Su “Pasolini personaggio” di Gian Carlo Ferretti

Nota di lettura a cura di Patrizio Andrisano.

Appena chiusa l’ultima pagina del nuovo libro di Gian Carlo Ferretti, Pasolini personaggio. Un grande autore tra scandalo, persecuzione e successo (Interlinea 2022), ho subito capito che avrei scritto un commento atipico, determinato in gran parte dal desiderio di scandalizzarmi per l’utilizzo a volte ingenuo, altre strumentale, del personaggio Pasolini da parte di pubblico e mass media. Al punto da domandarmi chi, nei fatti, questo centenario avesse celebrato. L’uno o l’altro? (Ammessa l’esistenza di un Pasolini personaggio, con “altro” mi riferisco a quello che potremmo identificare con l’autore – come appunto lo intende Ferretti –, niente meno che l’Io più remoto alla coscienza, estraneo al rapporto con pubblico, critica, mass media, mercato, istituzioni).

Esiste infatti, e questo libro non solo ne riconosce l’esistenza ma ne racconta anche la genesi, una specie di stucchevole pasolinismo agiografico legato all’alter ego pubblico dell’autore. Se questo culto si fonda sull’idea di un Pasolini monolitico, un unicum con le proprie uscite nel mondo esterno, perfettamente integrato fra intimité ed extimitéil libro di Ferretti si rivolge invece a quanti vedono nella demistificazione del personaggio l’unica via percorribile per una profonda riscoperta di tutta la parabola pasoliniana. Tuttavia, un tale superamento sarebbe possibile solo nell’ottica di una giusta dose di determinismo – ché dietro la sistematizzazione del sacrificio teorizzata da Ferretti c’è sempre un motivo – quanto basti a connettere Pasolini e il suo alter ego pubblico senza però unificarli.

Il libro ha una tesi semplice, promossa con grande coerenza, che promette allo studioso gli esiti di una scrupolosa e attenta ricerca sul personaggio Pasolini. È Infatti approntando un’interessante fenomenologia delle strategie di autopromozione ed esaltazione del sé messe in pratica da Pasolini, che Ferretti dimostra quanto la costruzione di un alter ego pubblico da parte dell’autore fosse indispensabile ad alimentare quel successo che tutt’ora lo contraddistingue. Diversamente da quanto scrive lo stesso Pasolini nei Dialoghi (1960-1965), attraverso una lunga serie di preterizioni, formule attenuative, enfatizzazioni eroiche di esperienze personali, e in una rubrica dominata dal soliloquio (ma il titolo è Dialoghi), il personaggio non nascerebbe suo malgrado; anzi, sarebbe il prodotto di una tendenza incoercibile, certo legata alla volontà di ribadire il tema trasversale, e sostanzialmente intatto nelle successive reincarnazioni, a tutta la  Weltanschauung pasoliniana: il mito di un’innocenza residuale, brutalizzata dalla Storia.

Dunque, Ferretti teorizza l’esistenza di una perversa forma di sincronismo dietro ogni esternazione di Pasolini (opere letterarie, film, articoli di giornale, vicende giudiziarie, televisione, interviste), capace di rilanciare continuamente la sua immagine:

Sembra quasi che […] ci sia un ricorrente, perfetto, perverso sincronismo tra la sua produzione intellettuale o il suo comportamento pubblico (o entrambi) e le varie situazioni ambientali, culturali, sociali, politiche, più o meno interagenti, che fanno esplodere volta a volta lo scandalo e perciò il successo di mass media e mercato. Con coincidenze oggettive, involontarie, o prevedibili, accettate, o anche determinate, cercate, come si è detto già (p. 18).

Prima lo scandalo, poi la persecuzione e infine il successo e l’affermazione, ma anche la disgustosa autorità con la quale Pasolini non vorrebbe compromettersi. È un copione che si ripete per ogni libro, film, articolo, intervista o comportamento pubblico. Tutto ha inizio con i fatti di Ramuscello nel 1949 e prosegue con la pubblicazione dei romanzi romani; altrettanto si verifica in occasione dei primi film e così via fino a Salò (1975). L’opera scandalizza, lo scandalo determina persecuzioni e linciaggi mediatici, segue il rafforzamento del personaggio e perciò il successo di mass media e mercato; ma Pasolini non ammetterà mai gli aspetti positivi del successo, limitandosi a minimizzarlo laddove invece andava crescendo un culto (per certi versi esagerato) della sua persona. Da questo punto di vista, l’anatomia del personaggio proposta da Ferretti è complessa ed esauriente, gli esempi riportati sono moltissimi e tutti meritevoli di attenzione da parte del lettore; tuttavia, rimando alla lettura dei fatti che portarono al ritiro di Teorema (1960) dal premio Strega come esempio fra i tanti, sicuramente uno dei più significativi, capace di mettere a fuoco la scaltrezza di Pasolini nel promuovere la propria opera attraverso lo scandalo.

Il discorso si muove dalla narrazione degli eventi e fatti reali del primo capitolo, all’analisi delle strategie di promozione e costruzione del personaggio – fino alla smania di controllo, ravvisabile nelle didascalie del Sogno del centauro (1983) – al Pasolini di Caos e Scritti corsari che ammette la propria compromissione, in qualche misura, con le strutture capitalistiche in cui opera.

Sul perché Pasolini ridimensioni il proprio successo (nei Dialoghi e nel Sogno del centauro) e sul perché di un formale ribaltamento del ruolo assunto come “firma autorevole” scelta dal «Tempo» per la rubrica Caos, Ferretti propone una conclusione non troppo approfondita ma condivisibile:

Si può infine azzardare che nei giudizi fortemente negativi sul successo, e in particolare sui suoi aspetti deteriori, ci sia anche un aspetto indiretto, remoto, inconfessato di quella sua perdita della purezza originaria (p. 102).

Segue una domanda:

Ma resta un punto da chiarire. Perché Pasolini tende a parlare soprattutto degli aspetti più negativi, deformanti e sgradevoli del successo, giustificandosi, sminuendo le sue compromissioni, prendendo in qualche modo le distanze da esso, condannandolo e rifiutandolo più o meno formalmente (con un inconfessato senso di colpa, va aggiunto), e invece considera assai meno quel successo in cui alle convenienze, ai vantaggi pratici, ai guadagni e al potere, sì intreccia il riconoscimento dei meriti, dei valori e dell’autorevolezza? Sì può ipotizzare che Pasolini senta con più forza, rabbia e dolore le conseguenze negative che lo colpiscono personalmente (ibidem).

Mi permetto di completare quest’ultima affermazione. È infatti probabile che «Pasolini senta con più forza, rabbia e dolore le conseguenze negative che lo colpiscono personalmente» e nel «remoto» di cui si parlava sopra. Del resto si potrebbe considerare il successo come la dimensione di perdita del sacro per antonomasia, in quanto via d’accesso a quel mondo che gli è da sempre geneticamente inviso, secolare antagonista della purezza primigenia che Pasolini reca con sé dalla prima giovinezza e attraverso trasformazioni e parziali occultamenti. Il suo impegno, la lotta che Pasolini porta con ossessiva continuità alla cultura dominante e alle strutture capitalistiche, gli impedisce di accettare gli allettamenti prodotti dal successo che, se accolti ed esternati, varrebbero a quel mondo come un’assoluzione. Legato a questo aspetto è certamente il tema dell’indefessa coazione a produrre che caratterizza il rapporto di Pasolini con la propria opera, secondo Ferretti, sintomo di un «desiderio […] autodistruttivo» (p. 138) versato al sostanziale consumo di ogni aspetto dell’esistenza. Eppure, ritengo che considerare l’ossessione a produrre solo un motivo di “riempimento” sia insufficiente.  Non è forse proprio questo il desiderio che motiva Pasolini, paradossalmente, a interagire con le strutture capitalistiche? Sì, se tale circostanza porta al successo che, in tal senso, apparirebbe del tutto funzionale allo scopo di dare nuovo spazio alla volontà di dire, ancora e ancora. Il successo è sì ricercato, al fine di accrescere in autorità il personaggio,ma non intimamente gradito. Il successo è strumentale e offre il terreno adatto a esprimere il proprio esserci anticamente legato al tema del sacro.

Nel complesso ho apprezzato molto la selezione delle fonti bibliografiche e la scelta di trattare alcuni aspetti del personaggio Pasolini approcciandoli senza ambagi – ed è il caso del capitolo sulla «Pedagogia trasgressiva» che riprende gli studi di Enzo Golino –; la resistenza opposta dall’autore all’innegabile fascino esercitato da Pasolini (benché Ferretti nel «Post scriptum» dica il contrario), tanto più notevole se si tiene conto del rapporto fra i due quando Pasolini era in vita; le pagine che raccontano dello straordinario successo di Pasolini dopo la morte, in cui si accenna a «una serie di appropriazioni più o meno interessate, continuate per qualche decennio, da quelle quanto meno indebite dei post-fascisti a quelle quanto meno equivoche dei ciellini» (p. 139).

