Volevo scrivere del mio essere un lettore pigro, di come questo abbia delle ripercussioni negative su tutto, e sono finito a riflettere su quali siano i libri che mi rapiscono. Sono libri a un tempo monolitici e magmatici, centrati e policentrici. Sono concept-book, libri-progetto, opere organiche, opere-mondo, io un piccolo Frodo (o un piccolo Sem, il vero eroe è lui) mi perdo, cerco la soluzione, in fondo non la voglio trovare, forse non esiste nemmeno, per certi versi sono io. La mia stessa poesia desidera questa tensione, nel tempo sempre di più. Ho così iniziato a scrivere solo per progetti: senza una direzione non riesco più a scrivere. Ho fatto dunque una breve ricerca per chiarirmi alcuni concetti, per poterli fare miei.
Mi sono chiesto quale fosse l’origine del libro come progetto, e ho visto che la concezione del libro di poesia come opera organica ha radici profonde nella tradizione letteraria. Già Petrarca propone un modello inaugurale di libro unitario, disposto secondo un’intenzione strutturale tematica e narrativa che segue le vicende spirituali dell’io poetico. Tale paradigma riemerge con forza nel XIX secolo, quando molti poeti romantici e simbolisti iniziano a pubblicare raccolte organizzate da un coerente disegno interno: Les Fleurs du Mal di Baudelaire, le Poésies di Mallarmé e, su tutti, Leaves of Grass di Whitman, libro aperto, “the book”, continuamente rivisto e ampliato, concepito come corpus poetico totale, come una Terra di Mezzo testuale: sempre espandibile, mai del tutto esplorabile – ma pur sempre un’isola, per quanto grande come un continente.
Nel tardo Ottocento, questa idea si consolida nella convinzione che un poeta rilevante debba scrivere poemi o cicli coerenti, come accade con Une Saison en Enfer di Rimbaud. Tuttavia, è nel Novecento che la riflessione sulla struttura del libro di poesia diventa teoricamente consapevole e dichiarata: The Waste Land di Eliot e i Cantos di Pound, opera-mondo frammentaria ma intesa come un libro unico in progress con intento enciclopedico, vicino al concetto di opera-mondo delineato da Franco Moretti (un po’ come le appendici del Signore degli Anelli: affascinanti, vaste, enciclopediche, e spesso ne parliamo più di quanto effettivamente le leggiamo). Anche la poesia italiana del Novecento offre numerosi esempi: Montale, Saba, Ungaretti, Sereni – diversi gradi di unitarietà, in alcuni casi solo accennata o addirittura dedotta.
Un po’ di critica ci può aiutare. Enrico Testa, con Il libro di poesia. Tipologie e analisi macrotestuali (1983), sistematizza le forme della raccolta poetica unitaria individuando varie tipologie di macrotesti, dal canzoniere autobiografico ai cicli narrativi in versi fino alle raccolte sperimentali. Per Testa, il libro di poesia rappresenta «un particolare modello del mondo» che riflette un macrocosmo esterno (un mito, una storia, un’opera d’arte) senza però mai coincidere completamente con esso. Negli anni successivi, studi come L’esigenza del libro dello stesso Testa e Il poeta e il suo libro di Scaffai (2005) ampliano questa prospettiva storica. Scaffai combina l’approccio storico e quello teorico mostrando come la forma-libro evolva nel Novecento, dalle strutture cicliche e chiuse dell’epoca simbolista ed ermetica a forme più aperte e frammentarie del secondo Novecento, mantenendo comunque una logica progettuale.
Anche le avanguardie (ad esempio Laborintus di Sanguineti) conservano una tensione verso una poesia concepita come opera aperta, globale, pur frammentando il discorso poetico. Secondo Moretti, le opere-mondo sono «monumenti», caratterizzate da dimensioni enciclopediche, polifonia di voci e strutture aperte che mirano a coprire l’intero spettro dell’esperienza umana. In poesia, esempi classici sono i già citati Cantos di Pound, Omeros di Walcott, Autobiography of Red di Anne Carson, Hart Crane con The Bridge e Iovis Trilogy di Anne Waldman; tutte opere che tentano di fondere storia e realtà in un unico organismo testuale. Moretti evidenzia come queste opere siano punti di riferimento transnazionali, collegandosi al concetto di Weltliteratur, come nel caso del Canto General di Neruda – ma di ciò parleremo in seguito con Ramazani.
