Su “Atlante di chi non parla” di Maddalena Lotter

Nota di lettura a cura di Gianluca Furnari.

Copertina di Atlante di chi non parla di Maddalena Lotter

Ampliando gli intenti delle opere precedenti in una direzione più scopertamente metafisica, Atlante di chi non parla (Nino Aragno, 2022) di Maddalena Lotter dà ancora l’impressione di un libro che funziona perfettamente a dispetto – o in ragione – del suo «lirismo neoclassico» (Davide Castiglione), che si sostanzia di un dettato dimesso e di un’immaginazione spontanea.

Il libro si snoda lungo tre sezioni, dalle «Migrazioni» funebri della prima parte, incentrata sul tema della «bestia moribonda» (p. 15) (farfalle, cicale, uccelli, cani, etc.), alla «cosmogonia negativa» (p. 53) di «Il testimone», poemetto conclusivo in quattrodici movimenti su una caproniana «fuga di Dio», passando per le «Storie di animali grandi», ove l’ambientazione oscilla tra un museo di storia naturale e i fondali oceanici.

Fil rouge del libro, più che la natura, è una sua deformazione mitico-fiabesca: sprofondando nel mondo che descrive in una sorta di animismo infantile, l’io lirico coincide talora con l’animale (di qui il titolo), fino al paradosso dei cetacei che, durante una traversata, osservano gli uomini che li osservano stupiti («Ci guardano da una nave ferma come per capire», p. 38). Spesso anziano, come la megattera di p. 41, il cetaceo serba memoria delle proprie fasi evolutive («Ora come un’onda / scivolano le pinne antiche zampe», p. 36), e la sua identità, più collettiva che individuale, sembra scaturire da una preistorica sedimentazione.  

Il tema del soffio vitale che percorre le membra altrimenti inerti («viene tutto dal greco, è un vento», p. 19) può sfociare, come già in «Questioni naturali», in un tono «sentenzioso» (Marco Malvestio), eppure esso appare neutralizzato dal respiro fiabesco, dando vita, tutt’al più, a paralogismi affabulatori come quello di p. 50 («Un altro nome di ciò che muta è movimento, / solo ciò che si muove è vivo, / io sono vivo, ciò che vuole essere vivo / ama la distanza»), ove, se c’è una perentorietà, essa sembra quella del bambino che pensa fra sé e sé a voce alta (connotata in senso infantile, del resto, è la stessa locuzione «animali grandi»).

In alcune poesie de «Il testimone» parla il dio creatore, l’animale più grande di tutti: non però il dio biblico («io non sono un legislatore», p. 51), ma un dio ovidiano, che crea il mondo un po’ a caso, compiacendosi delle sue intuizioni, e il cui atto supremo è quello di negarsi e «mancare» (p. 55), in linea con una nozione di «distanza» quale presupposto di vitalità e comunicazione.

Il segreto di questa poesia, che si conferma tra le più vivaci della scena contemporanea, è forse nelle chiuse, spesso in metri dispari (con prevalenza di endecasillabi e novenari), ove il testo trova un’armonica composizione e squaderna scenari nascosti, lontani nel tempo e nello spazio: «si è aperta un’immagine nitida: / me stessa invecchiata. / Arrivavo sola sulla spiaggia, / ma non quella, un’altra assurda, sconfinata» (p. 20).


Da «Il testimone»:

VI

volavo da una parte all’altra
incastrando opali neri nella roccia
lo facevo un po’ per impegno
e un po’ per esuberanza
come quando, felice di aver pensato il sole,
mi gettai all’indietro in una tempesta di gemme
e minerali, pioggia d’ambra, ametista, quarzo
satelliti di madreperla e di topazi
dal mio corpo celeste
aprivo la bocca e ridevo e li mangiavo

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