Sole nero

Racconto di Martina Faedda.

Ritratto fotografico di Martina Faedda

La spiaggia era coperta di ciottoli, si facevano via via sempre più piccoli fino a diventare sabbia dentro all’acqua. Antonio e Francesco giocavano a pallone sulla battigia, con i piedi scalzi e i calzoni arrotolati sulle caviglie; intanto Aurora e Camilla avevano sparso barbies e altre bamboline tra le pietre. Le loro madri, poco distanti, prendevano i primi raggi del sole primaverile senza perderli di vista. Mentre Camilla le mostrava tutti i vestitini di ricambio che aveva ricevuto per il compleanno, Aurora guardava il fratello in lontananza.
“Anche io voglio mettere i piedi in acqua”, disse.
A Camilla però non andava. “Mi dà fastidio la sabbia che si appiccica tra le dita quando mi rimetto le scarpe.”
“Allora chiediamo se vengono a giocare a palla con noi, senza bagnarci i piedi.”
“Non possiamo giocare con le bambole? Io mi vergogno, non sono brava a calcio.”
“Dai, mi annoio.”
Camilla sbuffò.
“Uffa. Va bene”.
Le due bambine si diressero verso i rispettivi fratelli, lasciando le madri a recuperare tutti i giochi mollati in giro. La tramontana accarezzava loro le guance arrossate dal sole.

“Sai che se hai bisogno puoi chiamarmi quando vuoi, vero?”
“Grazie. Sarà strano tornare a lavoro e non passare più tutto questo tempo con loro.” disse Rachele, la mamma di Aurora e Antonio, voltandosi a guardare le teste bionde dei suoi figli che giocavano insieme agli amici. I riflessi tra i loro capelli cominciavano a schiarirsi in primavera, per diventare quasi bianchi a fine estate. Lei era più scura, li avevano presi dal papà.
“Però ne hai bisogno. Devi riprendere a fare qualcosa per te.”
“Lo so.”
“Loro come stanno reagendo?”
“Non malissimo. Aurora fa un po’ più fatica. Non vuole andare a dormire, fa gli incubi, la pipì a letto. Mi sveglia quasi ogni notte.”
“Ha cinque anni, penso sia normale, vista la situazione.”
“Può darsi.”
Rimasero in silenzio qualche secondo, una nuvola solitaria aveva coperto i raggi del sole.
“E Antonio?”
“Lui va meglio, però è molto nervoso. Sua sorella lo infastidisce, prima di venire a svegliare me prova a mettersi nel suo letto come quando erano più piccoli. Tre anni di differenza non sono così pochi. Sto pensando di dividerli in due stanze.”
“Aurora non la prenderebbe male?”
La conversazione fu interrotta bruscamente da un grido acuto che si tramutò immediatamente in singhiozzi. Aurora era per terra sui ciottoli che piangeva, mentre Camilla cercava di consolarla.
“Che è successo?” domandò Rachele spazientita.
Aurora si strofinò via le lacrime dagli occhi con il dorso della mano. “Antonio mi ha spinta!”
“Sei una lagna.” Si lamentò il ragazzino. “Stavo solo riprendendo la palla, non l’ho spinta giuro.”
La madre la afferrò da sotto le ascelle e la tirò in piedi, poi le pulì la gonna blu dalla polvere dei sassi con delle brusche manate. “Dai, non è successo niente” disse Antonio alla sorella, a voce più bassa. La bambina tirò su col naso e fece cenno di sì con il capo.
La madre di Camilla e Francesco li raggiunse e propose di andare a prendere il gelato, lanciando un’occhiata di complicità a Rachele. Tutti i bambini acconsentirono felici, specialmente Aurora, che si era già dimenticata dell’accaduto e sorrideva entusiasta, con le ciglia ancora appiccicate l’una all’altra per le lacrime.
“Grazie” disse Rachele, seguendo i bambini che correvano verso la gelateria.

Il giorno dopo, Aurora e Camilla erano sedute in due seggioline verdi al tavolo dell’asilo e coloravano concentrate sui loro disegni. Nel foglio di Aurora, quattro figure stilizzate giocavano a palla: una mamma, un papà, e due più piccole coi capelli dello stesso giallo del sole, il cerchio nell’angolo in alto a sinistra. In quello di Camilla, invece, due bambini si tenevano per mano, le braccia due righe rosa e la mano un unico pallino. Camilla finì di disegnare il cielo, un rettangolo azzurro in tutto il confine superiore del foglio, poi si alzò, si diresse verso la cattedra della maestra e le mostrò il disegno. Dopo qualche secondo tornò trionfante dall’amica e glielo porse.
“Lo puoi dare ad Antonio? Glielo regalo”, disse Camilla, sventolando il foglio.
Aurora prese il disegno. “Perché lo vuoi regalare a mio fratello?” chiese stizzita.
“Perché lo amo e voglio che diventiamo fidanzati.”
“Ma lui è grande, ha otto anni!”
“Anche mio papà è più grande di mia mamma.”
Aurora infilò il foglio nel suo zainetto, spiegazzandolo.
“Così lo rovini!”
“Tanto è bruttissimo.”
Gli occhi di Camilla si fecero umidi. “Antipatica”, sbottò, e corse dalle altre bambine che giocavano con gli animali di plastica nel morbido tappeto dell’aula.
Aurora rimasta sola guardò il suo disegno, che ancora doveva finire di colorare. Le quattro figure avevano gli stecchetti delle braccia protesi verso la palla, che sospesa per aria sembrava un altro sole, nero, al centro del cielo, proprio sopra la testa del padre.

