che mi ossessionano, due ventenni sfaccendati che girano e girano, indaffarati dalla scimmia e dal morbo, li conosco benissimo, li ho perfettamente in testa come per ricordo, ma perché non mi parlano non lo so. Appena gli chiedo di aprire bocca non mi parlano. Poi il consiglio è stato scrivere di sesso, ma esce roba frettolosa e schematica, non possedere un corpo ma possedere il linguaggio, applicare il desiderio nel diverso e affine luogo-del-desiderio: devi desiderare, mi dice, tu non desideri, aspiri, vuoi, ambisci, rosichi ma non desideri diocane, corteggia e esci da questa situazione, desiderare un corpo, desiderare il linguaggio: tu non hai né l’uno né l’altro, è tutta qui la tua dispersione, poi perde la pazienza e non scaccia sillaba. Io so che reputa patetico tutto questo, facile da diradare espellere rimuovere disperdere, e anch’io m’incazzo e non scaccio sillaba, fargli capire che non è affatto facile non riuscire a scrivere più, patetico che continuiamo a vederci in questo studio solo per non abbandonarci: l’ora finisce e me ne torno a casa, quindi chiudo gli occhi e vedo quello che succede. Il raccordo anulare è deserto stasera e di cercare corpi proprio non ne ho voglia. Vedere le case in prossimità della strada è una sorta di uscita. Qualcuno è affacciato e mi chiedo chi, dal proprio veicolo, nota me che sto per sputare all’inquilino del piano di sotto. Ma non ne vale la pena pensarci, soprattutto a questa velocità, con gli occhi chiusi: questa non è un’uscita.


[1]  Il mio schifo di lavoro al catasto; voler scrivere sceneggiature la notte ma non stendere nemmeno un rigo; l’ossessione per il sesso senza praticarlo; il fascino del suicidio automobilistico.

Un altro nuovo mondo

Racconto di Roberto Pedotti.

Informe, senza nome, con tutti i nomi. 

«Agid Böhm, Germania. Luogo di nascita: Magdeburgo. Quindici anni di servizio. Dipartimento: astrofisica teorica. Famiglia: assente. Sei stato scelto per il quindicesimo lancio. Congratulazioni». Lo sguardo del rettore gli fa capire quanto sia importante per lui quest’ultima nomina.

L’anno è irrilevante, ma non lontano. L’umanità, sopravvissuta a ogni suo tentativo di uccidersi da sola, vede per la prima volta dall’Osservatorio di Greenwich qualcosa di ben strano: sette punti nel cielo, quasi contemporaneamente, brillano intensamente di una luce azzurrina, per poi dileguarsi nel firmamento. La squadra di astronomi che assiste all’evento la chiama convergenza, la definisce come una coincidenza, tra le infinite casualità dello spazio infinito. 

Ma il giorno dopo, altre ventiquattro stelle scompaiono. 

«Heat death», e mentre lo dice non gli sembra che esca alcun suono dalla bocca. Immagina invece di aver creato una bolla, ripiena di parole e significati: in tedesco quel termine ne ha così tanti

«Ma che bel bambino, come si chiama?»

«Agid. Agid, dài, di’ ciao alla signora».

Suo padre lo spinge in avanti dolcemente, gli strofina la nuca per rassicurarlo, ma Agid si mette le mani davanti alla bocca e corre a nascondersi dietro le sue gambe imponenti, grandi come la più grande quercia del mondo. Anni dopo, al liceo studia di Yggdrasil, l’albero mitico che tiene il mondo intero, e pensa alle gambe del padre, impiantate salde per terra. 

Kauer Böhm è sdraiato su un letto di ospedale. Non vede più – dice la dottoressa –, il tumore gli ha preso gli occhi. Papà sta morendo fra mura ingiallite. Papà che quando aveva avuto la varicella gli aveva regalato una piccola mappa del sistema solare ed era stato con lui tutto il tempo a raccontargli dei curiosi altri nuovi mondi che aspettavano dall’altra parte di esser scoperti. Papà che aveva sorriso sentendogli dire per la prima volta che voleva studiare le stelle, papà.

Agid pensa a Yggdrasil e alle sue gambe che non riesce più a vedere, fra le coperte pesanti, mentre gli carezza la barba incolta. Nella sua mente, là sotto le radici corrono a impiantarsi nelle fondamenta dell’ospedale e più in fondo ancora, fino ad arrivare al nocciolo della terra. 

Nocciolo. Nüss. Hasselnüss. Nocciola. Ed eccola davanti ai suoi occhi in mezzo alle figure informi, dove tutto cambia, il guscio scuro e lucido che riflette la luce (che luce? Da dove arriva questa luce?) E sembra, no, è la stessa che aveva gettato nel fiume con lei la notte che era partita. 

Il tonfo quando cade in acqua sembra coprire tutti gli altri rumori del bosco. Anche lei lo avverte, si guardano e senza capire perché ridono. 

Ha le labbra strette e le iridi verdi costellate di satelliti castani, che si illuminano di luce propria mentre gli parla di microbi e tardigradi e ambergris. Lui la guarda come se fosse un miracolo. Per un attimo non gli interessa nulla dello spazio, delle stringhe, delle stelle di neutrini, rivede l’enormità del tutto nella sua pelle liscia e scura e preferisce gettarsi in lei che in una navicella verso il vuoto, che in quel momento gli appare freddo, freddissimo. 

Quando si rivestono le chiede se è sicura di partire, spera non confessandolo in un suo ripensamento, ma lei risponde che è deciso, che ha già comprato il biglietto e che la sua vita la attende là, lontano, che oltreoceano ci sono cure sperimentali nuove, e che anche non fosse, ci sono tante piccole bellezze che deve ancora scoprire. Che vuole ancora scoprire.

Rialzandosi, ansima, ma non smette per un attimo di fissare Agid, come se stesse forzando il suo cervello a fotografare le sue borse sotto gli occhi, i lineamenti scavati e le cicatrici dell’acne, tutti i dettagli che lo rendono una persona, e non un’idea. Gli dice che è meglio così per entrambi, che se restasse lui non si dedicherebbe al suo obiettivo, toccare le stelle con mano. Racconta una storia che suona falsa ad entrambi, su come sia meglio andarsene quando c’è ancora amore. Gli carezza la guancia, gli lancia un’ultima occhiata, coi suoi occhi profondi e vasti, lo spazio fra due corpi celesti, lo stesso che lui sente sta per crearsi fra loro due .

 «Promettimi di dirmi cosa c’è al centro di tutto quando ci sarai arrivato».

Heat Death. 

E la nocciola si apre e al suo centro danza una fiamma ardente, ma più Agid la fissa, più tremola incerta. 

È su tutti gli schermi, su tutti i giornali. Heat death, la fine del ciclo del nostro universo, una serie di reazioni a catena che partono dalle sue estremità per arrivare al suo centro, nell’occhio. Ogni sole innesca una supernova, ingloba i pianeti circostanti per poi scomparire dalla mappa. In meno di venti giorni, quattrocentoventi sistemi solari vengono osservati estinguersi. 

Ma si calcolava che mancassero milioni di anni.

I calcoli erano sbagliati.

Tempo stimato perché succeda al sistema Helios: meno di due anni.

Possibilità di impedirlo:

Nessuna. 

La fiammella muore. Intorno tutto si fa buio, ma Agid lo sente muoversi ancora. Come scosse telluriche, sente che non ha ancora finito di vivere. Scalcia, ma manca poco, manca poco. 

Qualche ricco e potente crea delle capsule fatte per resistere al vuoto siderale, iper-reattive e dotate di ogni comfort. Dittatori, CEO e presidenti vengono avvistati catapultarsi oltre l’atmosfera senza alcun preavviso, puntini che veloci scompaiono e tornano al niente.

Ma il mondo non cade in preda al caos. Nelle città e nei paesi la gente si riunisce. Canta, gioca, ride, fa l’amore, si abbraccia. Questa volta tutti sanno che non c’è fuga, che il più forte farà la stessa fine del più debole, e si ama di più.