A proposito di tutte queste utilizzazioni strumentali del personaggio Pasolini – Ferretti raccoglie le più eclatanti, giacché sarebbe impossibile stanarle tutte – mi limito a registrarne due, che ho casualmente scoperto nell’ultimo periodo, a dimostrazioni di come il “Premiato Pasolinificio Spa.” di cui scrive Enzo Golino in un suo celebre articolo sia ancora in attivo. Nello specifico mi riferisco a Lettera in versi quasi pasoliniana a un/una giovane gender free di Davide Rondoni e ai manifesti adottati dalla onlus Pro Vita & Famiglia, che vedono l’immagine di Pasolini sormontata da uno slogan: SONO CONTRO L’ABORTO.

Anche sul giudizio circa appropriazioni e mistificazioni del pensiero pasoliniano, da destra e a sinistra, molte delle quali imperniate sulla retorica odiosa del cosa direbbe Pasolini se fosse vivo, non posso che dirmi d’accordo con l’autore di questo libro nel ritenerle una naturale conseguenza dell’enormità del personaggio. Esse «confermano l’attrazione del personaggio» (ibidem) e, a ben vedere, hanno origine antichissima.

Un prezioso epigramma scritto da Giorgio Caproni all’indomani della morte di Pasolini già testimoniava il tentativo da parte di molti, letterati in primis, di fregiarsi della sua immagine:

DOPO AVER RIFIUTATO UN PUBBLICO COMMENTO SULLA MORTE DI PIER PAOLO PASOLINI  

Caro Pier Paolo.
Il bene che ci volevamo
lo sai – era puro.
Era puro il mio dolore.
Non voglio “pubblicizzarlo”.
Non voglio, per farmi bello,
fregiarmi della tua morte
come un fiore all’occhiello. (p. 139)

Su “Poesie per Pasolini” a cura di Roberto Galaverni

Nota di lettura a cura di Patrizio Andrisano.

Nel lungo anno del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, nulla credo meriti più attenzione di Poesie per Pasolini a cura di Roberto Galaverni, pubblicato a marzo da Mondadori nella collana Lo Specchio. Un’antologia che raccoglie i poeti in ordine alfabetico, secondo un criterio di trasversalità, e pone sullo stesso piano i contributi dei grandi maestri e dei poeti più recenti. Chiunque come il sottoscritto abbia avuto modo di incontrare Pasolini lungo il proprio percorso di studi comprenderà presto, dinanzi a questo ‘pseudocanzoniere’, le potenzialità di un’opera che emerge chiara e spontanea dalle profondità del Novecento e traccia una volta per tutte la mappa dell’intrico di rapporti che legava il poeta delle ceneri a tutto il sistema-letteratura del suo tempo. Se da un lato è infatti visibile l’immagine stinta del Pasolini contro tutti, dall’altro emerge con grande forza (mai così tanta, quasi un’eco) l’effige opposta del tutti per Pasolini, che fa della raccolta un involontario, eppure largamente giustificato, percorso di espiazione collettiva nei confronti del poeta che, come scrive Galaverni, «per tutti e più di tutti ci ha provato» (Galaverni, p. XIII)1.

Ora, cercare di comprendere la portata di questo provarci o poetico cimento della durata di un’intera vita da Pasolini, è sia il fulcro operativo attorno al quale ruotano le intenzioni del curatore sia il motivo che spinge il tema Pasolini ad affermarsi come sottogenere poetico; almeno, laddove risulti vero che in qualche misura «dire la propria su Pasolini – e non fa differenza se per incensarlo o metterlo al muro – per molti ha significato e tuttora significa dire la propria anche sulla poesia in quanto tale» (ivi, p. VI). I poeti di questa raccolta, in apparenza gli involontari autori del testo, non solo si esprimono sul mito Pasolini che sviscera a sua volta il mito pasoliniano – e tanto basterebbe –, ma riflettono su un certo modo di fare poesia che Pasolini ha sistematicamente aggirato, più di tutti e per tutti. In fondo non sarebbe neanche corretto definirli autori involontari, trattare questa raccolta come un apocrifo codice Pasolini, in quanto, seppure con le dovute eccezioni, queste poesie (elegie, poemetti, epigrammi, epistole, haiku…) nascono da una vera necessità poetica mossa per (o contro) ragioni di passione e ideologia: il tema costante, quello della diversità; s’intende, della diversità nella poesia, come scrive Elsa Morante: «la tua vera diversità era la poesia. È quella l’ultima ragione del loro odio» (Morante p. 106).