Quella sera, dopo cena, Antonio giocava al game boy sul divano e Aurora era seduta per terra davanti a lui che guardava la televisione. Rachele, in cucina, preparava le loro merende per il giorno seguente.
Aurora si alzò e andò a sedersi vicino al fratello, poi si protese sopra la sua spalla per vedere meglio lo schermo.
“Posso giocare con te?” chiese dopo un po’. Il fratello annuì senza distogliere lo sguardo dallo schermo. “Appena perdo ti faccio fare una partita.”
L’omino vestito di rosso correva in avanti saltando gli ostacoli e i mostri che arrivavano in direzione opposta. Saltò su dei mattoncini sospesi in aria, poi di nuovo giù e riprese a correre, fino a che un salto sbagliato non lo fece schiantare contro un nemico e il gioco si interruppe.
“Tocca a me!” disse Aurora.
“No, non ho proprio perso, sono solo tornato indietro, ora ricomincia.”
“Non è vero, hai perso, hai detto che potevo giocare!”
“Anto, falle fare una partita, dài” ordinò la madre entrando nella stanza.
“Appena perdo la faccio giocare” sbuffò lui.
Rachele sistemò le merende dentro i loro zainetti e trovò in quello di Aurora il disegno. “Che bello questo disegno. Chi sono?”
“Siamo io e Anto, l’ho fatto per lui.”
La madre la guardò sorpresa. “E perché ti sei disegnata coi capelli scuri?”

“Così.”
Rachele voltò il foglio. Sul retro del disegno la maestra aveva scritto la data e una dedica: Per Antonio da Camilla.
Il videogioco tra le mani di Antonio strombazzò in segno di game over e lui lo passò alla sorella.
“Sei sicura che l’hai fatto tu questo?” continuò Rachele.
Aurora nascose lo sguardo nello schermo, senza rispondere.
Antonio si alzò e andò dalla madre. “C’è scritto che l’ha fatto Camilla! Sei una bugiarda” disse correndo nuovamente sul divano e strappando il gioco di mano alla sorella.
“Cosa ti importa?” gli urlò Aurora, con gli occhi pieni di lacrime, a pochi centimetri dalla faccia.
La madre si avvicinò e alzò la voce per richiamare la loro attenzione. “Basta. Smettetela subito. Aurora, non si dicono le bugie!”
La bambina cominciò a singhiozzare e ansimare, le lacrime le si rovesciavano copiose sulle guance.
“Aurora, basta piangere.”
La bambina si alzò dal divano e corse fuori dalla stanza, sbattendosi la porta del salone alle spalle. Rachele la seguì fino alla cameretta. Era sdraiata nel suo lettino con tutte le luci spente e la trapunta di Winnie the Pooh tirata fin sopra la testa. “Posso?” le chiese sulla soglia.
“No. Vattene via!” rispose la bambina, con la voce ovattata dalle coperte.
“Aurora, stai facendo i capricci. Si vede che sei stanca, almeno stanotte dormirai. Buonanotte.”
La bambina non rispose e la madre uscì. 

Poco dopo Antonio entrò nella stanza e si infilò nel suo letto, appoggiato alla parete opposta di quello della sorella. Aurora, ancora rifugiata, singhiozzava flebilmente.

“Auri? Sei sveglia?”
“Sì.”
Antonio accese una luce.
“Perché hai rubato il disegno di Camilla?”
“Perché non voglio che vuoi più bene a lei.”
“Ma io mica le voglio bene. È lei che ha fatto un disegno per me, non io.”
“Non mi importa, non voglio che ti faccia i disegni.”
“Tanto era bruttissimo.”
Aurora si scoprì la testa, ridacchiando. “È vero.”
“I tuoi disegni mi piacciono molto di più.”
“Domani finisco di colorare il mio e te lo porto.”
“Va bene. Buonanotte Auri.”
“Buonanotte Anto.”
Antonio spense l’abat-jour sul suo comodino. Dopo qualche secondo sentì nuovamente la voce della sorella, che lo chiamava.
“Anto?” sussurrò lei.
“Dimmi Auri.”
“Posso venire nel letto con te?”
Lui sospirò “Va bene, ma solo questa volta.”
Le fece spazio tra le coperte mentre lei si incastrava dentro al lettino per bambini dove in due, ormai, stavano stretti.

Un commento su “Sole nero”

  1. L’essenza della vita che solitamente si perde crescendo…grazie per l’emozione che si prova leggendo:)dettagli numerosi è particolarmente significativi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *