Su “Previsioni sull’arrivo del caos” di Lorenzo Chiereghin

Nota di lettura a cura di Simone De Lorenzi.

Lorenzo Chiereghin giunge alla quinta raccolta, Previsioni sull’arrivo del caos (Nulla Die 2021), proseguendo le principali tematiche di fondo dei libri precedenti e consolidando un linguaggio divenuto ormai riconoscibile. Le sue poesie evitano dissestamenti e ornamenti superflui: la materia, a dispetto del titolo e del contenuto, non è caotica ma viene ricondotta con sapienza entro i limiti di una sintassi piana. Questa asciuttezza stilistica viene però riscattata, sul piano contenutistico, dalle scelte lessicali che si addensano a comporre diversi nuclei semantici.

 A partire da Dante e Vittorio Sereni – dalle citazioni incipitarie e negli echi disseminati lungo il testo – si delinea una situazione che, in un certo senso, richiama una dimensione di limbo protratta poi per tutta l’opera. Il poeta compie un viaggio che prende le mosse dalla catabasi dantesca, ma a differenza di questa non ha mete da raggiungere: rimane bloccato in una statica attesa che anzitutto è sospensione dal tempo presente. Interessante poi che Chiereghin, sebbene lo spunto dell’attualità non esaurisca le motivazioni sottostanti alla poetica del libro, scriva la maggior parte delle poesie durante la pandemia.

Davanti a questo destino fatale, emerge come già in Giovanni Giudici la polisemia della «fortezza»; e dove il lessema «fortezza» assume il significato di prigione, allora la condizione di recluso – la quale investe sia l’io poetante che il lettore – viene a coincidere con quella del dannato infernaleautore di «misfatti»caricato di «colpe» la cui entità resta ignota. Altrove la fortezza assurge a luogo inespugnabile nel quale rifugiarsi e perciò introduce uno scenario di battaglia. Qui entrano in gioco altri elementi affini che riguardano la disfatta, ci si aggira tra sfaceli di macerie – in un panorama orrorifico che gioca sulla dialettica tra buio e luce, con la presenza di ombre e spettri –, si assiste a un declino che, allo stesso tempo, è sia fisico che morale.

L’esito del viaggio non potrà che essere una resa. Il percorso si svolge lungo le soglie di un «confine» – non a caso il frammento sereniano posto in esergo proviene da Frontiera (1941) –, fino ad arrivare a quello estremo «del distacco»: la morte. In questo paesaggio dominato dall’ignoto o dall’assenza, la voce del poeta si richiude in afasia. Sono allora la memoria e la scrittura a venire in soccorso del poeta che, seguendo la lezione di Eugenio Montale, tenta di “riaprire” un varco verso la salvezza, pur consapevole della fragilità della funzione letteraria. Di questa precarietà è spia la riduzione di incursioni nel metaletterario rispetto alla raccolta precedente, quasi a non voler deviare il focus dalla materia trattata.

La salvezza qui inseguita corrisponde alla ricerca di uno scopo – processo che appare e scompare lungo tutta la raccolta, e si scontra con la vanificazione dei suoi tentativi. E forse proprio in ragione dell’impossibilità di accedervi c’è l’adesione a una «preferenza, in qualsiasi scritto, / dei significanti sui significati». Se alla fine non lo trova, «un senso», può però tentare di ricostruirlo «come l’ultimo / tentativo di non sprofondare»: in questi attimi, per quanto fugaci, è capace di aprire uno spiraglio di vitalità. La discesa agli Inferi non ci attende poi al solo momento del trapasso, ma è già prefigurata da vivi; e da qui verrebbe l’ambiguità contraddittoria del legame vita-morte, che determina nell’autore un’oscillazione tra speranza e disperazione.

Il tono di fondo è sconfortato, pessimista – e le rare volte che si alleggerisce pare farlo con ironia – ma non prende mai le derive del vittimismo: lungi dall’essere un lamento, il poeta compie un’analisi lucida del proprio stato interiore. L’abbondanza di particelle pronominali, di volta in volta riferite al “me” di chi parla, oppure a un “noi” o a un “tu” indefiniti, segnala la volontà di un interlocutore universale (da cui la sentenziosità che talvolta connatura certe frasi) che finisce per essere sempre, in un certo senso, il doppio di sé.


Vorrei avere ancora dei desideri
tendere al culmine indicibile
dove le sillabe hanno una cadenza
antica, dove i miraggi sfoggiano
un vivido corredo di molecole.
Vorrei ancora essere
vivo o solo essere, mi basterebbe
sfiorare quel tacito azzardo.