Dunque, se alcuni componimenti ricordano il Pasolini delle inchieste giornalistiche, o il Pasolini della memoria, o azzardano il what if del cosa direbbe oggi se fosse vivo – ne sono un esempio Pasolini di Giuseppe Conte e Se tu potessi vedere l’Italia di Gianni D’Elia – è vero che, nel loro insieme, i testi rivelano un certo stato del pentimento collettivo, per non aver compreso l’angoscia vera di chi ebbe «l’ansia di toccare il cuore al mondo» (Ferretti p. 53), perché, aggiunge sempre Massimo Ferretti in Lode d’un amico poeta, «il tuo sangue non vive in questi lacci» (Ibid). E non solo i «lacci» di Ferretti, la «prigione» di Franco Fortini o la «rete» di Ignazio Buttitta, ma altre, moltissime, immagini simili definiscono il limen oltre il quale nessuno come Pasolini s’è mai spinto, uno starci, spiega Eugenio Montale in Lettera a Malvolio, del poeta nella realtà. Qui starebbe il motivo della diversità di cui parlano Fortini, Matteo Marchesini, Alda Merini, Montale, Morante, Mario Luzi, Elio Pagliarani (per citarne alcuni), del poeta che, ribadiamolo, per tutti e più di tutti ha abitato il confine fra poesia e vita, fra mondo interno e realtà. È innegabile, nessuno come Pasolini ha sottoposto a maggior tensione il punto di contatto fra la parola e la cosa, fino all’esito estremo che rende la poesia all’impoetico ipercinetico di Trasumanar e organizzar (1971): raccolta di versi non spendibili dai poeti delle generazioni successive, niente meno che il braccio armato dell’ininterrotta belligeranza del loro autore. Tuttavia, se da una parte la voce immensa di Montale sminuisce l’ossessione pasoliniana per una poesia efficace definendola un’«astuzia» – e sempre da quella parte della barricata Fortini scrive: «non conoscerò che me stesso / ma tutti in me stesso. / La mia prigione vede più della tua libertà» (Fortini p. 66) – altri prendono parte al grande disegno che questo libro riscrive, e a partire da un corpus sterminato di poesie, che è un canzoniere in morte e in vita lungo il quale si tocca il massimo grado dell’espiazione di un innegabile fariseismo poetico. Porto l’esempio di Mario Luzi:

Pasolini?
Ho pensato a lui più volte
[…]
Ci sono modi diseguali di stare nella equità dei tempi,
nella stessa storia, avendone tormento.
Ci sono modi e modi di vivere quella disuguaglianza.
Tutti erano in lizza, questo generava dramma.
[…] Lui agonista
Non aveva scampo. Lo incalzavano
due erinni: la disperazione
e la vitalità, fameliche ugualmente,
lo mordeva la sua intelligenza.
La perduta integrità del mondo
diceva scritta nella sua rovina,
ed era, credo, fieramente vero,
narcisisticamente anche lo era,
e sacrificalmente, spero (Luzi pp. 79-80).”

Non l’astuzia di chi «rifiuta le distanze» (Montale p. 95), non scorciatoia, ma verità; e anche Pagliarani rimprovera se stesso per non aver creduto: «potrò mai perdonarmi / che quel grido quel vento altro che a effetto, altro che artificiale / erano le tue stimmate / era nelle tue viscere / ti era consubstanziale» (Pagliarani p. 117). La stessa rivelazione di una verità connaturata alla figura di Pasolini che aleggia anche nelle parole di Paolo Bertolani: «leggendoti dicevamo / che anche se avevi torto / avevi ragione» (Bertolani p. 20)2.

Ora, le strade che questo libro apre parrebbero infinite, e difficile sarebbe portare qui un’analisi completa del testo. Mi limiterò dunque ad approfondire solo un altro elemento di quest’opera che credo possa completare quanto detto sinora. Vorrei dire qualcosa circa il significato delle stimmate delle quali scrive Pagliarani, fare il punto sul tema del sacrificio che forse ha più a che fare con Dostoevskij che non col Cristo dei Vangeli.