Accademie, istituzioni, governi si stringono in un ultimo interrogativo: le più grandi menti del pianeta si trovano per la prima volta nella storia a concordare sul fatto che prima della fine è necessario sapere cosa ci sia nell’Occhio dell’Universo, nel suo centro rovente. Lo chiamano Dio, il Tutto, il Nucleo Quantico delle possibilità, l’Uovo, ma il nome non importa più. I lavori per creare i veicoli da scagliare nel vuoto procedono veloci, velocissimi, perché chi lavora vuole aiutare a trovare l’ultima risposta e sacrifica tutto con mani sporche e felici.

Agid è fra i primi a iscriversi al programma, supera tutti gli esami con il massimo dei voti, pensando a suo padre e a lei, pensando che deve a loro ogni cosa, e non si risparmia.

«Agid Böhm, Germania. Luogo di nascita: Magdeburgo. Quindici anni di servizio. Dipartimento: astrofisica teorica. Famiglia: assente. 

«Sei stato scelto per il quindicesimo lancio».

Agid sta cadendo ma non esiste un terreno su cui atterrare. Sente il clamore dei balli sulla Terra e l’utero di sua madre morta durante il parto. Agid cade e continua a cadere, senza appigli

Salendo sulla rampa di lancio, vede Mark correre verso di lui. Incurante delle norme di sicurezza, strattona le guardie e il pubblico per avvicinarsi. 

«È morta, Agid. Erano anni che il cuore giocava a dadi con lei. Mi ha chiesto di ricordarti della promessa». E il cuore di Agid ora gioca a dadi con lui, si inabissa, ma non cambia rotta. I passi dentro la scatola in titanio e speranza non sono meno decisi. 

Quando si stacca da terra, la navicella è un pennello leggero, e traccia fra le nuvole i suoi occhi. 

I piedi di Agid, astrofisico e astronauta, non toccano terra, ma non sente più di stare precipitando. Le contrazioni intorno a lui si sono fatte più lente. Attorno, sagome aliene si mischiano a immagini familiari. Un letto di ospedale, una nocciola, un libro di mitologia nordica. 

È a metà strada, a migliaia di anni luce da casa, che una voce elettronica lo avverte:

«Attenzione. La massa di Helios ha superato il limite critico di stabilità. Collasso imminente».

Non la vede, Agid, la fine di tutto quel che ha conosciuto. Non riesce nemmeno a immaginare il sole, che in un agosto lontano brillava mentre lui correva con uno shuttle giocattolo in mano, rinchiudersi nella grandezza di una nocciola e poi esplodere in una luce bluastra, catturando nel suo abbraccio il golfo di Palermo, le montagne dell’Oklahoma, i boschi di Magdeburgo.

Mentre il computer urla, lui torna alle gambe del padre e agli occhi di lei, a Yggdrasil, le cui radici salde non possono cedere nemmeno davanti all’esplosione del sole.

E continua verso la meta. 

Tutto tace.

Agid si sorprende a udire il suo respiro all’interno del casco. Nel silenzio cosmico, suona come quello di un gigante risvegliatosi da un sonno lungo millenni. Lo trattiene per qualche secondo ma appena si accorge quanto sia spaventoso non avvertire niente, comincia a respirare angosciosamente. 

Agid iperventila, cade nel panico, si contorce al posto dell’Universo, forse credendo di starlo salvando, di starlo invitando a ballare con lui, a scuoterlo, a reagire. Ma l’universo è silente.

La navicella passa attraverso la polvere di sistemi consumati. Dallo schermo il pilota vede nastri di luce carezzare le pareti del vascello, avvista forme tetradimensionali fissarlo curiose, lingue di tenebra che si accoppiano con batteri impossibilmente enormi, meraviglie e terrori che non riesce a descrivere e che gli bucano la testa se tenta di concentrarsi. Tutti lo lasciano andare, e lui si racconta sia perché anche loro capiscono dove sta andando, si convince lo stiano incitando verso la meta, gli stiano dicendo che manca poco, ancora poco, scimmia col casco, sei quasi arrivata. 

E Agid, ultimo pilota, ultimo essere umano, scorge l’Occhio dell’Universo, distante e allo stesso tempo vicinissimo: è un buco rigonfio, solcato da fulmini solidi che si imprimono e si spezzano in altri multicolore, è un cerchio perfetto senza geometria, un punto minuscolo che avvolge l’orizzonte, un trucco ottico che rimane dopo averlo lasciato, porte del Paradiso e voragine infernale. 

Si dimena, Agid, primate di cromosoma XY, sente di non essere più del tutto vivo. 

È a quel punto che la nave si incrina. Le pareti si piegano, cambiano di materia, decadono, diventano di legno, poi di pietra, poi di leghe sconosciute e irreali, di colori nuovi ed estranei che si sfaldano e si ricompongono, e Agid avverte le ossa scricchiolare e gli occhi cuocere dentro le orbite, il cervello congelarsi, contrarsi ed espandersi toccando il cranio.

Agid sa di stare morendo, ma spinge i propulsori, la tuta, le gambe, la mente, spinge ogni cosa mentre perde il controllo lanciandosi verso l’orizzonte degli eventi e solo quando sa di essere oltre si abbandona alla presa dell’Occhio.

Agid si schianta contro il cielo. 

*

C’è della terra sotto il suo palmo. È umida e calda, e fili di erba dondolano in mezzo alle sue dita. 

Si alza, confuso. Ricorda di esser caduto e di aver volato, ricorda di essere morto. Si rende conto di esserlo in parte. 

L’odore di legno vecchio come il mondo invade le sue narici, e senza pensare al come, capisce dove si trova: sono i boschi attorno a Magdeburgo. Querce e faggi e salici piangenti lo accolgono a casa. Agid si toglie il casco, inspira. L’ossigeno non riciclato gli fa salire le lacrime agli occhi, ed è solo quando con il dorso del guanto le scosta che le vede tutto intorno a lui.

Fra i tronchi aleggiano migliaia di luci minuscole, ciascuna non più grossa di un granello di sabbia. Vorticano senza peso e si condensano in galassie delle dimensioni del suo volto.

«Sono meravigliose», e la sua voce ora echeggia fra gli alberi e non fa più paura. 

Corre Agid entusiasta a esplorare la mappa del cosmo, senza metodo e con un bisogno infantile, piange e le gocce si impigliano fra la polvere di stelle, e così non si rende conto che ai lati della foresta il bagliore si sta spegnendo, prima lentamente, poi senza pietà. 

Quando se ne accorge, impazzisce. Corre furioso a vedere le luci, tutte le luci, bestemmia e sa che il tempo è già scaduto.

Le afferra con più cura che può, le tiene accanto ai suoi occhi, ma ogni fiocco che gli muore davanti è minuto e splendido e terribile, troppo intricato perché possa capirlo in una vita che non ha già più. Le parti di un telaio impossibile si sgretolano in polvere fra i polpastrelli.

Agid Böhm, tedesco, nato a Magdeburgo, quindici anni di servizio, del dipartimento astrofisica teorica, ultima persona in vita, capisce meno adesso di quando era partito. Si mette le mani davanti alla bocca, ma non ha gambe imponenti dietro cui nascondersi. Sotto il terreno le radici di Yggdrasil, vecchie, stanche, hanno lasciato la presa. Rivede suo padre entrare in camera, in piena notte, per sedersi al lato del letto e sussurrargli che è tardi, che c’è tempo domani per leggere di tutte le stelle distanti, di spegnere la luce ora. Chiede a entrambi altro tempo, ancora un attimo, per favore.

Ma la foresta non ha orecchie per ascoltare, e resta una fiamma solitaria accanto al fiume. Oltre, non c’è più nulla.

Così, Agid si appoggia al tronco che sa esser lo stesso vicino al quale con lei aveva fatto l’amore, e si accascia. 

Nel momento in cui l’ultimo tizzone si spegne, chiude gli occhi, e quasi gli sembra di sentire qualcuno accanto, col viso poggiato sull’incavo della spalla. 

Un fascio di nervi brilla in un’ultima striscia di messaggi, simile al calore di una carezza alla guancia, a una mano strofinata sulla nuca. Un rumore di foglie toccate dal vento attraversa le tenebre.

E una costellazione di immagini implode ai margini del cervello. Le illustrazioni di un libro mutano nelle radici di un albero nascoste da lenzuola d’ospedale. Labbra strette in un sorriso triste si affiancano a satelliti castani trasformati in cenere. Le dita di un bambino mentre tentano di afferrare il cielo dipinto sul soffitto di camera sua.

Agid tende qualcosa, le ultime sinapsi che restano gli suggeriscono “mano”, anche se mani non ne ha più, prova a raggiungerlo ancora una volta.

Poi la lascia andare.

Agid non aprirà mai più gli occhi, eppure vede chiaramente la nocciola sul fondo del fiume,

il seme del prossimo Yggdrasil.

Agid vede.

Lo vede.

Un altro nuovo mondo, sbocciato nel solco del vecchio.


Roberto Pedotti è insegnante, traduttore e giornalista. Scrive poesie e racconti, e cerca di trovare le poche giuste parole con cui esprimersi (spesso fallendo). Adora le incomprensioni e gli anagrammi, e infatti online lo si trova come @orbiteprodotte.

Su “La verità e la biro” di Tiziano Scarpa

Nota di lettura a cura di Lavinia Ceci.

Autore prolifico e discusso, Tiziano Scarpa ha recentemente pubblicato per Einaudi il suo ultimo lavoro dal titolo La verità e la biro. Dico lavoro perché, a ben vedere, tale titolo difficilmente rientra nella tradizionale categoria di romanzo, quello fatto di trame e personaggi. Infatti, come l’autore stesso specifica con un’«Avvertenza» ad hoc in apertura, il racconto segue una sorta di collazione di «fatti accaduti anni fa e altri abbastanza recenti»; fatti, appunto, che precedono «quella diagnosi» su cui l’autore non si dilunga ma che lascia come «sottinteso di ogni parola», un sottofondo dagli «accesi toni azzurro cielo o rosso sangue». In sostanza, La verità e la biro appare alla penna dell’autore come un richiamo all’ordine, una ricognizione personale, un tentativo di intrecciare in nome del Vero i due grandi temi della sua poetica: il sacro della filosofia, dell’arte e del bello; il profano dell’indagine nei più materici aspetti dell’esistenza umana e nei rapporti che in essa si iscrivono. Eppure, sono gli occhi del lettore il vero target della riflessione: strumenti in grado di decifrare e progressivamente svelare le verità – tali o presunte – di cui l’autore dissemina il testo, quasi nel tentativo di prodursi in un’estrema confessione, quasi un denudarsi, che assume i drammatici connotati della summa filosofica.

Il testo ha un’impostazione diaristica, struttura che permette all’autore di muoversi liberamente all’interno delle questioni discusse, lavorando tanto per associazioni paratattiche di idee quanto in forme concentriche: spesso una riflessione tira l’altra, generando un sistema di parallelismi e variazioni che, pur nella loro incostanza, mostrano una logica di fondo che segue il fil rouge della verità e della sua confessione, intendendo «apertamente affrontare la questione della verità, [de]le cose che si possono dire e quelle che è meglio tenere segrete per non sgretolare la società». D’altro canto, l’impostazione diaristica ha una sua deontologia della verità, e l’autore la prende a monito e regola per costruire l’impalcatura del discorso. Discorso che procede entro la narrazione di un duplice viaggio: quello estivo in compagnia della consorte Lucia, in una Grecia spaccata tra il consumismo dei villaggi turistici e le reminiscenze filosofiche della Grecia Antica di pensatori e poeti; quello più intimo e personale di rilettura della propria esistenza, dall’infanzia all’età adulta, con annessa confessione di fatti ed eventi veritieri e particolarmente segnanti.

In tale articolata dinamica, che lavora in modo ondivago tra passato e presente, teorico e pratico, Scarpa dissemina i suoi strampalati spunti di riflessione, fornendo spesso quadretti bassi e triviali: il sesso orale praticato da una studentessa di filosofia, donna le cui parole avevano sempre un ché di vero, almeno a detta dello scrittore, «perché me le raccontava lei stessa, di persona»; la spiaggia nudista su cui approda con la moglie; il catechista pedofilo; il consumismo della Grecia turistica. La riflessione sulle figure femminili appare quella più insistita: le diverse ragazze menzionate nel romanzo, tutte senza nome, assumono agli occhi dell’autore oramai anziano il ruolo di mistiche portatrici di verità quotidiane, che vengono in un certo senso “consumate” al pari dell’atto sessuale. La studentessa di filosofia, quella di letteratura russa, la ragazza dagli occhi spiritati scatenano, nel distratto e quotidiano loro mettersi a nudo dinanzi a un uomo, riflessioni profonde che dialogano col presente dell’autore in un progressivo disvelamento di verità taciute o nascoste. Ovviamente, si tratta di un meccanismo tutto interno alla mente dell’autore, rispetto al quale il contatto con queste figure è puramente funzionale: le donne non vengono assunte a divulgatrici di queste piccole verità, ma sono semplici evocatrici, le cui azioni o parole inducono realizzazioni intime e veridiche nel profondo dell’autore; rivelazioni che rimangono ancora nella memoria fortemente agganciate all’eccentricità sessuale di queste donne, la cui sola esistenza si fa ispirazione.

L’aggancio alla dimensione filosofica si verifica proprio nel momento di massima assolutizzazione di questi quadretti, in cui Scarpa adulto si ritrova a riflettere; e riflette sui significati profondi di certi comportamenti o frasi casuali delle sue compagne o delle persone che ha incontrato; o più semplicemente lo fa quando si sente particolarmente ispirato perché in contatto con le anime di autori e pensatori classici. In tale intreccio, l’aspetto forse più interessante riguarda il rapporto col lettore. L’acquisizione di queste verità illuminate, infatti, verrebbe presentata da Scarpa all’interno di una forma narrativa che vede la riflessione inserita all’interno di una vera e propria sovrariflessione, vera struttura del romanzo. Le verità giovanili, estrapolate dalle discussioni postcoitali con donne senza nome, acquisite a seguito di ripensamenti e nuove interpretazioni di fatti ed eventi passati, diventano la base per la costruzione di un romanzo che è di per sé una continua ricerca di verità, che si palesa agli occhi dell’autore e del lettore quasi nello stesso momento. Verità, vera o presunta, perché di un romanzo si tratta e giustamente Scarpa ne rispetta i canoni: «poter essere libero di scrivere la verità che comprende anche le mie fantasie, le storie inventate che ho pubblicato».

Sole nero

Racconto di Martina Faedda.

La spiaggia era coperta di ciottoli, si facevano via via sempre più piccoli fino a diventare sabbia dentro all’acqua. Antonio e Francesco giocavano a pallone sulla battigia, con i piedi scalzi e i calzoni arrotolati sulle caviglie; intanto Aurora e Camilla avevano sparso barbies e altre bamboline tra le pietre. Le loro madri, poco distanti, prendevano i primi raggi del sole primaverile senza perderli di vista. Mentre Camilla le mostrava tutti i vestitini di ricambio che aveva ricevuto per il compleanno, Aurora guardava il fratello in lontananza.
“Anche io voglio mettere i piedi in acqua”, disse.
A Camilla però non andava. “Mi dà fastidio la sabbia che si appiccica tra le dita quando mi rimetto le scarpe.”
“Allora chiediamo se vengono a giocare a palla con noi, senza bagnarci i piedi.”
“Non possiamo giocare con le bambole? Io mi vergogno, non sono brava a calcio.”
“Dai, mi annoio.”
Camilla sbuffò.
“Uffa. Va bene”.
Le due bambine si diressero verso i rispettivi fratelli, lasciando le madri a recuperare tutti i giochi mollati in giro. La tramontana accarezzava loro le guance arrossate dal sole.

“Sai che se hai bisogno puoi chiamarmi quando vuoi, vero?”
“Grazie. Sarà strano tornare a lavoro e non passare più tutto questo tempo con loro.” disse Rachele, la mamma di Aurora e Antonio, voltandosi a guardare le teste bionde dei suoi figli che giocavano insieme agli amici. I riflessi tra i loro capelli cominciavano a schiarirsi in primavera, per diventare quasi bianchi a fine estate. Lei era più scura, li avevano presi dal papà.
“Però ne hai bisogno. Devi riprendere a fare qualcosa per te.”
“Lo so.”
“Loro come stanno reagendo?”
“Non malissimo. Aurora fa un po’ più fatica. Non vuole andare a dormire, fa gli incubi, la pipì a letto. Mi sveglia quasi ogni notte.”
“Ha cinque anni, penso sia normale, vista la situazione.”
“Può darsi.”
Rimasero in silenzio qualche secondo, una nuvola solitaria aveva coperto i raggi del sole.
“E Antonio?”
“Lui va meglio, però è molto nervoso. Sua sorella lo infastidisce, prima di venire a svegliare me prova a mettersi nel suo letto come quando erano più piccoli. Tre anni di differenza non sono così pochi. Sto pensando di dividerli in due stanze.”
“Aurora non la prenderebbe male?”
La conversazione fu interrotta bruscamente da un grido acuto che si tramutò immediatamente in singhiozzi. Aurora era per terra sui ciottoli che piangeva, mentre Camilla cercava di consolarla.
“Che è successo?” domandò Rachele spazientita.
Aurora si strofinò via le lacrime dagli occhi con il dorso della mano. “Antonio mi ha spinta!”
“Sei una lagna.” Si lamentò il ragazzino. “Stavo solo riprendendo la palla, non l’ho spinta giuro.”
La madre la afferrò da sotto le ascelle e la tirò in piedi, poi le pulì la gonna blu dalla polvere dei sassi con delle brusche manate. “Dai, non è successo niente” disse Antonio alla sorella, a voce più bassa. La bambina tirò su col naso e fece cenno di sì con il capo.
La madre di Camilla e Francesco li raggiunse e propose di andare a prendere il gelato, lanciando un’occhiata di complicità a Rachele. Tutti i bambini acconsentirono felici, specialmente Aurora, che si era già dimenticata dell’accaduto e sorrideva entusiasta, con le ciglia ancora appiccicate l’una all’altra per le lacrime.
“Grazie” disse Rachele, seguendo i bambini che correvano verso la gelateria.

Il giorno dopo, Aurora e Camilla erano sedute in due seggioline verdi al tavolo dell’asilo e coloravano concentrate sui loro disegni. Nel foglio di Aurora, quattro figure stilizzate giocavano a palla: una mamma, un papà, e due più piccole coi capelli dello stesso giallo del sole, il cerchio nell’angolo in alto a sinistra. In quello di Camilla, invece, due bambini si tenevano per mano, le braccia due righe rosa e la mano un unico pallino. Camilla finì di disegnare il cielo, un rettangolo azzurro in tutto il confine superiore del foglio, poi si alzò, si diresse verso la cattedra della maestra e le mostrò il disegno. Dopo qualche secondo tornò trionfante dall’amica e glielo porse.
“Lo puoi dare ad Antonio? Glielo regalo”, disse Camilla, sventolando il foglio.
Aurora prese il disegno. “Perché lo vuoi regalare a mio fratello?” chiese stizzita.
“Perché lo amo e voglio che diventiamo fidanzati.”
“Ma lui è grande, ha otto anni!”
“Anche mio papà è più grande di mia mamma.”
Aurora infilò il foglio nel suo zainetto, spiegazzandolo.
“Così lo rovini!”
“Tanto è bruttissimo.”
Gli occhi di Camilla si fecero umidi. “Antipatica”, sbottò, e corse dalle altre bambine che giocavano con gli animali di plastica nel morbido tappeto dell’aula.
Aurora rimasta sola guardò il suo disegno, che ancora doveva finire di colorare. Le quattro figure avevano gli stecchetti delle braccia protesi verso la palla, che sospesa per aria sembrava un altro sole, nero, al centro del cielo, proprio sopra la testa del padre.

Quella sera, dopo cena, Antonio giocava al game boy sul divano e Aurora era seduta per terra davanti a lui che guardava la televisione. Rachele, in cucina, preparava le loro merende per il giorno seguente.
Aurora si alzò e andò a sedersi vicino al fratello, poi si protese sopra la sua spalla per vedere meglio lo schermo.
“Posso giocare con te?” chiese dopo un po’. Il fratello annuì senza distogliere lo sguardo dallo schermo. “Appena perdo ti faccio fare una partita.”
L’omino vestito di rosso correva in avanti saltando gli ostacoli e i mostri che arrivavano in direzione opposta. Saltò su dei mattoncini sospesi in aria, poi di nuovo giù e riprese a correre, fino a che un salto sbagliato non lo fece schiantare contro un nemico e il gioco si interruppe.
“Tocca a me!” disse Aurora.
“No, non ho proprio perso, sono solo tornato indietro, ora ricomincia.”
“Non è vero, hai perso, hai detto che potevo giocare!”
“Anto, falle fare una partita, dài” ordinò la madre entrando nella stanza.
“Appena perdo la faccio giocare” sbuffò lui.
Rachele sistemò le merende dentro i loro zainetti e trovò in quello di Aurora il disegno. “Che bello questo disegno. Chi sono?”
“Siamo io e Anto, l’ho fatto per lui.”
La madre la guardò sorpresa. “E perché ti sei disegnata coi capelli scuri?”

“Così.”
Rachele voltò il foglio. Sul retro del disegno la maestra aveva scritto la data e una dedica: Per Antonio da Camilla.
Il videogioco tra le mani di Antonio strombazzò in segno di game over e lui lo passò alla sorella.
“Sei sicura che l’hai fatto tu questo?” continuò Rachele.
Aurora nascose lo sguardo nello schermo, senza rispondere.
Antonio si alzò e andò dalla madre. “C’è scritto che l’ha fatto Camilla! Sei una bugiarda” disse correndo nuovamente sul divano e strappando il gioco di mano alla sorella.
“Cosa ti importa?” gli urlò Aurora, con gli occhi pieni di lacrime, a pochi centimetri dalla faccia.
La madre si avvicinò e alzò la voce per richiamare la loro attenzione. “Basta. Smettetela subito. Aurora, non si dicono le bugie!”
La bambina cominciò a singhiozzare e ansimare, le lacrime le si rovesciavano copiose sulle guance.
“Aurora, basta piangere.”
La bambina si alzò dal divano e corse fuori dalla stanza, sbattendosi la porta del salone alle spalle. Rachele la seguì fino alla cameretta. Era sdraiata nel suo lettino con tutte le luci spente e la trapunta di Winnie the Pooh tirata fin sopra la testa. “Posso?” le chiese sulla soglia.
“No. Vattene via!” rispose la bambina, con la voce ovattata dalle coperte.
“Aurora, stai facendo i capricci. Si vede che sei stanca, almeno stanotte dormirai. Buonanotte.”
La bambina non rispose e la madre uscì. 

Poco dopo Antonio entrò nella stanza e si infilò nel suo letto, appoggiato alla parete opposta di quello della sorella. Aurora, ancora rifugiata, singhiozzava flebilmente.

“Auri? Sei sveglia?”
“Sì.”
Antonio accese una luce.
“Perché hai rubato il disegno di Camilla?”
“Perché non voglio che vuoi più bene a lei.”
“Ma io mica le voglio bene. È lei che ha fatto un disegno per me, non io.”
“Non mi importa, non voglio che ti faccia i disegni.”
“Tanto era bruttissimo.”
Aurora si scoprì la testa, ridacchiando. “È vero.”
“I tuoi disegni mi piacciono molto di più.”
“Domani finisco di colorare il mio e te lo porto.”
“Va bene. Buonanotte Auri.”
“Buonanotte Anto.”
Antonio spense l’abat-jour sul suo comodino. Dopo qualche secondo sentì nuovamente la voce della sorella, che lo chiamava.
“Anto?” sussurrò lei.
“Dimmi Auri.”
“Posso venire nel letto con te?”
Lui sospirò “Va bene, ma solo questa volta.”
Le fece spazio tra le coperte mentre lei si incastrava dentro al lettino per bambini dove in due, ormai, stavano stretti.

I gabbiani e l’acciaio. Su “La terra di ferro” di Pasquale Pinto

Nota di lettura a cura di Simone De Lorenzi.

La pubblicazione de La terra di ferro e altre poesie (1971-1992) di Pasquale Pinto, avvenuta lo scorso ottobre per i tipi di Marcos y Marcos, riempie più di un vuoto. Innanzitutto la scelta antologica, curata da Stefano Modeo, prosegue l’operazione portata avanti dalla casa editrice – cominciata nel 2019 con le Poesie scelte (1953-2010) di Luigi Di Ruscio – di riscoperta e divulgazione della cosiddetta “letteratura operaia”, il filone di testimonianze dell’esperienza di fabbrica che solo ultimamente sta ricevendo adeguata ricognizione critica. Ma soprattutto riporta alla luce un autore dimenticato e caratterizzato anche in vita da una certa marginalità; marginalità che può essere documentata anche solo scorrendo le sedi di pubblicazione dei suoi libri, usciti per edizioni minori (In Primo Piano, Pentapress) e atipiche (il Centro sociale Magna Grecia, l’Assessorato alla Cultura del Comune di Taranto e la Biblioteca della Provincia di Taranto); di una raccolta, Il parco depresso, non si è neppure a conoscenza della data di pubblicazione.

Pasquale Pinto (1940-2004), operaio alla Italsider di Taranto dal 1964 al 1990, scrive della propria esperienza di fabbrica, ma ancora prima scrive del Sud nel quale vive: l’esperienza operaia di Pinto in quella che ora è conosciuta come l’ex-Ilva ancora non si affaccia nei suoi primi versi, impegnati piuttosto a registrare le risposte della sua terra alle sollecitazioni del tempo. La Puglia di Pinto è animata da un’umanità semplice, sabiana (donne, uomini, vecchi e bambini che sono spose, vedove, madri, sorelle e figli; marinai, naufraghi, mendicanti e infermiere): «Era la vita / che cade umida nelle tasche / e s’avvicina ai moli / scalciando l’ombra dei muri». Sono figure ferite e abbattute, ma che emergono vive e presenti in queste pagine assai frequentate dalla morte: «Ho trovato giorni / che per la loro magrezza / volavano più in alto dei morti».

Pinto mette in versi quello che Simone Giorgino, nell’introduzione, chiama un «idillio incrostato di ruggine»: la sua voce non ignora la bellezza di una terra che, sulla via dell’industrializzazione, conosce profondi cambiamenti – tanto a livello paesaggistico quanto sociale e antropologico – e il dipinto della Taranto antica, magnogreca, si intreccia a quello della Taranto contemporanea. L’ambientazione principe di In fondo ad ogni specchio (1976) e Il capo sull’agave (1979) è infatti un paese indeterminato ma chiaramente meridionale, nel quale fa la sua comparsa una dimensione moderna che affianca, contrastandolo, l’idillio atemporale tarantino: «Ho visto in un market / crisantemi con rugiade artificiali / e garofani di plastica / turbarsi per l’odore di una mano»; «C’è una luna su una terrazza / ferita da programmi televisivi».

Ai consueti mitologemi paesaggistici delegati alla rappresentazione del Meridione, che giocano con il cliché senza impigliarsi nelle sue maglie – il mare, il sole, le piante, i gabbiani, la luna, i tramonti – affianca e sovrappone elementi che si è solitamente portati ad associare al Nord Italia urbano. Così il «cielo di vetro» e «piombo» tarantino non è dissimile dal «cielo contemporaneo […] colore di lamiera» o «d’acciaio» della periferia milanese ne La ragazza Carla di Pagliarani (e agli «ufficio a ufficio b ufficio c» frequentati dalla dattilografa fa eco la «portineria “A”» della fabbrica), mentre la vita tra gli altiforni è equiparabile agli «asettici inferni» della Pirelli messi in scena da Sereni in Una visita in fabbrica (non più, però, osservata dal punto di vista straniato del visitatore, ma testimoniata dal suo interno). D’altronde un operaio può essere, indistintamente, «forse del Nord / forse del Sud», perché l’esperienza restituita sulla pagina – che pure parte da un dato vissuto personalissimo – nelle sue coordinate di fondo è transregionale: ovvero, in un certo senso, universale.

È con La terra di ferro (1992) che entra a gran voce la denuncia operaia, già anticipata in alcuni Frammenti senza titolo del 1978. In uno scenario caratterizzato da alienazione, ripetitività e sfruttamento, la morte si fa concreta («Un giovane che gli lavorava accanto / è corso in un lavandino / a svuotargli / una scarpa di sangue») e non è più solo naturale o esistenziale. Attore del poemetto è un soggetto massificato («20.000 cartellini / attendono una stretta di mano / all’alba a sera a notte»), che resta generico anche quando individuato («Tu Walter / Tu Pino / e tu Mario / alla fine di ogni turno / ricompravate intatta la vita»; «Salvatore / classe ’41 / appendicite del ’57 / riaperta con un colpo / di tosse / su un lenzuolo rosso»). L’acciaieria non è però mai presa come luogo asettico chiuso in sé, è piuttosto in dialogo – per quanto negativo – con la natura esterna ad essa («Una gru / s’è capovolta sui binari. / […] / Su un fianco / il suo numero / si meraviglia / del cielo») a perturbare definitivamente quel che di idillico è rimasto nel paesaggio tarantino, in un’amara presa d’atto: «Più nessuno ha l’erba negli occhi».

Nonostante il doppio status di poeta e di operaio, Pinto non si sente latore di un mandato sociale e con lucida consapevolezza denuncia l’insufficienza della letteratura: «Non vi porto certezze. / (mai i poeti modificarono il sangue) / Ho solo da parlarvi sottovoce / con l’abito consunto di parole». Lungi dall’essere un intellettuale engagé, Pinto scrive per dare voce a un’esigenza innanzitutto privata, ma che può diventare solidaristica condivisione di esperienze altrui: «Chi parlerà di voi uomini rossi / senza età senza bestemmie? / Chi parlerà dei vostri Natali / accanto alla ghisa lontano dai canneti / ove vivono gli ultimi gabbiani? // Pasquale Pinto è solo un uomo / costantemente denunciato / dai rivoli delle vostre fronti».

Lo stile di Pinto, in bilico tra andature narrativo-prosastiche e soluzioni liricheggianti, incorpora diverse suggestioni: alterna dizioni crude («Un fusto è scoppiato in acciaieria / come una palla d’acciaio / su un birillo di carne») e delicate («I bimbi mettono in equilibrio il primo mamma / sulle corde delle ugole»), pronunce sentenziose ma senza gravità («La folla ha sempre studiate miopie / per gli uomini che si amano») e scalfitture ironiche («I suoi figli hanno pantaloni / appena sopra le ginocchia / a 8 anni / hanno già letto / tutto Fleming»). È una poesia legata alla materialità («sguardi di vetro», «porcellana di mattini», «morti di ferro», «piombo dei tramonti», «vetri di luna», «lamiere di burro») e ai colori, che mescola tinte dal significato multiplo: il giallo è del sole ma anche della ghisa, l’azzurro del mare e del cielo ma anche dei vetri taglienti e il rosso può indicare tanto i tramonti quanto il sangue.

Nonostante la sostanziale marginalità dell’autore all’interno del panorama letterario, Pinto era in dialogo con autori e critici del tempo: due liriche sono indirizzate a Giorgio Caproni e Giacinto Spagnoletti, tra gli esegeti che intercettarono il valore della sua poesia. Il merito del lavoro di Stefano Modeo sta anche nell’aver sopperito, almeno parzialmente, all’accessibilità dell’opera di un autore i cui scritti restano ancora adesso di difficile reperimento nelle biblioteche al di fuori della Puglia; l’auspicio è quello di riportare l’attenzione anche critica su una figura che – bastano i frammenti testuali qui presentati a mostrarlo chiaramente – sarebbe limitante incasellare sotto l’etichetta di “poeta operaio”.


Da In fondo ad ogni specchio (1976)

C’è una nudità di rami

C’è una nudità di rami
che cerca il suo sangue in un tramonto
e piume ancora calde
di uccelli senza nome

C’è un paese rotto dal vento
una porcellana di mattini immobili
che corrono sulle ringhiere dei ponti

Ed una madre
ha ripulito gli spigoli del volto
per sorreggere il figlio lontano

Da Il capo sull’agave (1979)

Ho un cuore dalla rilegatura antica
che cerca la sua polvere in una pagina.
Ma forse ho solo parole
per dare ad ogni morto il suo nome.
Mi salvarono talvolta le tue mani
che da sole bastavano
a sorreggere il piombo dei tramonti.
Io parlo
per tutte le foglie cadute sulla terra
per tutto il sangue sceso nei chiusini
e per tutti i morti
che si lamentano dell’urina nelle mani.

