Galassie

Racconto di Deborah Guarnieri.

Foto di Deborah Guarnieri

La catenina d’oro che suo padre portava al collo al momento dell’incidente la madre gliel’aveva infilata nella borsa in camera mortuaria, poco dopo che il medico di famiglia le aveva infilato nella stessa borsa un flaconcino di gocce che la sua migliore amica aveva definito non proprio omeopatiche. Avrebbe potuto girarla due volte attorno alla caviglia per farci una cavigliera, tre volte attorno al polso per farci un braccialetto, ma aveva preferito conservare la catenina lì, sul fondo della borsa.

Per la città era un periodo brutale, la violenza assopita si risvegliava ciclicamente, si sollevava dall’asfalto come il miasma di una pestilenza. Si finiva accoltellati sul viale per una carta di credito o per goliardia. Ogni volta assumeva una forma diversa e quella era la volta dei coltelli e del sangue. Accadeva di notte quindi si scoraggiava la vita notturna. Questa, l’unica misura adottata. Per lei non era un problema, per lei non era un problema niente. Lei ora la notte dormiva. Usciva per comprare le gocce, usciva per andare dalla psichiatra a farsi prescrivere altre gocce. Dal fondo della borsa la catenina la fissava con occhi di biscia.

Sperimentava da settimane, testava una quantità sempre differente, guardava le meduse dissolversi nell’acqua poi andava a rannicchiarsi sul letto, sopra il lenzuolo, aspettava che l’intonaco bianco del muro si espandesse in uno spazio infinito intorno al suo corpo, una nuvola di ovatta che la avvolgeva al punto che non vedeva più niente se non quel bianco accecante. Prima di ogni nuova prescrizione la psichiatra le domandava a cosa pensasse durante quei pomeriggi che trascorreva distesa e lei rispondeva: a niente, mangiava il minimo essenziale perché l’annebbiamento non si dissipasse, perché la nuvola di ovatta al massimo si sfilacciasse. Dalla finestra della cucina osservava la luce assumere il colore e la consistenza dell’albume dell’uovo, appollaiarsi sui rami addensata in blocchi cubici. Si accorgeva del calo dell’effetto dal sopraggiungere di una visione, un tunnel, lei camminava in questo tunnel, doveva essere un tunnel lunghissimo perché le pareti non convergevano mai verso l’occhio giallo dell’uscita. Mentre vagava in quella foschia lo aveva incontrato, lui era nero, tutto nero, le iridi nere si confondevano con le pupille. Si erano guardati e si erano riconosciuti, si erano visti attraverso immediatamente; toccandosi, avevano trovato conferme. Insieme si sarebbero saziati. Insieme sarebbero stati invincibili.

Mangiavano caramelle schifose perché i denti non si sarebbero cariati, non dormivano perché non avrebbero sentito stanchezza. Lei non era tornata più a casa, non aveva più bisogno di una casa. Fumavano e i polmoni non sarebbero anneriti, fumavano in continuazione e se la passavano, se la poggiavano l’un l’altro sulle labbra, sputandosi nella bocca si scambiavano la saliva. Si fermava a scrutarlo per cercare di capire se le piacesse davvero la sua faccia, ma non era la bellezza del corpo, qualche pura simmetria a ispirarli; era il fatto che la sua figa fosse piccola e calda e il suo cazzo sempre duro, che le mani di lui, prima o poi, dovessero ritrovare le sue cosce, quelle mani grandi che le lasciavano galassie nere verdi e viola, quelle mani grandi che la picchiavano e quel cazzo duro che la fotteva fino allo stremo, fino a quando non restava che il suo involucro da usare, mentre lei trapassava, si elevava in quello stato beato della semi-incoscienza.

Si erano stabiliti in un buco di quaranta metri quadri con poche finestre non esposte a est, frigido come uno scantinato, avevano preso a uscire soltanto di notte perché la luce non guastasse il loro ordine. Il giorno impone le proprie leggi mentre la notte si può plasmare. Si addormentavano, non era cosa voluta ma una conseguenza, l’apice dell’amplesso e della perdita di coscienza, lo facevano per ore, le sue mani sul torace, tutto il suo peso premuto sul torace, quando lei rinveniva, se faceva buio, uscivano, vagavano per la città perché i piedi non avrebbero fatto male, i calli non sarebbero spuntati, anche se lei portava sempre stivaletti con il tacco quadrato, i piedi non facevano mai male.

