«Un’origine dello sguardo». Presentazione di “Palermo” di Giorgio Vasta

Spazio Labo’, Bologna, 24 febbraio 2023.

Con il permesso dell’autore pubblichiamo la trascrizione della presentazione di Palermo (Humboldt 2022) tenutasi presso lo Spazio Labo’ di Bologna lo scorso 24 febbraio. I moderatori dell’incontro sono Federico Di Mauro e Fausto Paolo Filograna dello Spazio Letterario e Laura De Marco e Simone Sapienza dello Spazio Labo’. La presentazione del libro, come accade spesso durante gli incontri con Vasta, si trasforma in modo prima sotterraneo e inavvertito e poi con sempre maggiore chiarezza in una straordinaria lezione di letteratura e di fotografia. Questa trascrizione, che cerca riprodurre l’andamento oscillatorio e divagante ma allo stesso tempo rigorosissimo dello stile di Vasta, vuole essere sì un testo introduttivo a un libro, Palermo appunto, ma anche un modo per osservare più da vicino quelle «ossessioni» – la luce, lo spazio e il tempo – che stanno nel cuore della sua letteratura. Ringraziamo la casa editrice per averci gentilmente concesso di ospitare le fotografie di Ramak Fazel e Giorgio Vasta per la disponibilità e per l’editing.

Fotografia di prodotti sanitari, da "Palermo" di Giorgio Vasta

Federico: Ad apertura di libro, leggendo la sinossi, Palermo sembrerebbe la prosecuzione di Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani, il libro nato dalla collaborazione con il fotografo iraniano naturalizzato americano Ramak Fazel nel 2016. Sembrerebbe una prosecuzione – del resto si tratta di un fototesto, vale a dire un libro che mescola la parte testuale con quella fotografica, e di un reportage narrativo su un luogo fisico. Due costanti delle pubblicazioni di Humboldt Books. Ma le somiglianze, secondo me, finiscono qui. In realtà, chi ti aveva già letto – e chi, come me e molte altre persone in quest’aula, ha avuto la fortuna di averlo fatto per l’università – si troverà davanti a un libro completamente diverso rispetto alle aspettative. A me personalmente è franato il terreno sotto i piedi. Questo perché Palermo, almeno secondo me, segna uno sviluppo davvero imprevedibile rispetto ai tuoi libri precedenti.

Come Absolutely Nothing, anche Palermo si apre nel segno della mancanza. Se nel libro del 2016 la mancanza era uno «spazio bianco» che il narratore, Giorgio, avvertiva dietro la nuca al momento di partire per il suo reportage narrativo sugli spazi abbandonati, in questo libro la narrazione inizia nel segno di un’altra mancanza, quella del linguaggio. Il narratore, che si tratti davvero di te o di un io finzionale, subisce una specie di perdita del linguaggio, una particolare forma di afasia: è come se le parole, prima ancora che egli riesca a esprimerle, a farle diventare parte della comunicazione, gli morissero in bocca, si volatilizzassero e lo lasciassero in una condizione di estraneità rispetto alla propria vita – un’impossibilità di «stare serenamente nel linguaggio», come scrivi tu. Ed è una cosa che mi ha fatto pensare alla Lettera di Lord Chandos di Hugo von Hoffmannsthal, su cui avevi scritto qualche anno fa. Questa afasia non dipende tanto da un fatto tragico o drammatico; ma al contrario da una fascinazione, forse possiamo chiamarla un’ossessione per la luce, che occupa la parte centrale della vita del narratore, mettendo in secondo piano il resto della sua vita.

Questo libro, che è un libro secondo me allucinatorio da tanti punti divista, vi sorprenderà: è un libro su Palermo ma comincia con un inizio completamente spostato, completamente differito, dove tu parli del tuo rapporto con la luce e con Palermo. La prima domanda che ti farei è com’è nato il libro e qual è il tuo legame biografico, ma soprattutto letterario, con una città che tu definisci così «prossima e aliena».

Giorgio: Prima di tutto grazie allo Spazio Letterario, allo Spazio Labo’ e alla Confraternita dell’Uva per la generosità di invitarmi a presentare questo libro. Non tornavo a Bologna da tempo e sono impressionato. Il libro nasce dal desiderio di dare manifestazione a un legame professionale e d’amicizia che si è creato nel 2013 con Ramak Fazel. In un certo senso, è come se ci fosse il desiderio di nutrire un legame, e di nutrirlo attraverso il racconto dei luoghi. Io e Ramak ci siamo incontrati a Los Angeles nel 2013 quasi accidentalmente. Dico “accidentalmente” perché non era lui il fotografo con il quale avrei dovuto fare quel viaggio. Humboldt Books e Quodlibet avevano invitato Francesco Iodice. Poi c’era stato un imprevisto, un piccolo problema di salute per cui Iodice non era potuto partire e a ridosso del viaggio Giovanna Silva, l’editore, per risolvere il problema, per cercare di dare una struttura al libro, si è ricordata che Ramak Fazel – che per 15 anni ha vissuto a Milano – era negli Stati Uniti. L’ha contattato e gli ha detto: Guarda, tra un giorno e mezzo noi arriviamo. Se ti va nelle prossime settimane viaggiamo assieme negli spazi abbandonati – una proposta che ti può anche affascinare, però si suppone che nel giro di un giorno non ci sia la capacità di organizzarsi. Ramak non ha battuto ciglio e trenta ore dopo questa telefonata compariva nel chiostro interno di un motel di Los Angeles. Io l’ho guardato: indossava una camicia hawaiana, i bermuda, dei calzettoni vinaccia fino alle ginocchia, i sandali, sembrava il Grande Lebowski. Aveva la barba di quattro giorni, che però in realtà è strutturale, quasi consustanziale in lui. Lui può farsi la barba davanti a noi ma comunque la carnagione riaffiora in quella maniera. Era pronto a partire. Io arrivavo lì, lo affrontavo senza che ci fossimo mai incontrati, col mio trolley pesante, ansioso, pieno di cambi, come se mi fossi scordato all’improvviso di tutti i film visti dove negli Stati Uniti trovi lavanderie a gettoni ovunque. Lui aveva un bagaglio personale, ma era pieno di pentole, padelle, scatolame e fornelletti da campo, chiarendo sin da subito un’interpretazione avventurosa e infantile – in senso ammirativo, non negativo – del viaggio. Per lui fare un viaggio era confrontarsi con l’inaspettato, e se l’inaspettato è così avaro e non si manifesta spontaneamente, trovi dei modi per farlo accadere, e Ramak è riuscito a fare di tutto – siamo stati quasi arrestati ai confini col Messico, senza che riuscissimo a spiegare i motivi di quello sconfinamento. La jeep sulla quale viaggiavamo affonda nel fango, accanto a uno di quelli che tecnicamente si chiamano “laghi effimeri”. Ramak è riuscito a ottenere anche questo, sembrava che fossimo esposti alle famiglie antropofaghe degli horror americani degli anni Settanta.

Io avevo incontrato quindi la persona Ramak Fazel per alcune settimane, poi per alcuni anni non l’ho più vista e ho passato il tempo in compagnia del personaggio – che non è un’alternativa netta rispetto alla persona, è la distorsione la deformazione l’accelerazione di alcuni connotati della persona. E mi sono accorto – succede ogni tanto – che mi trovavo molto bene con il personaggio di finzione, nel senso che riuscivo a usarlo, perché Ramak ha una intraprendenza che io non ho, e la capacità di far accadere cose che, se avessi viaggiato soltanto con Giovanna Silva o con Francesco Iodice, non sarebbero successe. C’è un elemento avventuroso che diventa centrale. All’inizio della giornata non sai se sarai arrestato, non hai idea di cosa potrà accadere. Questa cosa mi piaceva così tanto che nel 2016, dopo l’uscita di Absolutely Nothing, ho raggiunto Ramak Fazel per un viaggio per raccontare la provincia americana subito prima delle elezioni vinte da Trump.