Da La terra di ferro (1992)

[…]
Nelle officine i saldatori inveiscono nelle pupille
e sulle lamiere di burro.
A tutte le ore si prepara una squadra.
Il tempo fa fagotto ogni ora
si appartiene ad uno stesso
sudore.
[…]
C’è un operaio
classe 1922
che scarica pacchi
da 40 anni.
[…]
Sud mio sud
ove t’hanno portato
i riverberi delle colate?
[…]
Mentre l’estate si suicida nel sangue dei papaveri
una testa è rotolata
su un traversino ferroviario
i capelli in ordine
una ruga improvvisa di taglio sui binari.
[…]


Stefano Modeo (Taranto, 1990) vive e lavora come insegnante a Treviso. Ha esordito nel 2018 con La terra del rimorso (Italic Pequod). Compare nelle antologie Abitare la parola – Poeti nati negli anni ’90 (Ladolfi editore 2019) e I cieli della preistoria. La nuovissima poesia pugliese (Marco Saya 2022). Fa parte della redazione della rivista di poesia «Atelier», del blog «Universo poesia – Strisciarossa» e si occupa di poesia italiana contemporanea per la rivista di critica letteraria norvegese «Krabben – Tidsskrift for poesikritikk».

Oltre a La terra di ferro e altre poesie di Pasquale Pinto, nel 2023 ha curato l’antologia di Raffaele Carrieri Un doppio limpido zero (Interno Poesia) ed è comparso nel sedicesimo volume dei Quaderni italiani di poesia contemporanea editi da Marcos y Marcos. Di recente per l’Almanacco de Lo Spazio letterario ha risposto alle domande di In teoria e in pratica, l’inchiesta a cura della nostra rassegna di poesia contemporanea Raggi γ.

Galassie

Racconto di Deborah Guarnieri.

La catenina d’oro che suo padre portava al collo al momento dell’incidente la madre gliel’aveva infilata nella borsa in camera mortuaria, poco dopo che il medico di famiglia le aveva infilato nella stessa borsa un flaconcino di gocce che la sua migliore amica aveva definito non proprio omeopatiche. Avrebbe potuto girarla due volte attorno alla caviglia per farci una cavigliera, tre volte attorno al polso per farci un braccialetto, ma aveva preferito conservare la catenina lì, sul fondo della borsa.

Per la città era un periodo brutale, la violenza assopita si risvegliava ciclicamente, si sollevava dall’asfalto come il miasma di una pestilenza. Si finiva accoltellati sul viale per una carta di credito o per goliardia. Ogni volta assumeva una forma diversa e quella era la volta dei coltelli e del sangue. Accadeva di notte quindi si scoraggiava la vita notturna. Questa, l’unica misura adottata. Per lei non era un problema, per lei non era un problema niente. Lei ora la notte dormiva. Usciva per comprare le gocce, usciva per andare dalla psichiatra a farsi prescrivere altre gocce. Dal fondo della borsa la catenina la fissava con occhi di biscia.

Sperimentava da settimane, testava una quantità sempre differente, guardava le meduse dissolversi nell’acqua poi andava a rannicchiarsi sul letto, sopra il lenzuolo, aspettava che l’intonaco bianco del muro si espandesse in uno spazio infinito intorno al suo corpo, una nuvola di ovatta che la avvolgeva al punto che non vedeva più niente se non quel bianco accecante. Prima di ogni nuova prescrizione la psichiatra le domandava a cosa pensasse durante quei pomeriggi che trascorreva distesa e lei rispondeva: a niente, mangiava il minimo essenziale perché l’annebbiamento non si dissipasse, perché la nuvola di ovatta al massimo si sfilacciasse. Dalla finestra della cucina osservava la luce assumere il colore e la consistenza dell’albume dell’uovo, appollaiarsi sui rami addensata in blocchi cubici. Si accorgeva del calo dell’effetto dal sopraggiungere di una visione, un tunnel, lei camminava in questo tunnel, doveva essere un tunnel lunghissimo perché le pareti non convergevano mai verso l’occhio giallo dell’uscita. Mentre vagava in quella foschia lo aveva incontrato, lui era nero, tutto nero, le iridi nere si confondevano con le pupille. Si erano guardati e si erano riconosciuti, si erano visti attraverso immediatamente; toccandosi, avevano trovato conferme. Insieme si sarebbero saziati. Insieme sarebbero stati invincibili.

Mangiavano caramelle schifose perché i denti non si sarebbero cariati, non dormivano perché non avrebbero sentito stanchezza. Lei non era tornata più a casa, non aveva più bisogno di una casa. Fumavano e i polmoni non sarebbero anneriti, fumavano in continuazione e se la passavano, se la poggiavano l’un l’altro sulle labbra, sputandosi nella bocca si scambiavano la saliva. Si fermava a scrutarlo per cercare di capire se le piacesse davvero la sua faccia, ma non era la bellezza del corpo, qualche pura simmetria a ispirarli; era il fatto che la sua figa fosse piccola e calda e il suo cazzo sempre duro, che le mani di lui, prima o poi, dovessero ritrovare le sue cosce, quelle mani grandi che le lasciavano galassie nere verdi e viola, quelle mani grandi che la picchiavano e quel cazzo duro che la fotteva fino allo stremo, fino a quando non restava che il suo involucro da usare, mentre lei trapassava, si elevava in quello stato beato della semi-incoscienza.

Si erano stabiliti in un buco di quaranta metri quadri con poche finestre non esposte a est, frigido come uno scantinato, avevano preso a uscire soltanto di notte perché la luce non guastasse il loro ordine. Il giorno impone le proprie leggi mentre la notte si può plasmare. Si addormentavano, non era cosa voluta ma una conseguenza, l’apice dell’amplesso e della perdita di coscienza, lo facevano per ore, le sue mani sul torace, tutto il suo peso premuto sul torace, quando lei rinveniva, se faceva buio, uscivano, vagavano per la città perché i piedi non avrebbero fatto male, i calli non sarebbero spuntati, anche se lei portava sempre stivaletti con il tacco quadrato, i piedi non facevano mai male.

Più volte era successo che, tornati a casa, lei sfilasse lo stivaletto e trovasse il sangue. Sangue secco impregnava le calze e la pelle intorno alle unghie. Era sempre il piede sinistro a sanguinare. Dopo le botte, le galassie nere verdi e viola comparivano a sinistra, dopo le sberle era l’occhio sinistro ad andare, per un istante, fuori fuoco. Ricordava una visita dal ginecologo, poco dopo averlo conosciuto, crampi da sudori freddi l’avevano assalita all’inguine sinistro, e giù per tutta la gamba sinistra, il ginecologo le aveva infilato la sonda e le aveva comunicato che a ovulare era stato il suo ovaio sinistro. Il male si insinua sempre a sinistra. La destra è di Dio.

A tratti la folgorava il pensiero che stesse succedendo qualcosa alla sua parte sinistra ma lo ignorava. Se fossero rimasti insieme lei non sarebbe marcita. Era tornata a vedere i colori, grazie a lui, grazie a loro insieme vedeva a colori e non più il bianco accecante, e non più il tunnel. I colori della notte e delle galassie non la ferivano, non erano invadenti, squillanti, la notte nella città era nera, rosso carminio e verde scuro, soprattutto verde scuro, verde muschio, la notte nella città era gocciolante e frigida come lo scantinato, così che nemmeno lo sbalzo di temperatura li poteva colpire. Il sottopassaggio della stazione era il posto più umido della città. Aveva quell’odore di tessuto bagnato asciugato male, e macchie di piscio, e un rimbombo da latrina. Era un posto da evitare. Si circumnavigava il quartiere, pur di non passarci. Forse, erano da attribuire a quell’umidità i miasmi della violenza.

Aveva capito subito che qualcosa non andava perché il sottopassaggio era giallo e verde acido. Ascoltava i loro passi, i suoi tacchi quadrati e pensava che se stavano insieme non sarebbe successo niente, siamo insieme e non ci succederà niente, e gli strizzava la mano. Erano usciti con il buio, come al solito, come sempre, avevano seguito la corrente e la musica che trascinava, aveva piovuto e i marciapiedi luccicavano, avevano svoltato due o tre angoli ma la musica proveniva dall’altra parte dei binari, al di là dell’edificio della stazione, non potevano vederla, potevano solo sentirla. Il sottopassaggio era la via più breve, lui aveva detto: due minuti e saremo di là, due minuti, che saranno mai due minuti, bastava trattenere il respiro prima di entrare, sarebbe riuscita a trattenerlo due minuti. Ma quel giallo e il verde acido incrinavano la bolla, stavano forando la loro bolla, crick, un uovo che si buca, aveva accelerato il passo perché la bolla non si crepasse, continuando a trattenere il respiro, se siamo insieme non ci succederà niente, ma dovevano uscire, non le piaceva restare nel tunnel, lì le pareti convergevano verso l’occhio dell’uscita quindi dovevano uscire, tornare ai colori rassicuranti della notte. Rosso carminio, verde scuro, verde muschio. Erano lì che li aspettavano.

