Su “L’amore da vecchia” di Vivian Lamarque

Nota di lettura a cura di Lorenzo Di Palma.

In un saggio del 1927 intitolato Breve relazione su 400 (quattrocento) giovani poeti lirici, Bertolt Brecht scherza non senza preoccupazione sulla possibilità che «qualsiasi tedesco sia in grado di scrivere una poesia». Quasi cento anni più tardi le parole di Brecht sembrano trovare conferma anche in Italia.

Con la candidatura di 135 poeti – autori della quasi totalità dei libri di poesia pubblicati lo scorso anno – nasce la sezione poesia del Premio Strega. C’è da dire subito che nonostante la mole di partecipanti la cinquina finalista mantiene una certa coerenza anagrafica. Composta in maggioranza da autori settantenni (quattro su cinque), suggerisce la smania della giuria di colmare il più in fretta possibile il ritardo rispetto all’omologo premio di prosa. Si ha l’impressione infatti che il Premio Strega Poesia nasca con l’intento di suggellare l’esistenza di lunghe e proficue carriere piuttosto che come riconoscimento al miglior libro di poesia; stessa malattia che aveva già contagiato i giurati del Premio Strega tra gli anni ’70 e ’80, quando vennero premiati libri minori di autori affermati (Tommaso Landolfi, Mario Pomilio, Primo Levi).

Essendo il Premio Strega il più rappresentativo dei gusti del ceto medio dei lettori, si potrebbe soprassedere sulla qualità dei libri finalisti, come d’altronde si fa da anni per la cinquina dei romanzi, ridotta a selezione di testi non troppo ardui in grado di accattivare anche il lettore occasionale. C’è da ammettere però che lo Strega è sempre stato un catalizzatore capace di favorire e accelerare la creazione di tendenze spesso deleterie che potrebbero riproporsi anche nel mondo della poesia che, per scarsità di mezzi e per esiguità di pubblico, aveva continuato a sopravvivere nei suoi esiti più vitali grazie soprattutto all’impegno di editori medio/piccoli, ovvero gli esclusi dalla cinquina finalista (con l’unica eccezione di Italic Pequod).

Questo è un discorso strettamente collegato all’idea ormai sorpassata che le grandi case editrici svolgano un ruolo decisivo nel filtraggio e nella selezione qualitativa dei libri di poesia. Così si legge a caratteri cubitali sul sito de Lo Specchio Mondadori:

Di qui si irradia il canto della nostra lirica, qui giungono le voci nuove della giovane poesia e si affiancano ai grandi nomi già noti in tutto il mondo continuando la gloriosa tradizione italiana attraverso i secoli e i tempi.

Peccato che la politica editoriale de Lo Specchio sia oggi condotta all’insegna della stanchezza e della disillusione: la prestigiosa collana Mondadori trova appena le forze per pubblicare pigre riproposizioni di libri del Novecento con nuove vesti grafiche o nuovi libri di autori che nel Novecento hanno prodotto il meglio della loro opera (Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Giuseppe Conte, Paolo Ruffilli, Giancarlo Majorino ecc.). In questa ultima categoria rientra uno dei cinque libri finalisti al Premio Strega Poesia, L’amore da vecchia (Mondadori, 2022), undicesimo libro di Vivian Lamarque.

Il libro è diviso in nove sezioni; la prima, intitolata «I nomi degli amanti», è quella in cui è trattato l’argomento del titolo. La poetessa descrive in terza persona un innamoramento reale o immaginario per un personaggio più giovane, identificato soltanto dal soprannome “Ics”. Il «Fascino discreto degli amori non corrisposti» è trattato in maniera impressionistica attraverso la descrizione di paesaggi sentimentalmente evocativi (una spiaggia innevata; l’attesa di una stella cadente il 10 agosto) e con una serie di poesie consequenziali sottotitolate delirio 1, delirio 2… che tratteggiano scenari di ipotetici incontri tra i due amanti («Strano le era parso di intravederlo sul volo / per Cagliari»). Da questo punto in poi il libro prende una piega naturalistica con le successive due sezioni («Poesie con foglie» e «Gli animali addormentati»). Le farfalle, i pesciolini, i fiori di lino, i prati servono da impulso per alcune riflessioni sulla vita e sulla morte. Non mancano citazioni dirette ai classici della poesia italiana (Giacomo Leopardi nella poesia sulla siepe; Umberto Saba nella poesia sulla capra). La sensazione è che i testi di queste due sezioni trovino una loro funzione all’interno del libro soltanto attraverso una sommaria coerenza tematica. Più in generale si ha l’impressione che il libro non sia altro che una grande autoantologia cucita con perizia sovrapponendo toppe rappresentative dei temi cari alla Lamarque.