Leggendo si fa strada l’idea che il compromettersi con la realtà, ossia lo snodo che spinge la voce di Pasolini a divergere da quella degli altri sia anche, in un certo senso, la salvezza degli altri; come regola generale, infatti, accettare un compromesso ha sempre un prezzo, anche in poesia, e come s’è visto: «tutti erano in lizza, questo generava dramma». Eppure, non tutti sono disposti ad adottare lo statuto dell’«ossimoro permanente» (Montale p. 95), pochi si spingono tanto in là da confondere arte e vita, e con lo scopo di ridurre lo iato che separa la parola dalla cosa. Luzi ripensa a Pasolini e lo vede in ciò «sacrificalmente» vero, la sua voce come una parola incisa sottopelle, stigma di verità. Giudici è attraversato dalla medesima presa di coscienza quando scrive: «io qui rauca memoria del nodo / che per noi liberava la tua voce» (Giudici p. 70). Inutile girarci attorno: Pasolini libera gli altri poeti dal fardello di una poesia che esce fuori da sé fino a cagionare la propria stessa dispersione, si immerge nel magma più di Luzi, nella palude più di Sanguineti. Perciò, credo che l’immagine del criminale dostoevskiano sia la più adatta a spiegare il servizio che Pasolini rende alla società dei poeti (forse alla società intera), nel concretizzare per tutti il desiderio indicibile di ognuno. Tutti vogliono delinquere, uccidere, rubare e per Dostoevskij il criminale che compie l’atto è una specie di valvola di sfogo per l’intera società, è un santo che permette a tutti gli altri di non agire. In modo analogo, Il poeta delle primule è colui che sporca le proprie mani sacrificandosi, che viene poi condannato per aver liberato la voce di tutti contro il mondo dei padri; lo stesso mondo di padri (borghese, fascista, capitalista) che vibrava, ora sì per interposta persona, l’ultimo colpo di tavoletta che uccise Pasolini; almeno, così negli illuminati versi di Alberto Moravia:

Ti sei chinato e con te
Si è chinato tuo padre e tutti gli altri padri
d’Italia
hai raccolto la tavoletta
e poi hai vibrato il colpo
e con te l’hanno vibrato tuo padre
e tutti gli altri padri (Moravia p. 109).

Il reale insomma è il luogo che fagocita la poesia di Pasolini, giunta addirittura in forma di lirica dagli anni di Casarsa, e in seguito piegata a crescenti nuove violenze per farne l’arma di un’estenuante lotta patricida. Una poesia di Attilio Lolini dal titolo La versione di Dostoevskij rompe allora ogni dubbio:

mi ha detto ammazzami
tutte le notti cercava un assassino
senza trovarlo mai

[…]
vedrai diceva ne trarranno
ovvie conclusioni

nei miei occhi aveva visto un nonsoché
un’antichissima malattia
una sfida da altri mai raccolta

come in un tale mitja che non so chi sia
che come me diceva lui era santo (Lolini p. 76).

L’«antichissima malattia» è il complesso di Edipo, ed Edipo è parte di un’imago interiore che assimila anche le figure di Cristo e Narciso a costituire il trittico fondamentale degli scritti giovanili di Pasolini, – dove anche l’immedesimazione con Cristo ha un taglio perlopiù edipico: è il figlio che per la legge del padre è costretto a separarsi per sempre dalla madre. La «sfida» a cui invece allude, dando almeno per plausibile la conversazione con Lolini, è quella del parricidio, una sfida che Pasolini raccoglie sin da bambino e poi nella poesia, e non per se stesso soltanto quanto anche per i suoi fratelli putativi – gli altri poeti di questo libro, bloccati dalla formalizzazione del verso – che perciò esprimono tra le righe un certo senso di colpa nei confronti del poeta solo contro il mondo; proprio come Ivan Karamazov per il fratello Dimitrij (Mitja), perché se Mitja l’ha fatto, certamente, Ivan l’ha desiderato.

Qui Pasolini parla di Dimitrij Karamazov ma parla di sé, come del fratello accusato ingiustamente di aver assassinato il padre, condannato per aver fatto (ma in verità il vero assassino è Smerdjakov) quel che tutti desiderano. E Pasolini a questa missione ha sacrificato la propria poesia come nessun’altro. È «il poeta che più di tutti e per tutti ci ha provato».

Non so se le genziane viola sino al blu di Proserpina
fioriscono a Casarsa
ma certo di primo autunno sui monti
che ferisce e ventila il tagliamento bambino.
Non un brindisi funebre
un mazzo di genziane miste a felci
vogliono le tue ossa – non le tue ceneri –
che ancora inquietano e consolano
noi in attesa
di ricordarti di dimenticarti (Bertolucci p. 27).


  1. Roberto Galaverni, Introduzione in Roberto Galaverni (a cura di), Poesie per Pasolini, Mondadori, Milano, 2022. Tutti i testi poetici citati di seguito sono tratti dal medesimo volume. Per maggiori informazioni sui testi citati si rimanda alla sezione «Notizie sui testi». ↩︎
  2. Leséndote a diséve / che ‘ncò se t’avi torto / t’avi rasòn. ↩︎