Era lì che li aspettava. Stava appoggiato al muro e lo avevano superato fingendo che non ci fosse. Avevano visto quel che c’era da vedere: un uomo macilento, ma un telaio agile, nervoso. Li aveva attaccati alle spalle.

Lui gli aveva sferrato un pugno, sapeva quanto le sue mani potessero far male, era lei a chiederlo: di più di più. Lo aveva messo a terra e gli si era seduto sopra. L’aveva guardata. Non aveva detto niente ma lei aveva sentito è il tuo turno. Quegli occhi neri nerissimi le stavano lasciando il posto. I colori della città erano baluginati nei suoi, tutti mescolati, cerchietti vorticanti, no non glielo avrebbero portato via, aveva alzato il piede, aveva sbattuto le palpebre, no non le avrebbero tolto anche lui, aveva affondato il piede, il tacco quadrato nello zigomo, no non avrebbe perso anche lui, l’uomo macilento aveva spalancato la bocca nel tentativo di morderle la caviglia, non voleva tornare nel tunnel, aveva alzato, affondato, di nuovo alzato, affondato, aveva sentito le ossa spezzarsi sotto il tacco quadrato. L’uomo era rimasto immobile con la bocca spalancata, la mascella frantumata. Da allora non erano più stati visti. La notte erano rientrati nel buco e si erano seduti sul letto; a gambe incrociate, lui, in ginocchio, lei, dietro di lui. Aveva afferrato la biscia dal fondo della borsa. Aveva chinato la testa e gli aveva annusato i capelli, la nuca, il collo fino all’orlo della maglietta. Sì, era umido, ora, quell’odore umido di sudore dimenticato addosso. Aveva portato il naso sopra la spalla, aveva inspirato, su di sé non riusciva a sentirlo ma era sicura di avere addosso anche lei, ora, quell’odore, l’umidità. Aveva sollevato la catenina d’oro, le estremità tra pollice e indice, gliel’aveva posata sul petto, aveva chiuso il fermaglio dietro il collo.

Su “Arca di Noè” di Gianna Manzini

Nota di lettura a cura di Eleonora Negrisoli.

Nella primavera di quest’anno Rina Edizioni ha ripubblicato Arca di Noè, raccolta di racconti di Gianna Manzini ormai da decenni fuori catalogo. I racconti erano già, in parte, apparsi in Animali sacri e profani (Casini, 1953), ma trovarono la loro versione definitiva nell’edizione Mondadori del 1960, con il titolo Arca di Noè.

L’operazione editoriale di Rina sembra collocarsi entro due tendenze critiche ben precise. La prima riguarda il recupero di autrici dimenticate o escluse dal canone letterario, a cui la critica e l’editoria italiana e internazionale stanno finalmente dedicando crescente spazio. Rina Edizioni, appunto, nasce con questo esatto obiettivo, come ci ricorda il Manifesto posto in calce a tutte le pubblicazioni della casa editrice. Riscrivere la storia letteraria si configura come azione necessaria per restituire voce a chi è stata tolta e, quindi, per guardare al contemporaneo da un altro punto di vista, adottando una stortura imprescindibile per la comprensione della sua complessità. Cambiare postura, dunque, ma anche cambiare forma: per stare dentro questa complessità occorre assumere una struttura rizomatica. Si assiste infatti – ed ecco la seconda tendenza – a una crescente ibridazione dei saperi. Tra le varie relazioni possibili – con i femminismi, la teoria queer, gli studi postcoloniali, e così via –, la critica letteraria stabilisce connessioni anche con l’ecologia e gli animal studies. E qui arriviamo a Gianna Manzini, che in tempi non sospetti aveva scritto di animali[1] attraverso uno sguardo inconsueto.

Benché i racconti dell’Arca di Noè riflettano una prospettiva antropocentrica e specista (implicita nella forma mentis novecentesca), il continuo riferirsi in modo didascalico a certe pratiche umane che violano la soggettività animale – ad esempio la caccia, la pesca, la sperimentazione scientifica – provoca nel lettore la sensazione dello straniamento. Questo meccanismo narrativo riesce a decostruire la percezione automatizzata che ci abitua a considerare gli animali proprietà dell’umano. È normale, leggendo Manzini, domandarsi che effetto faccia a una trota moribonda giacere su un piatto, oppure pensare alle gabbie dello zoo come prigioni, o ancora definire l’invenzione del cappone sopruso e delitto: è la narratrice-autrice a dichiararcelo. Il suo sguardo si posa sugli animali con interesse quasi scientifico, nel tentativo di comprendere i gesti di creature vicine ma sconosciute: «che festa,» – scrive in Il mio bestiario, prefazione alla raccolta – «sapere esattamente, con precisione, in tutte lettere, che cosa vuol significare un’ala quando appena si solleva e si ricompone serrandosi»[2].

Nei racconti la relazione tra umano e animale si consuma quasi interamente nello sguardo (John Berger, parecchi anni dopo, scriverà Perché guardiamo gli animali?), ed è attraverso quella osservazione che la scrittrice individua nel legame con gli animali «qualcosa di più vasto e segreto»[3]. Essi sembrano custodi di un qualche sapere iniziatico, di un oltre a cui in pochi, capaci di incanto e compassione, possono accedere: «ecco che, non si sa come, un granello di vita ignorata vien proiettato di sorpresa al centro di una splendente emozione. Queste fortune capitano di rado; a me, di tanto in tanto con gli animali. Fortune; non arbitrii coscienti; non invenzioni»[4]. Manzini intuisce nell’alterità animale la possibilità di aprirsi a una verità nascosta, a un mistero di cui queste creature, seppur attraverso il silenzio, si fanno messaggere.

Emilio Cecchi aveva definito Manzini animalista[5], e questo ci dice molto sull’originalità che la sua scrittura deve aver rappresentato per la letteratura italiana. Tuttavia, il rischio di sovrainterpretazione è molto alto: nell’Arca di Noè non c’è un messaggio politico esplicito, né è facilmente desumibile come invece in altre opere sul tema animale. È però indubbio che in questo bestiario l’esistenza animale venga riconosciuta al di là di quella umana, invertendo automaticamente la tendenza che ci ha abituato a considerare gli animali oggetti da asservire. Manzini non esorta a adorare gli animali, né proteggerli, ma mi sembra significativo concludere con la potente metafora contenuta nel penultimo testo della raccolta, Il sangue del leone. La protagonista fa un sogno ispirato a un episodio agiografico, rappresentato su una sua vecchia cartella da scrivere: San Girolamo si reca nel deserto, dove resta per tre anni. Qui, un giorno, arriva un leone che mette in fuga quasi tutti i monaci. Girolamo rimane e, riconoscendo nella zampa del leone una spina, gliela leva e cura la ferita.

L’immagine a cui probabilmente Gianna Manzini fa riferimento nel racconto Il sangue di leone: Giovanni di Paolo (Siena, 1403-1482), San Girolamo medica la zampa del leone, 1436, 44,5 x 32 cm, Archivio di Stato di Siena.

[1] Per comodità, da ora in avanti con il termine “animali” ci si riferirà a tutti gli animali non-umani.
[2] G. Manzini, Il mio bestiario, in Arca di Noè, Rina Edizioni, Roma 2023, p. 8.
[3] Ivi, p. 6.
[4] G. Manzini, Pascolo a Carbonin, in Arca di Noè, cit., pp. 141-142.
[5] Cfr. E. Cecchi, Manzini animalista, in Letteratura italiana del Novecento. Vol. 2, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1972, pp. 926-928.

Su “bottom text” di Antonio Francesco Perozzi

Nota di lettura a cura di Lorenzo Di Palma.