Proseguendo nella lettura di questo bignami lamarquiano, troviamo infatti la sezione dedicata alla famiglia, con poesie su figlia, nipote, madre, fratello e sorella, padre biologico e padre adottivo («Padre padre che facevi il Vigile del fuoco»); la sezione dedicata all’infanzia, con i ben noti riferimenti all’adozione e alla compresenza di più figure genitoriali, forse il vero fulcro di tutta la poetica di Vivian Lamarque dai tempi di Teresino (1981); la sezione dedicata al cinema («Come nel film»), caratterizzata dalla ripetizione, all’inizio di ogni componimento, del titolo della sezione stessa («Come nel film Le Ballon rouge…»; «Come nel film La spiaggia di Lattuada…»; «Come nel film Giochi proibiti…»).

Alcune recensioni al libro hanno evidenziato con fin troppo entusiasmo come la poesia della Lamarque sia rimasta negli anni uguale a se stessa, efficace e sincera. Infatti, al centro delle analisi letterarie che ora appaiono più aggiornate, c’è la tendenza a favorire lo studio dell’efficacia piuttosto che la ricerca del senso, suggerendo l’idea che la letteratura debba essere in qualche modo utile, curativa, e allo stesso tempo non troppo invischiata in questioni formali che allontanano i lettori e restituiscono un’immagine non veritiera della realtà. Assai singolare e indicativa di questa confusione mi pare l’accusa che si muove spesso ad alcuni poeti di essere dei tecnicisti, maniaci delle strutture, innamorati del linguaggio. Sappiamo bene che per diventare popolare la poesia deve semplificarsi, vestirsi di quegli indumenti che la classe media dei lettori riconosce all’istante, e in questo la rima baciata, l’uso sostenuto della similitudine, l’impiego del vezzeggiativo/diminutivo (in L’amore da vecchia se ne contano più di cinquanta su un totale di centosette testi), l’onomatopea, l’anafora, la domanda retorica, risultano gli strumenti più efficaci.

Per quanto riguarda il generale mood del libro, la poesia della Lamarque è continuamente blandita dal suo corrispettivo in prosa, ovvero il feuilleton, il romanzo d’appendice che si attiene a un registro piano e che mette in scena personaggi fortemente caratterizzati nel bene o nel male, immersi in
scenari ricchi di pathos e facilmente inquadrabili nel discorso mainstream contemporaneo: il covid («Come un Covid / nuociamo al mondo.»); la guerra («Oh di nuovo. / Un Paese in dolore / tanti Paesi in dolore»); gli immigrati («Hanno attraversato mille e uno mari / e uomini-squali per approdare infine / su questa casa mobile…»); Whatsapp («e ogni tanto anche un wapp / con dentro metà di un paterno / sorriso…»).

Per concludere direi che l’impianto realistico e a bassa temperatura formale, l’apparente assenza di una vera e propria coerenza tra le sezioni, il ripetuto utilizzo di cliché letterari, il recupero a piene mani di temi da libri precedenti dell’autrice, inseriscano di diritto L’amore da vecchia nel calderone dei libri stanchi ma considerati autorevoli per fattori esterni che non riguardano direttamente il testo. Certo, il libro di Vivian Lamarque non è l’unico a presentare evidenti mancanze, nemmeno tra gli altri della cinquina dello Strega Poesia. Sono forse l’entusiasmo per una nuova pubblicazione dopo sei anni di silenzio, forse il prestigio che giustamente l’autrice si è guadagnata nel corso del tempo che concorrono a far scambiare, come accade spesso, libri superflui per capolavori insuperabili, o addirittura “necessari”.


ALLA SUA ETÀ

Alla sua età
è normale morire.
Nessuno si meraviglia
se uno alla sua età
muore.
Nessuno.
Ma lei sì!
Lei che sarei io, sì.
Sì, lei si meraviglierà,
io mi meraviglierò.
Tanto!

DAVIDE E IL TRAM

Sentinella del secondo piano
guarda il nipote avviarsi
lungo e magro con venti chili
di libri verso la fermata.
Spicciati lei dice al tram, guarda
che fila ti sta aspettando e uno
di loro ha una luce accesa non vedi?
Sono i suoi anni, gli luccica
come astro la giovinezza.
Ma non capisce il tram la parola
astro e nemmeno anni
e tantomeno giovinezza, infine lento
giunge il 14 col suo lungo muso verde
e spalanca le porte e inghiotte
tutti anche lui e poi riparte e poi sparisce
ma lei dalla finestra lo vede nel tram
in piedi e poi seduto, con la sua luce accesa.

COME NEL FILM «NOSTALGIA» (2022)

Come nel film Nostalgia che all’inizio Favino
compra una spugna e poi con la spugna piano
piano lava la sua mamma vecchina e ci incanta
e poi ancora più avanti quando danzando
molto timidamente sorride e noi si pensa
che bello finirà così il film?
Così nella vita tanto speriamo che bene
finisca una cosa. E guardiamo Oreste che nel bel
buio della notte da lontano si avvicina al suo amico
Favino. Per abbracciarlo e fare pace?