Su “Totem” di Silvia Tripodi

Nota di lettura a cura di Antonio Francesco Perozzi.

Copertina di Totem di Silvia Tripodi

Totem di Silvia Tripodi (Tic Edizioni, 2021) eredita il modus della “prosa in prosa” e lo piega in direzione di una postura teorizzante, che pure nella sua frammentarietà traccia le linee di uno schema e affronta (più o meno frontalmente) la sfida tra immagine e parola, nuovi media e letteratura , evento e traccia.

Da un punto di vista stilistico, il libro fa proprie molte caratteristiche della prosa in prosa. La brevità; la reductio sistematica delle elevazioni epico-retoriche (anche tramite un “rientro” delle interrogative: «Cosa ha fatto Guadagnino in questi mesi. Ha girato la sua fiction, non credo»); una pratica della nominazione stralunata, lievemente mossa; una sfiducia nei confronti dell’assertività diretta e marmorea. Questo impianto fa sì che anche le parti più “filosofiche” appaiano come calate nell’ambra, chiare eppure opache. Del resto il libro conserva una certa carica metalinguistica («Alcune parole chiave come falso, strategia, dinamica […] hanno perso il loro significato originario, la loro credibilità») e quindi una mira autoproblematizzante, che si percepisce soprattutto nel momento in cui il discorso vira sull’immagine.

Ciò avviene in particolare seguendo due piste. La prima riguarda Guadagnino, verso cui si nutre quasi un’ossessione («Occuparsi esclusivamente del look di Luca Guadagnino, studiare i suoi gusti, scegliere i suoi vestiti, sperare nell’impossibile»), ma che è ridotto più che altro a una funzione («effetto Guadagnino o dell’intimità strutturata»). In quanto orchestratore di immagini e “desiderato” insieme, Guadagnino funziona sia come obiettivo verso cui tende il soggetto, sia come architetto delle immagini che regolano la sua esperienza. Ne consegue che la coscienza del soggetto appare quasi plasmata dall’“effetto Guadagnino”.

La seconda pista è quella del Grande Fratello. In realtà, il programma non viene mai citato (lo riconosciamo a partire dalle scene descritte) e perciò evapora, diventa un abitare l’immagine (i partecipanti sono, come si sa, costantemente osservati), un’antropologia della vita calata dentro la scena. Così leggiamo a proposito di un concorrente: «Quanta volontà di compiacere gli autori c’è in lui? In quale percentuale le sue azioni, le sue decisioni, i suoi discorsi, le sue parole e anche le sue crisi di ansia, vengono influenzate dalla regia, vengono indotte o manipolate?»

È su tale piano (della coscienza e dell’immagine che si abitano a vicenda) che si innesta il Covid, il discorso-orizzonte cui tende tutto il “detto” degli ultimi anni eppure in grado di mantenere inespressi i suoi fantasmi, di diventare esso stesso un non-detto, uno step della storia che compromette, se nominato, la fluidità della rappresentazione («Come se non fosse esistito, come se non ci fosse, non bisogna esibirlo nella narrazione»). In questa ambigua trasparenza, allora, il Covid si intreccia alla scrittura, diventa il campo di prova per una nuova dicibilità non compromessa al montaggio nascosto, non epica: «una narrazione in frammenti in differita».

Crema la conosco attraverso un film. Non ci sono mai stata. In una tarda mattinata estiva, assolata, per le strade assolate di Crema. Andare in bicicletta fino al centro, andare al bar tabacchi comprare le sigarette. Tornare indietro, verso casa. La curva fiancheggiata da alberi, assolata. Le ombre corte, fa caldo. La luce estiva, accecante, definitiva. Non ho mai visto Crema, solo attraverso i fotogrammi di un film. E se fosse un’altra città, credo che probabilmente riuscirei a pensarla con la stessa intensità. O forse no. No.

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