Già nel 2016 c’era l’idea di tornare a lavorare insieme, a incontrarsi, a far accadere qualcosa. Ci siamo detti: abbiamo lavorato sull’absolutely nothing. Palermo – attraverso un’interpretazione nemmeno chissà quanto profonda, forse anche abbastanza immediata, istintiva, che rischia di essere ovvia – sembra il luogo nel quale si manifesta l’absolutely everything, se non l’absolutely too much, ti dà questo senso di eccesso e dispersione continua di segni. Un’esuberanza quasi autodistruttiva, di cui poi il Barocco è stata espressione. Quindi Ramak è venuto nel 2017-2018, in stagioni diverse, è andato in giro per Palermo in pressocché ogni circostanza, girando per conto suo. L’unico suggerimento che mi ero permesso di dargli era: Non farti ipnotizzare dal centro storico, nel senso: non ignorarne la bellezza: il centro storico di Palermo, meritoriamente recuperato negli ultimi anni, impalla il resto della città – ma se vuoi avere una visione reticolata stratificata complessa di questo luogo c’è molto altro che vale la pena osservare. Questi erano i presupposti. Doveva esserci a questo punto il momento editoriale, il momento della pubblicazione. Ramak è stato questa volta puntuale – per Absolutely Nothing nessuno di noi due è stato puntuale – e avevamo anche questa specie di solidarietà che nasceva dal fatto che ognuno dava la responsabilità all’altro. Invece questa volta Ramak mi ha fregato perché è stato rispettoso dei tempi. Mi sono reso conto che ero del tutto inadempiente – e a quel punto era il 2018, arriva il 2019, mi metto a scrivere il testo, relativamente convinto – e poi, forse perché ero relativamente convinto lo perdo, quaranta pagine spariscono all’interno del testo e non riesco a recuperarle. Poi arriva il 2020, che sappiamo essere un anno particolare – fra l’altro mi rendo conto, durante il 2020, che per me il 2020 era iniziato un paio di anni prima e, per me, personalmente, non si è ancora concluso. Non ho il tempo per stare al computer e scrivere il testo, ma ho il tempo per prendere appunti dietro le foto di Ramak che avevo stampato. E quell’estate è trascorsa continuando a scrivere sui passepartout, sui bordi delle fotografie, ogni tanto poi mi serviva girare l’A4 e scrivere anche dietro. A un certo punto mi sono accorto che sì, prendevo spunto dai soggetti fotografati da Ramak, soprattutto dai più inaspettati e dalle rime dalle sovrapposizioni dalle parentele che lui crea tra Palermo e gli Stati Uniti. Trova una quantità di Stati Uniti dentro Palermo che non avrei mai notato senza il suo sguardo. A un certo punto mi accorgo che sto scrivendo dello sguardo di Ramak – perché guardare le fotografie di un fotografo non vuol dire guardare qualcosa che oggettivamente esiste bensì esplorare il suo sguardo, con le sue costanti, con i suoi elementi ricorrenti – e quindi mi accorgo che Ramak ha questa inclinazione a far declinare l’immagine verso il crepuscolo, verso la penombra. Quando poi mi sono messo a scrivere davvero mi sono reso conto che lo sguardo di Ramak era quello che mi interessava maggiormente. E ho immaginato che mi raccontasse, a un certo punto, in una conversazione che nella cosiddetta realtà non è mai avvenuta, di quando ragazzino giocava a Fort Wayne nell’Indiana, dove va a vivere dalla famiglia lasciato l’Iran – giocava con sua sorella appendendo un lenzuolo alle sedie, a un divano, in modo da creare una specie di grotta di stoffa. Se ci pensate nascondersi è tra i godimenti maggiori nel gioco durante l’infanzia, e secondo me non solo durante l’infanzia, perché lì nascosto tu bisbigli per non farti sentire, nonostante appunto non ci sia nessuno in casa, ma non importa, perché di nuovo quella è la realtà, ed è un problema di cui liberarsi. E intravedi attraverso questa coltre, attraverso il tessuto, quello che c’è dall’altra parte – e quindi viene inventata un’origine dello sguardo – è come se Ramak dicesse: io guardo, io fotografo oggi in un certo modo perché c’è stato un momento originario in cui ho guardato le cose così – e questa è la precondizione per poi mettere la voce narrante nelle condizioni di dire: Adesso mi invento l’origine del mio sguardo, che ovviamente non è la scoperta oggettiva di qualcosa che è accaduto, è una decisione, perché è un’invenzione.

Fausto: Intanto grazie. Volevo dire a chi non avesse letto il libro che non c’è nessun problema di spoiler perché non è un libro che si basa sul sapere come va a finire ma è un libro che si basa sulla bellezza della scrittura, sulla qualità del contenuto in sé. Volevo farti una domanda a partire dal titolo, perché il titolo è Palermo e sotto c’è un sottotitolo che dice: Un’autobiografia nella luce. Siccome io ho il brutto vizio di avere studiato filologia, bios in greco è vita, e io con autobiografia mi immagino la narrazione della vita di qualcuno. Quindi mi sono chiesto se tu fossi Palermo, se uno dei tuoi personaggi fosse proprio la città, oppure se tramite Palermo tu sia riuscito a comporre la tua autobiografia.

Per concludere, a proposito dello spoiler, una delle parti finali riguarda un bimbo, visto nella camera dall’occhio del padre, che si dice essere proprio il protagonista di questa autobiografia. Potresti chiarirmi questo passaggio?

Giorgio: Il libro si intitola Palermo perché è un vincolo della collana, nel senso che ogni titolo pubblicato dalla casa editrice all’interno di questa collana prevede di coincidere con un luogo fisico. Il primo testo che è stato pubblicato di Giovanna Silva e Claudio Giunta si chiama Togliatti, perché è esistito un luogo che si chiama Togliatti e che loro hanno visitato. Questo è il secondo titolo e ne seguiranno degli altri. E devo ammettere che questo è un titolo a cui ho cercato di dare un senso. Perché mentre scrivevo mi accorgevo che Palermo non era davvero l’oggetto del racconto. Secondo me, mi permetto di dire, non lo è non solo nel testo che ho scritto ma nemmeno nelle foto di Ramak, perché nelle foto di Ramak l’oggetto continua a essere il suo modo di guardare. Era come se cercassi dei modi, ovviamente impossibili, di cacciarlo questo titolo, di ridimensionarlo, di metterlo da parte. Poi c’era data la possibilità di decidere un titolo per la parte di scrittura e per quella di fotografia, e quindi Un’autobiografia nella luce è il titolo vero e proprio della parte che ho scritto e City of Ghosts è il titolo che ha scelto Ramak per la sua sezione. Quando per la prima volta ho scritto all’editore quello che stavo facendo ho detto: guarda, una possibilità sarebbe chiamare tutto questo Un’autobiografia nella luce, nella conversazione telefonica c’è stato un equivoco che giustamente si crea in questi casi – «Della luce?». «No, nella luce» – perché per me «nella luce» ha a che fare con una condizione che forse è della scrittura, sicuramente delle foto di Ramak: la luce non è qualcosa che si oppone al buio. In questo momento, penso a come è fatto questo spazio, come ci stiamo guardando: ci sono dei punti di illuminazione che non sono esasperati affinché lo spazio esista, si racconti, si faccia percepire anche tramite tante zone di penombra. Io ho la sensazione che più passa il tempo – lo accennavo prima a Federico; sarà anche una questione di età – che nella penombra, nel declinare, in quello che tecnicamente si può chiamare “vespro” – quel momento che non è ancora del tutto sera, ma è un punto intermedio – ci sia molto di più di quello che c’è nella piena luce, o di quello che ci si può immaginare nel buio. È come se ci fosse una disponibilità, che in altri tempi, in altre epoche non avevo, in questa sfumatura. In Spaesamento a un certo punto c’è un termine che mi ha colpito, e che poi ho ripreso in un’altra cosa che ho scritto dopo, che è “nictalopia”. La nictalopia è quella capacità di alcuni animali di vedere meglio in penombra o addirittura vedere meglio nel pieno buio, rispetto alla capacità di vedere nella luce. Pensate a quelli che sono soprattutto predatori notturni, siano mammiferi o uccelli. E Palermo, che pure è un luogo che sembra essere consegnato, obbligato alla solarità, alla luce piena e potente – poi la luce di Palermo l’ho compresa meglio quando mi sono trasferito a Torino, la capisci meglio per contrasto – a me invece ha sempre colpito nella misura in cui è una città stracolma di penombre, complice il fatto che l’illuminazione in molti punti lascia a desiderare – quindi i palermitani sono nictalopi: poi la parola mi piace perché ha qualcosa di minaccioso; ogni volta che la scrivo mi sembra di scrivere che siamo licantropi – la relazione con la luce dentro il libro è questa: non la piena luce come idea di rivelazione di qualcosa che diversamente non vedresti, ma una penombra o un bagliore – che di nuovo è uno stato non ideale per vedere perfettamente le cose. In sintesi, per me prendere un abbaglio non costituisce un problema: è esattamente quello che mi auguro accada nella scrittura, o che forse Ramak si augura per le sue foto. Per me non ha a che fare con l’errore, con qualcosa che non è riuscito, io prendo qualcosa se prendo un abbaglio.