Anche la ricerca, poi, si è trasformata in un’ossessione, una condizione di iperconsapevolezza teorica che ha iniziato a permeare il mio lavoro. La materia poetica di Corpo striato era troppo calda e dolorosa, il flusso creativo è stato dirompente e incontrollato, avevo bisogno di un filtro diamantino per evitare il patetismo: una struttura per un testo compatto e coerente, una matrice, una serie, fredda abbastanza per mantenere il controllo – controllare la morte, attraverso il fare poetico, ciò che abbiamo sopportato viene portato e trasformato in un oggetto. Nel frattempo avevo centinaia di appunti per Amigdala, avevo una storia, e già questa è invece una manipolazione, molto più controllabile, non fosse che questa storia era piena di buchi, oscura e subdola, e il frammento e il frammentato, policentrico, si dimostravano come una logica compositiva possibile, una narrazione possibile solo in poesia – altra forma di controllo quella della costruzione della memoria, mi viene da dire: poesia come forma di controllo? Terrificante ma possibile.
A questo punto, si rende necessario riflettere sui due aspetti centrali per la riuscita (la realizzazione?) di un libro di poesia unitario, di un progetto: la composizione e la ricezione. Per me è stata la costruzione dei personaggi familiari, della Storia e della storia, del paese, del paesaggio, mio e non mio, da ricostruire nella memoria, iper-realistico e magico contemporaneamente, io come poeta e poeta-personaggio, mio padre come mio-padre-vivo nel ricordo finzionale del libro e come mio-padre-morto nel presente del poeta-personaggio, mia-madre-viva nel ricordo finzionale del libro e mia-madre-viva nel presenta del poeta-personaggio, ecc. Come si compone e come si tiene conto della ricezione?
A livello compositivo: da trame narrative esplicite a reti più sottili di rimandi interni e isotopie tematiche che producono una progressione di senso, spesso simile alle dinamiche narrative del romanzo; da libri iper-strutturati a libri intenzionalmente frammentari o policentrici, che tuttavia presentano una coesione “di secondo grado”, giocando con la coerenza strutturale, inserendo deliberatamente elementi di rottura o discontinuità, come ne I costruttori di vulcani di Bordini, che presenta «un compromesso tra istanze costruttive e destrutturanti» (Morbiato).
Dal punto di vista della ricezione, Julia Kristeva, con la teoria dell’intertestualità, evidenzia come «ogni testo sia un mosaico di citazioni» che dialogano tra loro internamente (i testi dialogano tra loro) ed esternamente (il libro dialoga con altri discorsi culturali, miti, libri precedenti). Nel caso di un libro di poesia unitario, potremmo dire che ogni poesia si legge come citazione delle altre, in un mosaico interno: la pluralità di testi si integra nella mente di chi legge. In effetti, «il lettore è il luogo ultimo in cui tale pluralità si riunisce, in cui si inscrivono tutte le citazioni di cui il testo è costituito». Nel libro di poesia unitario, tale intertestualità è rafforzata dal concetto di subject in process, un io lirico frammentato, polifonico e in continua evoluzione, come accade ne Le fuggitive di Carmen Gallo, che Cortellessa definisce un «gioco tra fantasmi del sé [che]… esplicita la dimensione rituale… della coazione a ripetere», o nello stesso Omeros, dove ci sono più personae, personaggi o alter ego, Achille, Philoctete, il narratore stesso.
Parallelamente, con Gérard Genette dobbiamo introdurre il concetto di paratesto: elementi di soglia (titoli, epigrafi, prefazioni, note, «l’insieme di elementi che fanno sì che un libro si presenti come tale») fondamentali nei libri a progetto per orientare il lettore verso una lettura unitaria. Il paratesto è un po’ come la mappa della Terra di Mezzo: certo, puoi farne a meno, ma non lamentarti se ti perdi nella Vecchia Foresta. Penso a Citizen di Rankine, che dichiara subito il tema identitario-politico, o a Verso le stelle glaciali di Tommaso Di Dio, dove il paratesto, con un’Avvertenza, anticipa e indirizza l’esperienza interpretativa complessiva: Quattro itinerari compongono questo libro. Questo paratesto introduttivo funge da mappa per il lettore, ci dispiega la dispositio interna.
Jonathan Culler, da Structuralist Poetics (1975) a Theory of the Lyric (2015), dice che leggere poesia implica una continua ricontestualizzazione del particolare nel generale e comprendere una poesia significa applicare una serie di convenzioni e aspettative di genere da parte del lettore, in altre parole, esiste una competenza poetica che ci fa percepire un testo come lirico e ne coglie i meccanismi interni (ripetizioni, parallelismi, ritmi, metafore ricorrenti). Il libro unitario funziona come un concept album, dove il lettore scopre una narrazione implicita attraverso il dialogo costante tra rito (immagini reiterate, parole-chiave) e racconto (progressioni tematiche o narrative). Ogni singolo acquista pieno significato alla luce della struttura totale. Si genera una narrazione implicita, come quella che può emergere da una serie: pur non essendoci una trama esplicita come in un romanzo, la successione delle poesie può creare un racconto di fondo o uno sviluppo concettuale. Il lettore strutturalmente competente tende a naturalizzare la sequenza, cioè a leggerla come se avesse una logica narrativa o tematica.