Qualche mese fa è stato pubblicato il sedicesimo Quaderno italiano di poesia contemporanea di Marcos y Marcos. Volendo per il momento accantonare il discorso sull’utilità di questa operazione editoriale che ormai si ripete da più di trent’anni, c’è da ammettere che l’antologia – per quanto eterogenea – si mantiene su uno standard qualitativo piuttosto alto. Un dato significativo è la presenza tra gli autori antologizzati di tre dottorandi in materie umanistiche (Michele Bordoni, Marilina Ciaco, Noemi Nagy) e una in sociologia dei media (Alessandra Corbetta) su sette totali. Dei tre autori rimanenti, due (Antonio Francesco Perozzi, Stefano Modeo) sono laureati in filologia moderna, mentre l’ultimo (Dimitri Milleri) è maestro di chitarra. Questo dato è di per sé spiegabile con il coinvolgimento diretto di alcuni dei membri del comitato di lettura nel mondo accademico, ma la questione rimane problematica. Se è vero che ogni Quaderno misura la temperatura poetica del biennio precedente alla sua pubblicazione, forse dovremmo porci la domanda da un altro punto di vista: è possibile scrivere un libro di poesia in Italia senza una laurea magistrale in filologia?

La figura del poeta addottorato (o poeta critico) prolifera nelle università italiane in maniera inversamente proporzionale a quella del romanziere letterato; basti citare due dei più grandi romanzieri italiani contemporanei, Francesco Pecoraro e Vitaliano Trevisan, il primo architetto e il secondo difficilmente incasellabile in categorie di sorta. Non è un caso quindi se in Italia il lettore di poesia è sempre più antropologicamente simile allo scrittore di poesia (fino al sospetto allarmante che il primo gruppo coincida con il secondo), mentre il mondo del romanzo continua pullulare e, in casi eccezionali, a travalicare i confini nazionali. Il discorso si lega ad una sempre più chiara abdicazione della poesia al suo mandato sociale, un fenomeno incominciato alla fine del 1800 che ha lentamente reso la poesia e il teatro periferiche all’interno del sistema delle arti letterarie, in favore del romanzo. Questo ha prodotto una reazione istintiva dei poeti che si sono armati nell’ultimo secolo di strumenti critici così sofisticati da poter essere maneggiati soltanto con le pinze di un dottorato di ricerca.
Tra i sette autori, il caso di Antonio Francesco Perozzi è interessante perché mostra una rapida e netta trasformazione di segno opposto. Rispetto al suo precedente libro, uscito appena l’anno scorso, in bottom text Perozzi si riappropria della prima persona singolare che era praticamente assente in Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, 2022), un libro che faceva dell’impersonalità tipica di alcune scienze lo strumento stilistico predominante.
Leggendo bottom text, invece, si ha l’impressione che il personaggio che dice io (modellato sul vero Antonio Perozzi) offra al lettore il suo sguardo su un mondo in cui un antropocene futuribile ha preso le strada lenta e silenziosa dell’apocalisse. Sono quasi del tutto assenti le figure umane: al loro posto una sfilza di oggetti inanimati (la ferraglia, le travi, gli arnesi di falegnameria, il televisore LG, un assortimento di oggetti di metallo).

Installazioni è il titolo della prima sezione, e proprio come delle installazioni questi oggetti esistono, e il loro senso è ricavato dal solo fatto di esistere. La loro esistenza è in realtà una persistenza, in quanto «Con il boom economico ci siamo innamorati / delle cose tangibili e difficili da eliminare», e continuamente «tocchiamo con mano che più niente / è destinato a sparire». In ogni caso, la desolazione è giustificata dal fatto che come sempre l’espressione di una prima persona coincide con qualcosa di antisociale e asimmetrico. Per il personaggio che agisce su uno sfondo urbano e industrializzato come la periferia della provincia italiana, l’esperienza del mondo e l’esperienza di sé arrivano quasi a identificarsi («Ho un’immagine che mi sono costruito da solo»).

Un punto centrale per la comprensione del libro è il fatto che Perozzi riesca ad essere uno scrittore “impegnato” senza cadere nel vecchio inganno dell’impegno a tutti i costi che porta alcuni poeti a plasmare opere così vistosamente superate dalla propria vocazione sociale da essere quasi illeggibili; in breve: opere in cui è palese la prevalenza della politica sull’arte, della funzione sul senso. In bottom text invece, il lettore è continuamente suggestionato da situazioni quotidiane, uno slice of life spesso ambientato tra le mura domestiche (la seconda sezione è intitolata stanze), non sempre accoglienti («Al contrario, le pareti costruiscono / l’odio per i romanzi, i porno preferiti, / la noia, il sonno, non parlare più coi genitori»).

Le poesie di Perozzi non sono dei bignami patetici sui recenti fatti di cronaca nera o sugli ultimi sviluppi della critica marxista o del mondo di internet, ma sono dei quadri in cui questi elementi agiscono da catalizzatori, pur mantenendo un alto grado di poeticità. Il cortocircuito deriva dal fatto che l’individualità del poeta, della sua casa, della sua stanza, dei suoi pensieri non è che una costruzione collettiva posticcia, la stessa che è alla base del concetto di meme di cui il “bottom text” è la parte sottostante, quella da riempire a piacimento con frasi sempre nuove che garantiscono all’ultra-individualismo una ultra-serialità. Il meme irrompe nel testo con la stessa franchezza di una schiera di case popolari, tutte identiche e diverse («Alcune abitazioni possono essere lette / come fossero dei meme») e porta con sé la distruzione dei due cardini fondanti del sistema artistico occidentale, ossia l’unicità e l’originalità dell’opera, a cui contrappone l’emergere prepotente e incontrollato della creatività amatoriale.

Meme

Il meme infatti, proprio come la poesia, non funziona mai in maniera referenziale (vero o falso), ma in maniera metaforica, e la sua metafora si traduce tutta nella conoscenza o meno della chiave d’accesso, nel senso di appartenenza del lettore. Appena cerchiamo di interrogarlo, il meme si dissolve, diventa pervasivo come un virus. In definitiva, il suo capitale simbolico è spendibile nella pervasività piuttosto che nella persuasione.

L’algoritmo ci ha lasciato in dono
gli stessi sogni, dalle sponde del letto
facciamo tutti gli stessi sogni:
l’inquadratura è sovraesposta, tagliata male,
e ognuno si riconosce in sé, e dappertutto,
si riconosce in ogni altro, è il centro del sogno.

Per concludere, bottom text è un libro agile, fresco, consapevole, che non cede alle lusinghe dell’impegno letterario spicciolo, né ai virtuosismi della letteratura astratta e accademica. L’autore pare aver interiorizzato il meglio della temperie poetica recente derivata, in parte, da La pura superficie di Guido Mazzoni e della linea autofinzionale in prosa che ha in Walter Siti il suo capostipite italiano e forse, come nel caso di Siti, è bene che il lettore capisca al più presto, guardandosi allo specchio, che è Antonio Francesco Perozzi, come tutti.


Sistema di valori

Il grande invisibile si trova qui,
nei soldi. A cena rinneghiamo
che l’alta finanza si fotta di noi:
così limpido è l’amore
che ci vuole a produrre un sistema di valori
capitali, che sono in mezzo alla gente,
che si trasformano imitandoci.
Tutto ciò che si vede o sente o mangia,
anche la passione per il nuoto o l’eternit,
può essere convertito nella sua larva,
in qualcosa che resta
anche se l’uso ne sforma le parti.
Questa notizia ci rasserena; sorrido dopo tempo
a mio padre. Riponiamo i barattoli nel frigo
e tocchiamo con mano che più niente
è destinato a sparire.

Campi di telefonia mobile

L’aria è di proprietà della Vodafone
e di altre compagnie telefoniche.
Lo scopro una mattina senza campo
dalle parti di Carsoli: quasi un’apnea
non ricevere più voci dallo spazio.
Ma ora la salute dell’aria è scoperta
un artificio: trattiene in verità dei flussi,
delle reti trasparenti al di sopra delle teste,
che tessono tra loro conversazioni, avvocati
consultati, madri apprensive, i fatti più oscuri
della storia recente.
Quindi tutto ciò che le persone hanno detto è sospeso
nell’aria. Un sogno sarebbe un magnete
in grado di intercettare, se sollevato, l’onda del linguaggio.
Sapere così, con un bastone,
chi ha messo le molotov nella Diaz.