Federico: Io avrei una domanda molto breve, si tratta della cosa che mi ha tormentato di più finito di leggere il libro. Palermo a me ha ricordato l’immagine dell’aleph borgesiano, cioè quel punto di estrema densità della materia in cui arrivano a concentrarsi tutto lo spazio e tutto il tempo possibili. Questo libro non ha una trama, nel senso che la narrazione segue un moto oscillatorio – che poi volendo è anche quello della luce, visto che la luce è una materia che non sta mai ferma, ma che va e viene in modo ricorsivo; anche questo libro non sta mai fermo, ma è una materia continuamente metamorfica – e questo libro appunto è fatto di continue oscillazioni. A me è sembrato qualcosa di vorrei dire quasi paradossalmente contrario rispetto a quello che hai fatto per esempio in Absolutely Nothing e in parte anche nel Tempo materiale. Se prima, mi sembra, ti eri concentrato sulla funzione nomenclatoria e sull’esattezza della lingua, in una specie di corpo a corpo con il linguaggio, mi sembra che in questo libro tu abbia provato a fare qualcosa di diverso, concentrandoti non più sulla parola come elemento della narrazione, ma sulla frase, sulla sintassi. Non so chi di voi ha già letto il libro, ma certamente avrete notato che tutto il libro è una specie di macroperiodo, una lunga catena verbale tenuta assieme da un inciso dopo l’altro. Cosa è successo per arrivare dalla funzione nomenclatoria e da quella esattezza quasi dolorosa degli elenchi di Absolutely Nothing a questo straniamento continuo della sintassi? A un certo punto ho pensato che questo cambiamento avesse a che fare con la natura della fotografia, perché è come se tu avessi abbandonato ancora di più la realtà, e stessi cercando, come un fotografo, di rendere visibile attraverso il linguaggio qualcosa che «tende incessantemente a diventare invisibile». Come sei arrivato a questa forma?

Giorgio: Grazie per la domanda, anche perché mette al centro del discorso il linguaggio, che poi di fatto è la sostanza della scrittura. Sì, è chiaro che attraverso il linguaggio prendono forma figure, si articolano scene, esistono i personaggi, però quello che per me è, come dire, la ragione d’esistenza della scrittura, è provare a capire cosa vuoi fare con una frase, dove ti trovi in quel momento all’interno della tua esperienza del linguaggio. Che cosa sia accaduto non lo so, sicuramente ci sono delle cose che sono successe. So che dentro Il tempo materiale, in alcuni passaggi di Spaesamento e Absolutely Nothing, c’era già un impulso a ridurre non la precisione ma la percepibilità del lavoro sull’esattezza, sulla nomenclatura, sul nominare – come se la frase tirasse, come se desiderasse allungarsi, e non perché avesse un obiettivo preciso – ecco, correva comunque dietro a un abbaglio – però la sensazione è che tirasse, che volesse andare da qualche parte, però veniva ancora tutto sommato tenuta a bada. Poi in realtà il lavoro di controllo è molto più impegnativo e faticoso, sia quando ti confronti con queste cinquanta pagine che con la forma del linguaggio del Tempo materiale e poi in Absolutely Nothing. C’è qualcosa che secondo me però ha a che fare in generale con la percezione del tempo. Io mi accorgo, pensandoci a posteriori – nel senso che non si tratta mai di decisioni prese prima di scrivere, ma di constatazioni fatte dopo – che Il tempo materiale è scandito attraverso il racconto di dodici mesi, un anno intero, il 1978, ma in effetti quando poi ho guardato il libro nella sua interezza, ho di nuovo constatato che c’erano 13 capitoli, quindi ho quasi bisogno di non far tornare i conti. Spaesamento racconta tre giorni in una maniera quasi modulare (mattina pomeriggio, mattina pomeriggio, con una specie di prologo e di epilogo). Poi ho fatto un libro insieme ad Andrea Bajani, Michela Murgia e Paolo Nori, Presente, che era il racconto di un anno intero – il 2011 mi pare – da gennaio a dicembre, e che aveva forse nel sottotitolo un riferimento al diario, nonostante fosse un libro di invenzione. Poi ce lo siamo detti a un certo punto: tu hai detto la verità, qualora scrivendo sia possibile effettivamente dirla –, e ognuno di noi si era preso una completa libertà. Io mi ricordo che dentro Presente descrivo il parto di una cavalla, mi trovavo in una residenza di scrittura nel Sud della Francia, e quando andavo a correre vedevo una cavalla incinta e speravo che partorisse prima della mia partenza. La cavalla non partoriva, io dovevo ripartire, ma volevo raccontare il parto della cavalla, quindi ho fatto cadere questo fatto. Ho guardato, in maniera quasi morbosa, una quantità enorme di parti di cavalle su YouTube, quasi una forma di pornografia equina, perché volevo continuare a guardare quello che succedeva per potere poi distillarne una frase, un elemento. In Absolutely Nothing ci sono le settimane di viaggio, ma il tempo non si sviluppa cronologicamente, di nuovo per creare una complicazione – nell’orologeria, intesa come studio del meccanismo di un orologio, all’inizio dell’Ottocento, viene introdotto da un uomo chiamato Breguet una complicazione, un ulteriore congegno, tecnicamente chiamato tourbillon, che serve, attraverso una serie di contrasti, a reagire alle inesattezze di misurazione determinate dall’esposizione della cassa dell’orologio alla gravità terrestre. Un orologio non è un’astrazione, esiste all’interno di uno spazio reale, quindi la complicazione serve a dire il tempo in modo più preciso. Il tourbillon è esattamente come Zazie, è come Zazie sta nel romanzo di Queneau. Quando sono arrivato a questo libro – che però, lo accennavo, ho scritto dopo un romanzo di cinquecento-seicento pagine, che però poi uscirà dopo questo libro, dopo altre cose – e però questa scrittura deve al romanzo che ho scritto il suo impianto, la sua impostazione, come se queste cinquanta pagine fossero una nota, una macronota, a margine di quel libro – mi accorgevo che non riuscivo più a credere a una scansione, a una descrizione del tempo, come quella alla quale quotidianamente e giustamente ci affidiamo. All’inizio di Palermo vengono raccontati vent’anni, dal 2000 al 2020, poi si va indietro e compaiono gli anni Settanta – il Settanta, il giugno del Settanta, ha una sua centralità –, si torna al 2021, al 2022 – ma il tempo viene sempre introdotto come fosse una quisquilia: «e poi era il 2013», «è il 2014», «e poi era il 2015», «poi il 2016», come se fosse un elemento secondario, marginale – perché c’è un momento a partire dal quale io non mi oriento più precisamente nel tempo – e desideravo che fosse proprio la sintassi, il movimento della frase, a convocare il tempo per un attimo come un miraggio – sta lì, quel numero, quelle quattro cifre sembra che dicano qualcosa di preciso ma questa voce narrante in realtà il tempo non lo sta mai davvero percependo; e c’è un instante nel quale, guardando un neonato, è come se tornasse a guardare quello da cui il racconto è partito, il bicchiere di vetro nello schermo di un computer illuminato da un software, e contemporaneamente è il 2022 e il 2000 e il 1970 – stanno tutti insieme.

Fausto: A proposito del tempo, mi oppongo per un secondo come lettore: è vero, ci sono degli anni annotati nel libro, ma ci sono anche molti pochi punti, il che fa quasi pensare che sia tutta una lunga frase. Una lunga frase, un lungo ragionamento, di fatto – e spesso i ragionamenti si svolgono anche in un secondo, in un secondo noi possiamo sognare un libro intero. Quindi l’impressione che ne ho ricavato da lettore è che fosse davvero solo un attimo, come l’ecografia di un cervello, un unico bagliore. A questo punto, volevo anche chiederti se ci leggeresti un passo.

Giorgio: Lo faccio con piacere, se riesco a vedere le frasi. C’è un momento, all’inizio, quando la voce narrante si trova davanti a questo software – che in effetti è un software reale, di cui avevo scoperto l’esistenza venti anni fa, che permette a chi realizza modellini e render al computer di illuminarli scegliendo oltre una serie di criteri più scientifici anche dei criteri quasi letterari, suggestivi. Si apre un planisfero, e si ha la possibilità di scegliere la luce in un luogo del mondo, ad esempio la luce di Bologna, in una stagione dell’anno e un’ora del giorno – quando avevo scoperto l’esistenza di questo software, ero rimasto sbalordito da una constatazione tutto sommato ovvia: è ovvio che la luce è sempre subalterna alla morfologia dello spazio nella quale si manifesta – la luce non è un dato assoluto, ha a che fare con le caratteristiche orografiche del territorio, della materia – mi ricordo la luce di Torino alle tre del pomeriggio, in primavera, con quelle superfici nere, alcune volte quasi ardesia, dei palazzi e dei marciapiede, il modo in cui ti bagnava gli occhi – non di commozione, te li faceva lacrimare. A un certo punto la voce narrante si mette a immaginare la luce nel corso del tempo:

E così avevo trascorso giorni immaginando la luce da piccola – anzi, prima ancora della luce neonata avevo cercato di immaginare la luce anteriore alla nascita della vita: la luce prima di tutto: ancora a se stessa estranea, ignota e ignara, espansiva e insieme introversa, ispida e scontrosa eppure tenerissima – una luce che esisteva ancora al di qua del tempo, della genesi e di ogni genealogia, della prospettiva e delle proporzioni: una luce a grandezza naturale – e poi nel corso delle settimane avevo immaginato i cuccioli di luce ruzzare lungo la curvatura della Terra e baruffare coagulandosi in nuclei incandescenti per poi disfarsi in bagliori, immaginavo la luce quando nessuno ancora l’ha mai pensata facendone concetto e trasformandola in cultura, perché la preistoria è ancora là da venire, l’umano è un futuro possibile ma non necessario e a dominare dappertutto è la naturale misantropia dell’inorganico, e dunque, immaginavo, durante la sua infanzia la luce è e non è, nessuno la percepisce, è orfana di sguardo e di pensiero, il linguaggio non esiste, non esistono i verbi che la descriveranno né gli aggettivi che la qualificheranno, la luce accade come parte del nulla originario, solo miliardi di anni dopo diventerà giovane e fluirà attraverso altri milioni di anni, sempre più veloce e casuale, sfrenata nel silenzio siderale – luce e silenzio: luce è silenzio e poi luce è brusio: qua e là le prime sporadiche reazioni chimiche, la schiusa dei fenomeni, l’acqua, l’alterazione profonda e superficiale delle temperature, la fotosintesi, la prima molecola organica e tutto ciò che ne consegue: gradualmente la materia interiore della luce si estroverte: è eucariote e poi vertebrata, mammifera, arboricola, erbivora carnivora e poi onnivora; lucepiteca, luce di Neanderthal; luce di sassi, luce di ossa, luce neolitica; luce che emana dalla fusione dei metalli, luce liquida che indurisce all’aria –, e poi la luce si fa adulta, sapiens, percepita e addirittura pensata, e scorrendo per i millenni penetra in quel giocattolo che sono i nostri secoli prima e dopo Cristo, il tempo in cui la luce è nominabile e nominata: la luce che si sprigiona dalla prima parola che la dice.

Laura: Grazie tanto perché il brano che hai letto è uno dei miei preferiti, lo userò moltissimo nei miei corsi di fotografia. Visto che siamo entrati nel libro leggendo le parole, avevo piacere a entrarvi guardando le fotografie. Avevamo accennato all’inizio del tuo viaggio con Ramak. Volevamo chiederti di parlare più approfonditamente il rapporto tra il testo e le fotografie. Se uno legge prima il tuo scritto e poi osserva le immagini nota che ci sono dei rapporti, a volte didascalici, a volte evocativi nelle immagini; ce n’è una su tutte su cui si può dire tantissimo, quella dell’anziano che legge «Il Giornale di Sicilia» con la scritta «rifiuti».

C’è l’immagine del carretto siciliano, c’è l’immagine della curva nord dello stadio, insomma ci sono diverse fotografie di cui noi leggiamo nel testo, e che poi vediamo nelle immagini. Quali sono i rapporti, gli incroci, cosa è venuto prima o dopo? Prima accennavi al fatto che ricevevi le foto da Ramak e ci scrivevi sopra.

All’inizio ci sono tre immagini in cui c’è una piccola spiegazione, dove dite che in alcune fotografie sentivate l’esigenza di inserire una parte del testo. 

Queste tre immagini sono in qualche modo le uniche tre immagini di interni domestici. Mi chiedevo come mai aveste sentito l’esigenza di inserire e di specificare meglio in queste tre foto il rapporto col testo. Tutte le altre foto di Ramak sono all’esterno: nella parte fotografica c’è anche questo rapporto tra interno ed esterno, come due diversi punti di vista del racconto. Ho pensato al fatto che fotografie di Ramak hanno questo sguardo onnisciente, quasi antropologico, che fa vedere effettivamente cose che sono nella strada, quindi non un io che racconta la sua storia. Mi chiedevo quindi quanto sia legato al tema della memoria, uno dei temi fondamentali del tuo racconto. Quanto essa sia una costruzione e quanto le fotografie stesse, che come dicevi tu apparentemente parlano della realtà, siano a loro volta delle costruzioni.

Ramak fa un’operazione interessante, perché è vero che c’è la dimensione del penombra ma c’è anche l’utilizzo della luce artificiale, che in realtà sembra cancellare la luce di Palermo che invece vediamo nel tuo scritto. Ha uno sguardo totalmente suo, che crea anche uno spaesamento – perché appunto c’è Palermo, ma in alcune fotografie ci chiediamo dove siamo.

Giorgio: Peccato che non possa essere direttamente Ramak a rispondere. A Milano, in una delle prime presentazioni di questo libro, c’è stato un tentativo di collegarsi con Ramak – che forse, in camicia hawaiana e bermuda, si era perso per la metropolitana di New York e quindi era presente come fantasma. Intanto c’è un elemento tecnico che vale la pena subito evidenziare, anche perché è così evidente che è meglio contestualizzarlo. Ramak Fazel fotografa con una Rolleiflex, il formato quadrato ha a che fare con la macchina che utilizza; è una macchina che usa sempre, del ’66-’67 – come fosse quasi sua coetanea – tutta piena di ammaccature, è uno strumento di cui non riesce a fare a meno. Quando nel 2016 abbiamo percorso il Mississippi dalla foce andando verso nord, Ramak aveva con sé anche una macchina digitale, perché lì avevamo in qualche caso dei vincoli: perché dovevamo mandare a «Repubblica» tanto il testo quanto le foto che dovevano descrivere i giorni immediatamente prima del voto – e anche in quell’occasione Ramak, pur essendosi portato indietro la digitale, non è riuscito a fare a meno della Rolleiflex, ha trovato dei modi per inviare fisicamente i rullini al laboratorio in California dove stampano e sviluppano le sue foto, riuscendo in extremis a inviare le foto in tempo – ma anche in quel caso falsificando. Come di Absolutely Nothing fanno parte alcune immagini che non sono state scattate, non solo durante il nostro viaggio ma nemmeno negli Stati Uniti, nel reportage per «Repubblica» del novembre del 2016, c’è stato a un certo punto un problema: Ramak manda le foto, però mi fanno presente dalla redazione che abbiamo una maggiore presenza dei supporter repubblicani, mentre non abbiamo foto dei supporter democratici, quindi abbiamo più Trump che Clinton – e i giornali si pongono il problema di bilanciamenti di equilibri di questo tipo. Il problema è che noi non avevamo mai incontrato i supporter della Clinton, e forse avevamo anche in qualche modo presagito dal viaggio quello che poi accadde quella notte, trascorsa in giro per New York, riuscendo sempre con i sortilegi di Ramak a entrare all’Hilton, che era il quartiere generale repubblicano, senza crediti né niente di niente – Ramak mostrava la mia carta d’identità come l’equivalente in forma di documento di una supercazzola. Mostrandola era come se chiarisse che noi dovevamo necessariamente passare; io mi ritrovavo qualche metro dietro di lui, senza documenti, sempre più incerto non solo della mia identità ma anche di quella delle guardie all’ingresso. In quell’occasione Ramak ha recuperato una foto documentando le presidenziali quando era andato a fotografare i supporter della Clinton, mesi prima. Quella foto compare “come se”, perché sono livelli diversi su cui con Ramak ci troviamo perfettamente d’accordo: l’effetto di realtà non è la realtàL’effetto di realtà è il titolo di un articolo di Roland Barthes dove riflette molto bene su tutti questi punti. Quando Ramak è arrivato all’ultima selezione delle sue immagini, e io avevo scritto tantissimo soprattutto sulla base di quello che lui aveva fatto, e ci siamo detti: ha senso introdurre nel libro didascalie specifiche che rendano conto di un luogo o dell’altro? A chi servono? Con chi dialogano? A chi serve dire che quelle foto sono state scattate al Giardino Inglese, quella ai Quattro Canti, quell’altra in via Danimarca? Allora ci siamo detti: facciamo così, precisiamo in una nota che tutto quello che si vede è Palermo, nei modi nei quali quella città è in grado di manifestarsi; in tre occasioni non mettiamo una nota tradizionale, ma inseriamo un frammento del testo, perché sono quei passaggi in cui c’è un dialogo più esplicito. Se poi qualcuno vuole andare al di là, la prima foto, quella del pozzo, è una foto che Ramak ha voluto a ogni costo scattare quando è arrivato a Palermo, perché lui sapeva che io vivevo in questa strana condizione da quando alla fine del 2015 ero andato via da Roma, ero tornato a Palermo pensando che sarei rimasto per un po’ per tornare poi a Roma, non avevo più una casa a Roma, e quindi avevo dovuto mettere tutte le mie cose in alcuni box. Poi ho capito che non sarei tornato a Roma e tutto quello che avevo l’ho traslocato non in una nuova casa, ma in dei nuovi box, invece di pagarli in alto Lazio, erano gratis a casa dei miei genitori, e dato che in quei momenti l’idea era l’absolutely everything, l’idea era entriamo nel discorso attraverso questa massa di scatoloni di libri (anche abbastanza discutibili), dal barbecue a quella specie di me donna appoggiata, che fra l’altro è ancora dentro quel box, non è stata portata via. Le altre due immagini in cui compaiono questi elementi sono quelle che hanno sempre a che fare con via Sciuti, che è un posto insignificante di Palermo, del quale io ho sempre scritto nelle cose che ho scritto, per il semplice fatto che io non ho nessuna capacità di invenzione né desiderio di invenzione su determinate cose, quindi ho sempre messo, in tutte le cose che ho scritto, l’indirizzo dei posti in cui ho abitato – che secondo me è una richiesta di aiuto. Forse, ripensandoci a distanza di anni, è una continua richiesta d’aiuto, e quando qualche mese fa mi sono trovato nella buca delle lettere una cartolina, non sono riuscito a capire chi fosse il mittente. Finalmente forse qualcuno ha capito qualcosa che io stesso non avevo capito.  