C’è dunque un filo sottile tra naturalezza e struttura, una confusione benevola, proficua, e questo riguarda sia il poeta-compositore sia il lettore-investigatore. Entrambi sonnambuli, equilibristi, prestigiatori.
Ma credo importante ampliare (complicare) ulteriormente il discorso e ricordare gli studi di Jahan Ramazani che in A Transnational Poetics (2009) sottolinea come molti libri trascendono i confini nazionali e culturali, configurandosi come opere transnazionali, «energie dell’immaginazione poetica che scavalcano gli oceani». Opere come Omeros e Autobiography of Red mescolano tradizioni linguistiche e culturali diverse, rivolgendosi a un lettore globale e cosmopolita: ecco La Compagnia dell’Anello, hobbit, elfi, nani, uomini, stregoni, insieme. In questo senso, intertestualità e transnazionalità si sovrappongono, richiedendo al lettore di cogliere connessioni tra culture e tradizioni eterogenee. Dal punto di vista tematico, un macrotesto poetico può incorporare voci e storie di diverse provenienze (il mito greco o la realtà caraibica nelle due opere già citate, ma anche gli eventi e i media statunitensi che risuonano ovunque ci sia una discussione sul razzismo come in Citizen di Rankine). Sul piano formale, la transnazionalità appare nell’uso di lingue diverse o di forme poetiche miste: ad esempio, poeti migranti come Ocean Vuong o Eduardo C. Corral scrivono libri in inglese che includono parole vietnamite o spagnole, integrando prospettive bilingui in un singolo progetto poetico.
Ramazani parla della «cittadinanza della poesia» che sfida le genealogie nazionali, mostrando come molti poeti odierni “abitino” più tradizioni simultaneamente. Un libro di poesia transnazionale è costruito quindi su intertestualità culturali: ad esempio, Yang Lian nel suo libro Concentric Circles (2005) fonde la classicità cinese con l’avanguardia occidentale, creando un macrotesto che richiede al lettore di essere, per così dire, cosmopolita nelle sue competenze di lettura. Anche il concetto di translinguismo (poesia che mescola più lingue) rientra qui: libri come Taccuino del Nicaragua (1992) di Ernesto Cardenal, scritto in spagnolo ma ricco di citazioni in inglese e riferimenti alla cultura globale, sono macrotesti che deliberatamente oltrepassano la dimensione nazionale. Dal punto di vista della critica, la transnazionalità impone di connettere i puntini: leggere queste opere significa anche riconoscere le fonti eterogenee e capire come un progetto poetico possa fungere da crocevia. In un’epoca di globalizzazione culturale, il libro di poesia unitario può diventare uno spazio transnazionale: un macrotesto come luogo d’incontro di voci del mondo. Ad esempio, Trickster Feminism (2018) di Anne Waldman incorpora miti dei nativi americani, riferimenti al buddismo tibetano e al femminismo internazionale in un unico ciclo poetico – la lettura richiede di attivare conoscenze diverse, e la critica ne ha parlato in termini di «poesia translocale». Ramazani e altri teorici evidenziano quindi che concetti come intertestualità e transnazionalità possono sovrapporsi: le citazioni e i richiami in questi libri spesso provengono da più culture, e il lettore ideale è chiamato a essere un interprete transnazionale, capace di cogliere nessi al di là di un singolo contesto nazionale.
Possiamo, dopo tanto straparlare, pretendere ancora un pubblico? Non chiediamo troppo? Come già sosteneva Testa, il libro di poesia «è un particolare modello del mondo», personale o collettivo, locale o globale, lineare o frammentato, ma sempre progettato secondo una logica strutturale consapevole – superbo, no? Implica una lettura attenta, integrale e attiva, rendendo la poesia contemporanea un genere che non ammette più una fruizione casuale, ma che richiede un coinvolgimento profondo e un’esplorazione guidata, simile al viaggio attraverso una «cattedrale di parole» che arricchisce la nostra esperienza del testo poetico, una Minas Tirith testuale che attende il lettore-esploratore. Ci sono testi che riescono in questa impresa alchemica – d’altronde Dante è ancora vivo, e senza scomodare il Sommo, tutti i libri splendidi che qui abbiamo citato. Forse il segreto è ancora nella narrazione e nel verso, nella tensione dei versi, che attrae magneticamente il fruitore, il quale, verso dopo verso, immagine dopo immagine, suono dopo suono, in una prima o in una seconda lettura, si sintonizza con la forza del compositore: una danza forse, Beren e Lúthien che danzando creano mondi (chi più di Tolkien è un autore-mondo?). Come lettore cerco questa danza, come autore provo a indicarne la soglia.