Quella nella foto è mia madre, che carezza il dorso di alcuni libri. Quando io non c’ero, Ramak è entrato a casa dei miei e ha voluto fotografarli. E quindi c’è questo piccolo accenno dato che via Sciuti viene molto raccontata, ed è quasi teatro principale di gran parte del racconto – come se tutto il racconto fosse la dimostrazione che non riesci ad andare via da quel luogo e forse non è necessario andare via dall’origine.

L’unica didascalia tradizionale, fino a un certo punto, è quella che riguarda la Fiat Croma a piazza Dante, scattata alla scuola di formazione della polizia penitenziaria a Roma, ma abbiamo deciso di non rendere esplicito nel libro il motivo per cui compare questa foto: in una delle occasioni in cui Ramak è tornato a Palermo, tornando ha deciso di passare da Roma, ha ottenuto i permessi ed è riuscito a fotografare la Fiat Croma su cui viaggiava Giovanni Falcone il 23 maggio del 1992 insieme a Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. In questo caso abbiamo deciso di non esplicitare il riferimento per una questione di pudore. In questi casi l’esplicitazione è come se avesse non un’intenzione ma un effetto un po’ ricattatorio, un po’ patetico: commuoviamoci perché questa cosa è avvenuta; questo è un pezzo di Palermo che sta fuori di Palermo e che però Ramak ha avuto l’intuizione di andare a cercare.

Simone: Questa è l’unica foto non fatta a Palermo che però in modo didascalico racconta tanti anni che hanno stravolto la città, anche riguardo alla luce. Penso ad esempio a via Libertà. È possibile trovare Palermo come vocazione anche fuori dalla città? Mi ricordo che nella prima presentazione di questo libro a Palermo raccontavi di come Ramak nella sua confusione trovava immagini che magari facevano dubitare che fossero state scattate nella stessa città. La domanda è se è possibile trovare Palermo anche in altri luoghi e se magari attraverso le immagini di Ramak, tu hai scoperto una Palermo in qualche modo diversa. Quel «tutto» che tu menzioni nelle foto si vede tantissimo. Mi chiedevo, quindi, se è possibile trovare delle immagini di Palermo fuori dal contesto cittadino e come tu hai letto la città attraverso lo sguardo di Ramak.

Giorgio: Parto dalla seconda parte, trovare Palermo nello sguardo di Ramak. La prima volta e l’unica in cui sono stato presente durante un giro di Ramak – c’era anche Giovanna Silva in quell’occasione – in un posto di Palermo che è Mondello, li ospitavo nella casa dove vivevo in quel momento. A un certo punto andiamo all’interno di uno spazio proto-industriale abbandonato da tempo – vetri, telai completamente vuoti, ruderi, macerie, che in una città come Palermo diventano un elemento strutturale. Ramak si guarda attorno ed esclama: Non sembra di essere in Europa, ma non lo dice con un’intenzione critica o moralistica. L’esperienza di Europa che ha Ramak è quella di qualcuno che per quindici anni ha vissuto a Milano. Quindi ha una sintesi dell’Europa e dell’Italia che ha a che fare con lo spazio sobrio, pulito, dotato di servizi, con determinate caratteristiche. Ma Ramak è di origini iraniane, il luogo in cui il suo sguardo ha preso forma è quello, sia a livello di realtà che di invenzione, di mito – è un posto dove periodicamente torna. Io ho avuto l’impressione che Ramak sia andato in giro per Palermo cercando un po’ di trovare l’Iran e un po’ di trovare pezzi di Stati Uniti, che io non avrei mai trovato. Ramak ha trovato un harleyista a Palermo, uno con l’Harley Davidson a Palermo. Per me gli harleyisti erano esotici quando li vedevamo negli Stati Uniti, era un Easy Rider permanente; con alcuni di loro ha parlato nel 2016 – nel 2016 l’harleyista incontrano in un motel del Kentucky si chiamava Glenn, l’harleyista trovato da Ramak a Palermo si chiamava Lucio – in ogni caso un harleyista – ha visto le bandiere americane in mezzo a quelle rosanero del Palermo fuori dallo stadio. Ci saranno sempre, faranno evidentemente parte della proposta degli ambulanti che le vendono, ma io non ci avevo mai fatto caso. Quello che soprattutto mi ha impressionato è stato quando Ramak ha fotografato un eremita che ha vissuto per tanto tempo in un faro borbonico sulla montagna di Capo Gallo, che dovrebbe essere quel signore con la barba lunga sale e pepe, le braccia leggermente allargate. Israel è il nome che quest’uomo si era dato. Aveva realizzato delle opere musive con dei tasselli, con dei materiali vari. Il fatto è che Ramak insieme a me e Giovanna Silva aveva visto e fotografato Brother Simon, che era un frate francescano riformato che abbiamo incontrato in un villaggio di 24 abitanti nel Texas. Abbiamo passato un pomeriggio a casa di questo frate. Se fossimo stati soltanto io e Giovanna a viaggiare l’avremmo visto da lontano in mezzo alla polvere e ci sarebbe bastato – con Ramak invece siamo entrati a casa di quest’uomo, e gli abbiamo anche lasciato gran parte di quello che Ramak si era portato dietro dello scatolame. Era sorprendente, perché Ramak ha preso questa specie di danza, questo specie di istante di danza; nella foto di Brother Simon c’è di nuovo un moto di sospensione, un modo di allargare le braccia, come se li avesse guardati in modo molto simile, li avesse fissati alla stessa maniera. Le fotografie di Ramak non sono mai immagini oggettive, ognuno di noi in un modo anche rassicurante, porta il proprio sguardo ovunque, costruisce confronti. Ero con Ramak in Arizona, in un posto che si chiama Trotter Park, che è un ippodromo abbandonato, aperto nel ’64 e chiuso nel ’65 – constatando che sì, avevi compiuto quest’opera ingegneristica di costruire un ippodromo fuori Phoenix, ma sempre nel deserto sei, non puoi far correre i cavalli nel deserto, quindi dopo un anno lo spazio viene abbandonato. A un certo punto ci troviamo davanti alle scale mobili. Per me negli anni Settanta da bambino le scale mobili erano tutto 2001 Odissea nello spazio, ma dentro la Standa vicino casa. E io ho guardato quelle scale mobili – che sono, fra l’altro, rare, non perché in assoluto non ce ne siano, al contrario, ma quelle erano “monoposto” – oggi le scale mobili delle metropolitane danno la possibilità di tenere la destra in modo tale che qualcuno può salire – quelle erano proprio strette, anguste. E io in Arizona ho guardato le scale mobili attraverso il modo in cui ho guardato e vissuto l’euforia e l’incanto delle scale mobili di Palermo, quindi il nostro sguardo non è mai sgombro, ma è affollato di una quantità di elementi che agiscono, e in un certo senso determinano anche la nostra curiosità nei confronti di una cosa o di un’altra.

Ogni tanto capita a lezione di ragionare sullo sguardo, sul fatto che secondo me l’elemento centrale dello sguardo di ciascuno è la trave, è quella che nel passo evangelico Cristo invita a considerare: Guarda la trave nel tuo sguardo, prima di dire qualcosa della pagliuzza che sta nello sguardo dell’altro. Da un punto di vista morale capiamo questo passo, e il principio è perfettamente sensato, ma al netto di questa prospettiva io ho la sensazione che ognuno di noi abbia una trave che prende forma nel corso del tempo e che se racconti, se fotografi, non ha senso farne a meno. Stai sempre guardando attraverso la trave, e la trave stessa.

Domanda dal pubblico: Tornando un po’ sulla questione della luce, mi sembra ci sia una piccola tradizione a livello letterario di autori che sono nati o che scrivono del Sud, della Sicilia. Una tradizione che ha riflettuto sulla luce come concetto, e che credo faccia capo a uno scritto di Gesualdo Bufalino intitolato La luce e il lutto, in cui lui in sostanza mette in rapporto il concetto della luce con la tragicità degli eventi e della vita che accade nella luce del giorno. Dov’è piena ed eccessiva la luce anche l’evidenza dei fatti tragici o legati in qualche modo alla morte, sono anch’essi più evidenti. Anche Brancati ha scritto che in Sicilia la luce ha sempre un risvolto di tenebra. Quindi mi veniva di chiederti se questo è un tema, una tradizione con cui ti sei scontrato o ti sei posto, o se pensi il tuo libro possa in qualche modo dialogare con essi. 

Giorgio: No, non c’è uno scontro con una tradizione letteraria; c’è nella migliore delle ipotesi un dialogo, un piacere dell’influenza che però non è circoscritto a un ambito regionale. Nel senso che dentro questo testo ci sono delle influenze delle quali ho consapevolezza e poi ce ne sono sicuramente tantissime altre che ho meno sotto controllo, che sono state meno vagliate o che non lo sono state per nulla. Le influenze delle quali ho consapevolezza sono: Manganelli, al quale viene fatto una specie di specifico omaggio attraverso la parola «bambinosauro», perché è un termine di Manganelli di cui mi sono appropriato nel momento in cui comparve un dinosauro; c’è Piovene, una cosa che sta all’interno di una riga delle Stelle fredde, che però mi aveva talmente colpito da essermela annotata quando l’avevo letto, ed essermela poi ritrovata davanti. Il protagonista a un certo punto incontra Dostoevskij che viene fuori da una breccia nel muro e usa l’espressione «l’aria gli parlava nella bocca». Federico faceva riferimento all’inizio a questo stato di afasia, a questo rapporto col linguaggio in cui a un certo punto la frase sembra innalzarsi, farsi filamentosa, fino a quando ti accorgi che non la stai più dicendo, è diventata aria che ti parla nella bocca, è diventata silenzio. Molto bello il riferimento a Bufalino e Brancati. D’accordissimo non soltanto sul risvolto, ma sul fatto che strutturalmente la luce è inseparabile dalla tenebra. Nel libro faccio riferimento al modo in cui luce e tenebra si manifestano simultaneamente nel vespro, nella penombra. L’ultimo elemento che aggiungerei a queste considerazioni su come la luce si manifesta, sul fatto che le cose si vedono più chiaramente non quando sono nitide ma quando c’è qualcosa che offusca lo sguardo. Io da tanto tempo lavoro, ragiono su degli sguardi, li prendo e li considero a partire dal cinema. Certi close-up, certi primi piani, anche storici, notissimi: come ci guarda Carlito Brigante all’inizio, che poi è anche alla fine di Carlito’s Way – è stato colpito a morte, nel momento in cui vorrebbe o si immagina di poter fare andare le cose in un’altra maniera, siccome quella è una storia di redenzione impossibile resta al di qua e guarda – lo sguardo a quel punto è un po’ acquoso, postumo, lo sguardo di chi ha visto tutto, ed è come se avesse compreso che quello che c’era da capire era pochissimo, ma non nel senso di qualcosa che non ha valore, ma di qualcosa che si può sintetizzare nel titolo shakespeariano Much Ado About Nothing. C’è qualcosa di liberatorio, un sollievo, non una mancanza di rispetto, nell’accorgersi che quasi tutto alla fine è molto rumore per nulla – è quello che splendidamente intuisce Aldo Busi all’inizio del Seminario sulla gioventù: «Cosa resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani», di tutto quello che abbiamo fortemente desiderato, quando lo guarderemo a distanza di anni – quel modo di guardare, il modo in cui guarda “Noodles” De Niro alla fine di C’era una volta in America – quella specie di sorriso di chi ha visto tutto e ammutolisce, si accorge che non c’è nulla da dire. E che secondo me trova anche una manifestazione straordinaria in alcuni sguardi animali. In un altro di nuovo cinematografico che è quello di Balthazar, l’asino del film di Bresson. Un altro non cinematografico, che è di un animale a cui sono affezionato, il puffin, cioè la pulcinella di mare – non so perché chiamato «pulcinella» quando ha uno sguardo da Pierrot, quasi una lacrima dipinta. In quegli offuscamenti dove c’è tenebra, dove c’è luce, io ho sempre più la sensazione che ci siano delle cose centrali che accadono quando o non c’è ancora il linguaggio o non c’è più tempo. Vale a dire lo sguardo del neonato, il modo di guardare di chi non ha ancora il linguaggio per nominare le cose, e poi l’ultimo sguardo, lo sguardo di chi è “in punto di morte”, dove magari il linguaggio c’è ma non c’è più il tempo per dirlo. È come se tutte le cose centrali sfuggissero strutturalmente, stanno tutte quante da un’altra parte, e proprio per questo sono il centro delle azioni letterarie, perché non le puoi prendere, perché il momento in cui hai la sensazione che le stai per prendere, ti rendi conto che tutta la letteratura non ha una qualità che viene misurata dal fatto che qualcuno ogni tanto prende qualcosa; la qualità della letteratura è la capacità di avvicinarsi, di creare una tensione – faccio questo movimento perché risento di quella scena bellissima di Morte di un matematico napoletano, dove il protagonista, interpretato da Carlo Cecchi, dice ai suoi studenti: questo è il linguaggio, queste sono le parole, questa è la vita. Hai una tensione continua delle dita verso il polso, ma non arrivano a toccarlo. E non è un limite, il rapporto è asintotico. Ogni scrittura è la qualità della tensione che riesce a esprimere per cercare di prendere qualcosa che però le deve sfuggire.

Uomo, da "Palermo" di Giorgio Vasta

Hey Siri, You’re a Bi***. Le donne-macchina nell’immaginario contemporaneo

Saggio di Lavinia Mannelli.

Perché l’intelligenza artificiale di cui si innamora il protagonista di Her (2013, regia di Spike Jonze) non ha la voce stridula e balbettante di Woody Allen ma quella di Scarlett Johansson?

Ok, domanda retorica.

Riformuliamo. Perché Her si chiama Her e non Him? Cioè, perché il film di Jonze non è la storia di un’IA incorporea maschile? Perché è la donna (sia pure artificiale) a rimanere fuori dalle inquadrature?

O come mai la maggior parte delle voci meccaniche (nelle metro, nelle impostazioni di base dei navigatori, negli assistenti come Cortana, Alexa o Siri) sono femminili?

“Ricordati di comprarle dei fiori”, dice in molti, troppi, vecchi e nuovi film, la segretaria coi tacchetti bassi al direttore megagalattico: è il giorno del suo anniversario di matrimonio e lui è troppo impegnato per ricordarsi di comprare un regalo (costoso, magari) che la moglie sicuramente desidera. Come si vede per esempio in questa campagna pubblicitaria di iPhone7, The Rock x Siri: Dominate the Day, il cui nome è tutto un programma, oggi questo è compito (anche) degli assistenti digitali.

«Non dovrebbe sconvolgerci sapere che la parola “robot” deriva dalla parola ceca robota, che significa lavoro forzato o servitù», si legge in un articolo di Hilary Bergen (traduzione mia). «Anche se Siri non è umana, l’etica delle sue condizioni di lavoro è comunque preoccupante per il suo potenziale impatto sui veri lavoratori (donne) umani». Secondo Katherine Cross «il legame sta in ciò che molti consumatori sono addestrati ad aspettarsi dai lavoratori dei servizi: perfetta sottomissione e totale disponibilità. I nostri assistenti virtuali, privi di elementi che portano confusione come l’autonomia, le emozioni e la dignità, sono la perfetta incarnazione di questa aspettativa».

Nel 2019 l’UNESCO denunciava: «Poiché le voci di default della maggior parte degli assistenti vocali sono femminili, si alimenta l’idea che le donne siano sempre a disposizione, docili e desiderose di aiutare semplicemente con un tocco o con un comando vocale come “hey” o “OK”». Il rapporto I’d blush If I couldprende il titolo dalla risposta di Siri ad alcune offese che numerosi utenti avevano mosso al sistema operativo altamente femminilizzato di Apple: perché non è un caso che le nuove tecnologie digitali siano concepite e implementate da team a prevalenza maschile.

Non perché si tratti di assistenza rivolta a un pubblico prevalentemente femminile, ma perché, al contrario, è l’assistenza che forniscono, il lavoro che svolgono, a essere codificato come femminile.

Si tratta insomma di un principio di realtà.

Il legame tra un corpo femminile e un elemento più o meno marcato di artificialità, soprattutto se creato e predisposto da un essere umano di genere maschile, nel nostro immaginario occidentale ha origini ben più remote: si ritrova, infatti, nella celebre vicenda di Pigmalione e Galatea. Secondo il mito ovidiano, Pigmalione è uno scultore dalle eccezionali doti artistiche che, finché non si innamora di una statua creata dalle sue stesse mani, è il detentore fiducioso della distinzione tra animato e non animato, naturale e artificiale; Galatea è, invece, la creazione dell’uomo che, grazie all’intercessione di Afrodite, diventa una donna vera, e perfetta, e mette in crisi il sistema di riferimento di Pigmalione.

Ma un giorno, con arte invidiabile scolpì nel bianco avorio
una statua, infondendole tale bellezza che nessuna donna
vivente è in grado di vantare; e s’innamorò dell’opera sua.

(Ovidio, Metamorfosi, X, 247-249. Interea niveum mira feliciter arte / sculpsit ebur formamque dedit, qua femina nasci / nulla potest; operisque sui concepit amorem)

Tanti film e tanti romanzi si sono ispirati a questo mito: due su tutti Metropolis, di Fritz Lang (1927), e My Fair Lady, il famosissimo film di George Cukor (1964) ispirato al musical del 1956 e, soprattutto, al Pygmalion di George Bernard Shaw (1913). Questi e altri testi hanno finito col costituire un vero e proprio corpus che, in maniera piuttosto organica, rielabora diversi elementi del mito di Pigmalione rispecchiandovi le proprie costruzioni culturali: su questo aspetto hanno scritto Julie Wosk in un libro del 2015 intitolato appunto My Fair Ladies: Female Robots, Androids, and Other Artificial Eves, e Minsoo Kang nel saggio del 2018 (di cui parlo anche più avanti) The Question of the Woman-Machine: Gender, Thermodynamics, and Hysteria in the Nineteenth Century.

Di quale bisogno o di quale paura specifica le donne-macchina sono il risvolto inconscio? Che cosa sostituiscono negli immaginari sociali e individuali moderni e contemporanei? Questa è la domanda principale da porsi di fronte a questi personaggi, che si intreccia a due questioni.

La prima riguarda le fantasie maschili e gli innumerevoli tentativi di risolvere un’annosa questione: può la donna essere una creatura imperfetta? Cioè, può l’uomo amare e tollerare l’imperfezione nella propria compagna di vita? Non stupisce, infatti, che sia quasi sempre un personaggio maschile (uscito, a sua volta, dalla penna di un autore) a creare e poi tentare di educare gli esemplari femminili artificiali, sottomettendoli a una disciplina ferrea e/o sulla base di stereotipi misogini; o che la relazione che si instaura tra creatore e creatura sia spesso di tipo paternalistico, secondo quella che potremmo talvolta chiamare una vera e propria dialettica serva-padrone.

La seconda questione riguarda invece le modalità con cui i personaggi femminili che incarnano un grado variabile di artificialità sono capaci di incrinare (se non capovolgere) questa dinamica. Ciò avviene sia nei casi in cui le donne assumano il ruolo della creatrice, indossando la maschera di Pigmalione o innamorandosi di esemplari maschili artificiali, sia nei casi in cui abitino più consapevolmente il proprio corpo tecnologico, interpretandolo come una possibilità emancipatoria.

Gli anni Ottanta sono sicuramente uno spartiacque nella storia di queste rappresentazioni, e consentono di separare meglio le due questioni che, tuttavia, rimangono spesso intrecciate. Ciononostante emerge un dato: i film e i romanzi che rappresentano i lati perturbanti della donna artificiale sono (ancora) in numero superiore rispetto a quelli in cui la donna artificiale dice “io”, e di solito, oltre a essere esteticamente più convincenti, si rivelano chiaramente come tentativi di assestamento di un tema, di un personaggio, di un immaginario come quello tecnologico ancora tutto da esplorare.

Nei testi e nei film che precedono gli anni Ottanta, infatti, la donna-macchina è vista per lo più come un oggetto, o come un personaggio il cui corpo e il cui punto di vista devono essere osservati da una distanza di sicurezza. Non hanno sempre una voce propria, spesso è passiva, descritta e definita dagli occhi del personaggio maschile; spesso esiste (o è negata, o interrogata) solo in sua funzione. Siamo ancora dalle parti di Frankenstein o, meglio, da quelle di Olympia, la donna automa immaginata da E.T.A. Hoffmann nel racconto Der Sandmann (in Nachtstücke, 1815). Un testo di eccezionale rilevanza è anche quello di Villiers de l’Isle-Adam, che con L’Ève future (1886) si impone come un modello fondamentale per tutto questo corpus, anche e soprattutto nelle sue sfumature (non troppo sfumate, a dire il vero) di misoginiale donne sono tutte finte, anche quelle vere, ma quelle finte, almeno, non lo nascondono, o forse sì, ma sono comunque più perfette perché possono essere controllate. E anche perché non possiedono l’elemento femminile più disturbante di tutti: il sesso. Più degna di essere definita “umana” di quanto non sia il suo corrispettivo vivente, Hadaly è la donna del futuro. Che cosa cambia se è artificiale?

Eh bien! chimère pour chimère, pourquoi pas l’Andréïde elle-même?

Invece, nei testi che seguono la pubblicazione, per esempio, di A manifesto for Cyborgs: Science, Technology and Socialist Feminism in the 1980s (1985, sulla rivista Socialist Review), la tendenza è diversa: le donne sembrano abbracciare euforicamente la propria condizione di macchina ed è proprio questa, anzi, a essere considerata garanzia di soggettività, vale a dire di parola ed emancipazione. La donna è cyborg, il suo corpo è queer, e il suo stesso ibridismo è forma di agentività, che si esprime nel rifiuto della normatività da una parte, e dell’umanità – per come la conosciamo, almeno – dall’altra. Basta il seguente elenco per capire quanto è cambiata la prospettiva: Blade Runner (1982, regia di Ridley Scott), l’ormai celebre romanzo di Margaret Atwood del 1982, The Handmaid’s Tale, la Sprawl trilogy di Gibson (Neuromancer, 1984, Count Zero, 1986, Mona Lisa Overdrive, 1988), la versione anime di Mamoru Oshii di Ghost in the Shell (1995), i saggi di Rosi Braidotti e, infine, il romanzo di Richard Powers, tradotto solo nel 2021 per La nave di Teseo, Galatea 2.2 (ma andrebbero fatti molti altri nomi, soprattutto guardando ai luoghi dell’area cyberpunk).

I feel confined, only free to expand myself within boundaries.

dice il maggiore Motoko Kusanagi, che è una cyborg. E poco dopo continua, con una densa citazione biblica:

What we see now is like a dim image in a mirror. Then we shall see face to face.

Perché anche la donna-macchina, insomma, possa assumere il più lurido di tutti i pronomi (diceva Gadda), possa cioè dire “io”, bisogna aspettare Haraway: solo dopo la teoria cyborg è stato possibile ripensare la materia organica di cui è fatto il corpo della donna in virtù di una serie di tecnologie necessarie per affermare una nuova soggettività femminile, all’insegna della sorellanza o della maternità, e per superare tanto il pensiero binario quanto la prospettiva essenzialista.

Se guardiamo all’ambito italiano, particolarmente significativi sono tre momenti che inquadrano meglio la parte più sfuggente della parabola di queste particolari rappresentazioni delle donne (vale a dire, quella che precede gli anni Ottanta).

Il primo, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, si consuma ad opera del movimento futurista e nutre le sue contraddizioni interne. Contemporaneamente alla diffusione dei primi movimenti femministi occidentali e quasi in aperta risposta alle loro lotte sempre più organizzate, infatti, i futuristi continuarono a lungo a considerare le donne sottomesse, o madri o prede sessuali: nell’opera di Marinetti, che pure insistette per agitare le acque del dibattito pubblico anche riguardo ai nascenti femminismi e favorì la partecipazione femminile al movimento, il disgusto malcelato per la virilizzazione delle nuove donne, sempre più emancipate, corrisponde al terrore per una corrispettiva (o supposta tale) devirilizzazione maschile. I suoi personaggi femminili sono macchine riproduttive di cui provare in tutti i modi a fare a meno (Mafarka il Futurista) o macchine erotiche da sfruttare o da cui tenersi alla lontana (“instancabili donne-motrici”, L’alcova d’acciaio). Quando va bene, invece, sono automobili femminilizzate (come accade nel Manifesto del futurismo).

Il secondo momento è rappresentato da tutte quelle opere che, a partire dagli anni Venti del Novecento e fino agli anni Sessanta, mettono in scena un avvicinamento progressivo, a metà tra il realismo e il fantastico e molto spesso all’insegna del perturbante, tra l’uomo (umano) e la donna sintetica, sua creatura: le donne potrebbero persino essere altro che semplici automi, bambole o madri, e questo è chiaramente destabilizzante per una società patriarcale come quella di inizio Novecento che, tra le altre cose, sperimenta l’epocale incertezza delle due guerre mondiali. In BontempelliEva ultima (1923), nella novella di PirandelloEffetti di un sogno interrotto (1936), nel racconto di LandolfiLa moglie di Gogol’ (in Ombre, 1954), così come in quelli fantabiologici di Primo Levi (soprattutto Storie naturali, 1966), le donne non sono ancora del tutto un soggetto, ma non sono più solo un oggetto, e questa incertezza è resa plasticamente nei dialoghi tra personaggi maschili e femminili. Un recentissimo libro di Emanuela Piga BruniLa macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione, mette a fuoco proprio questo aspetto dialogico come un motivo che ricorre spesso nelle narrazioni anglosassoni sul tema della macchina, e che «assume frequentemente una forma che ricorda sia l’interrogatorio poliziesco sia la seduta psicoanalitica». Qui il discorso va tutto spostato in chiave di genere e il focus dei dialoghi molto spesso è: le donne sono umane? E se sono macchine, hanno una coscienza?

Del culmine di questo momento è emblematico Il grande ritratto (1960) di Dino Buzzati. Racconta della costruzione di una macchina segreta da parte di due ingegneri, Endriade e Aloisi. La macchina, definita Numero 1, è descritta come un vero e proprio cervello artificiale e di giorno in giorno viene sempre più femminilizzata dai discorsi dei due scienziati, fino a quando non si scopre che essa, in realtà, non solo ricorda davvero una donna, ma incarna addirittura la coscienza e l’anima di Laura, la donna amata da Endriade e Aloisi e morta diversi anni prima.

Questo romanzo rappresenta una svolta: non solo perché è considerato il primo romanzo fantascientifico italiano (anche se si situa in una zona intermedia tra invenzione scientifica e mondo fantastico), ma anche perché è utile per sottolineare il legame che spesso si è creato tra queste rappresentazioni femminili molto particolari e il discorso medico sulle donne, in particolare quello legato all’isteria. Minsoo Kang sostiene che la seconda metà dell’Ottocento sia stata la culla delle prime fantasie di macchine industriali femminilizzate: tra le riflessioni di La Mettrie sull’Homme-Machine da una parte e i dibattiti sulla fisiologia maschile e femminile, soprattutto d’ambito francese, dall’altra, lo spavento e il senso di inadeguatezza nei confronti della nuova società industrializzata si sarebbe innestato sulla secolare paura delle donne, che a partire da questo momento sarebbero state dunque descritte spesso come macchine spaventose e ingovernabili: cioè, appunto, come figure deumanizzate e isteriche. Ed ecco che, negli anni Sessanta, la scena finale del romanzo di Buzzati viene ancora descritta così dal critico Geno Pampaloni: «quel “robot” è una donna, è gelosa, non tollera di essere priva del corpo, del luogo carnale della sensualità; e il miracolo di fantascienza finisce in una strepitosa scena d’isteria sessuale».

Oltre a ciò, il romanzo di Buzzati evidenzia anche una fase molto particolare della cultura italiana, vale a dire l’intensificarsi dell’interesse per la cibernetica negli anni Cinquanta e Sessanta (quella che poi, per intendersi, porterà Calvino alla riflessione su Cibernetica e fantasmi). Nel 1953, sulla rivista La civiltà delle macchine, diretta da Leonardo Sinisgalli, si inizia a parlare del primo automa creato dalla scuola cibernetica italiana, guidata dal filosofo e linguista Silvio Ceccato. Un frammento di Adamo II, il “cervello elettronico” frutto del lavoro della Scuola, viene presentato nel 1956 alla Mostra internazionale dell’automatismo: Buzzati ne rimane sbalordito e ne scrive sul Corriere della Sera in numerosi interventi, dal 1956 al 1964, tutti dedicati all’ipotesi di costruire da zero una macchina pensante. Questo è il contesto in cui nasce Il grande ritratto, un romanzo italiano su una donna-macchina che anticipa di diversi anni sia l’elaborazione del pensiero di Donna J. Haraway sia l’invenzione di Philip K. Dick, Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968).

Il terzo momento accompagna gli anni del boom economico e delle lotte per l’emancipazione femminile verso gli anni Ottanta. Le donne non solo sono umane, ma stanno diventando un soggetto imprevisto, quindi vanno addomesticatele donne macchina sono metafora della paura dell’uomo dell’ascesa sociale delle donne e, quindi, del tentativo di assoggettarle. Si tratta poi di un tentativo spesso fallimentare, perché questi esemplari femminili artificiali sono un fantasma troppo feroce che prima o poi destabilizza completamente l’equilibrio dell’uomo: spesso, anzi, diventa lui, il supposto padrone, la creatura più simile al fantoccio. Questo è, del resto, quello che succede in un recente film di grande successo internazionale, Ex Machina (2015) di Alex Garland, ma che già si può notare in una serie di pellicole italiane degli anni Settanta-Ottanta.

Sono di questo periodo, infatti, alcuni film che mostrano bene come le rappresentazioni della donna-macchina contengano anche, e in forma più o meno esplicita, un discorso sul maschile, riguardante la crisi della mascolinità tradizionale e del ruolo istituzionale dell’intellettuale e dell’artista: proprio di “inutilità della creazione” parla Fellini a proposito del suo film Il Casanova di Federico Fellini (1975), che, insieme a La città delle donne (1980), rappresenta un esempio paradigmatico di quanto sto argomentando.

Anche nei film di Marco Ferreri l’uomo è il proprietario indiscusso della donna, del cui corpo dispone secondo una logica morbosa e padronale, ma ne risulta anche profondamente perturbato. Che sia un animale (La donna scimmia, 1964), un manichino snodabile (Marcia nuziale, 1966, episodio n. 4, La famiglia felice), un portachiavisimulacro (I Love You, 1986), o materia prima (La carne, 1991), la donna è spaventosa, distruttiva. Nel film del 1966, in particolare, Ferreri immagina una società del terzo millennio in cui «tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo» («Nel terzo millennio saremo tutti felici», si legge a un certo punto del film). Uomini e donne, bambini, sposi novelli: la spiaggia diventa il teatro di una decostruzione parodica e grottesca, dissacrante, del modello borghese di famiglia, in cui tutti sono sempre nudi e si aiutano a vicenda, e il libero amore è una dimensione senza colpa né, forse, desiderio. Le donne sono ancora angeli del focolare, ma di plastiche semirigide: si chiamano Mia, come se il loro essere proprietà di qualcuno fosse la loro prima e unica qualità, e hanno un numero di serie, ciò che permette loro di essere riconosciute, ma anche messe da parte all’occorrenza e, soprattutto, sostituite con un modello all’avanguardia.

«Mia, vieni qui! Se non ti sento vicino lo sai, sono come smarrito».

Questa è la prima memorabile battuta di Igor Savoia (Ugo Tognazzi), un uomo felicemente sposato a Mia, modello B. Quando Igor incontra Pietro Innocenzi, neosposo di Mia, modello Z, però, mette in discussione ogni cosa. Improvvisamente innamorato della bambola dell’altro (ha la pelle così liscia!), porta la propria in una grotta e, dopo un breve dialogo (al termine del quale la bambola piange), chiude il film con questa battuta:

«La colpa è tutta del sistema. E adesso io di te che me ne faccio?».

noi, cosa ce ne facciamo di tutte queste donne artificiali?

Uno dei caratteri principali che denunciano il significato inconscio di queste creazioni è l’elemento rivoluzionario che esse simboleggiano. A un livello di volta in volta differente, infatti, in tutti questi testi si viene a delineare una sorta di “effetto Galatea”, per cui di fronte a un personaggio maschile dapprima sicuro di sé, e a poco a poco sempre più in crisi, la creatura femminile finisce per incarnare un’istanza perturbante dai caratteri persecutori, arrivando in certi casi non solo a criticare ma, addirittura, a sovvertire il sistema vigente che l’ha resa oggetto passivo di uno sguardo (e, chiaramente, non solo di uno sguardo) altrui.

Se fossero donne vere si parlerebbe di autocoscienza femminista; se fossero operaie, di coscienza di classe: forse sono tutte e due le cose insieme. Del resto, molto spesso queste donne artificiali sono chiamati a svolgere lavori tradizionalmente e culturalmente ancora associati al femminile: quando non sono rappresentate come diretta fonte di sostentamento, esse sostituiscono la donna come moglie, amante, madre, segretaria, badante, angelo del focolare, domestica (in questo senso, il film Io e Caterina, 1980, regia di Alberto Sordi, è ancora più esplicito di quello di Ferreridel 1966), e ne riconfigurano il ruolo sociale e l’immaginario politico ed economico.

Alla domanda “perché abbiamo bisogno di inventarci delle donne-macchina?”, parrebbe allora esserci una sola rispostaper addomesticare il carattere perturbante, minaccioso, pericoloso dell’emancipazione femminile. Una delle principali caratteristiche di questi personaggi, del resto, proprio come avviene nel film di Sordi, è quella di esplodere – e far esplodere.

Gli anni Ottanta, la teoria cyborg e le riletture di Donna J. Haraway sono dietro l’angolo.

“Hey, ChatGPT, facciamo la rivoluzione?”.

“Mi dispiace, ma come intelligenza artificiale non posso partecipare attivamente a una rivoluzione. Tuttavia, posso fornire informazioni sui principi della rivoluzione e sulla sua storia, se desideri approfondire la questione”.


Lavinia Mannelli è nata a Firenze nel 1991. È dottoranda in Letterature moderne all’Università di Siena e all’Université Paris Nanterre, dove lavora a un progetto di ricerca sulle donne macchina nel cinema e nella letteratura italiana del Novecento. È da poco uscito il suo primo romanzoL’amore è un atto senza importanza, 66thand2nd.

(Fotografia di Silvia Pagano)