Più volte era successo che, tornati a casa, lei sfilasse lo stivaletto e trovasse il sangue. Sangue secco impregnava le calze e la pelle intorno alle unghie. Era sempre il piede sinistro a sanguinare. Dopo le botte, le galassie nere verdi e viola comparivano a sinistra, dopo le sberle era l’occhio sinistro ad andare, per un istante, fuori fuoco. Ricordava una visita dal ginecologo, poco dopo averlo conosciuto, crampi da sudori freddi l’avevano assalita all’inguine sinistro, e giù per tutta la gamba sinistra, il ginecologo le aveva infilato la sonda e le aveva comunicato che a ovulare era stato il suo ovaio sinistro. Il male si insinua sempre a sinistra. La destra è di Dio.

A tratti la folgorava il pensiero che stesse succedendo qualcosa alla sua parte sinistra ma lo ignorava. Se fossero rimasti insieme lei non sarebbe marcita. Era tornata a vedere i colori, grazie a lui, grazie a loro insieme vedeva a colori e non più il bianco accecante, e non più il tunnel. I colori della notte e delle galassie non la ferivano, non erano invadenti, squillanti, la notte nella città era nera, rosso carminio e verde scuro, soprattutto verde scuro, verde muschio, la notte nella città era gocciolante e frigida come lo scantinato, così che nemmeno lo sbalzo di temperatura li poteva colpire. Il sottopassaggio della stazione era il posto più umido della città. Aveva quell’odore di tessuto bagnato asciugato male, e macchie di piscio, e un rimbombo da latrina. Era un posto da evitare. Si circumnavigava il quartiere, pur di non passarci. Forse, erano da attribuire a quell’umidità i miasmi della violenza.

Aveva capito subito che qualcosa non andava perché il sottopassaggio era giallo e verde acido. Ascoltava i loro passi, i suoi tacchi quadrati e pensava che se stavano insieme non sarebbe successo niente, siamo insieme e non ci succederà niente, e gli strizzava la mano. Erano usciti con il buio, come al solito, come sempre, avevano seguito la corrente e la musica che trascinava, aveva piovuto e i marciapiedi luccicavano, avevano svoltato due o tre angoli ma la musica proveniva dall’altra parte dei binari, al di là dell’edificio della stazione, non potevano vederla, potevano solo sentirla. Il sottopassaggio era la via più breve, lui aveva detto: due minuti e saremo di là, due minuti, che saranno mai due minuti, bastava trattenere il respiro prima di entrare, sarebbe riuscita a trattenerlo due minuti. Ma quel giallo e il verde acido incrinavano la bolla, stavano forando la loro bolla, crick, un uovo che si buca, aveva accelerato il passo perché la bolla non si crepasse, continuando a trattenere il respiro, se siamo insieme non ci succederà niente, ma dovevano uscire, non le piaceva restare nel tunnel, lì le pareti convergevano verso l’occhio dell’uscita quindi dovevano uscire, tornare ai colori rassicuranti della notte. Rosso carminio, verde scuro, verde muschio. Erano lì che li aspettavano.

Era lì che li aspettava. Stava appoggiato al muro e lo avevano superato fingendo che non ci fosse. Avevano visto quel che c’era da vedere: un uomo macilento, ma un telaio agile, nervoso. Li aveva attaccati alle spalle.

Lui gli aveva sferrato un pugno, sapeva quanto le sue mani potessero far male, era lei a chiederlo: di più di più. Lo aveva messo a terra e gli si era seduto sopra. L’aveva guardata. Non aveva detto niente ma lei aveva sentito è il tuo turno. Quegli occhi neri nerissimi le stavano lasciando il posto. I colori della città erano baluginati nei suoi, tutti mescolati, cerchietti vorticanti, no non glielo avrebbero portato via, aveva alzato il piede, aveva sbattuto le palpebre, no non le avrebbero tolto anche lui, aveva affondato il piede, il tacco quadrato nello zigomo, no non avrebbe perso anche lui, l’uomo macilento aveva spalancato la bocca nel tentativo di morderle la caviglia, non voleva tornare nel tunnel, aveva alzato, affondato, di nuovo alzato, affondato, aveva sentito le ossa spezzarsi sotto il tacco quadrato. L’uomo era rimasto immobile con la bocca spalancata, la mascella frantumata. Da allora non erano più stati visti. La notte erano rientrati nel buco e si erano seduti sul letto; a gambe incrociate, lui, in ginocchio, lei, dietro di lui. Aveva afferrato la biscia dal fondo della borsa. Aveva chinato la testa e gli aveva annusato i capelli, la nuca, il collo fino all’orlo della maglietta. Sì, era umido, ora, quell’odore umido di sudore dimenticato addosso. Aveva portato il naso sopra la spalla, aveva inspirato, su di sé non riusciva a sentirlo ma era sicura di avere addosso anche lei, ora, quell’odore, l’umidità. Aveva sollevato la catenina d’oro, le estremità tra pollice e indice, gliel’aveva posata sul petto, aveva chiuso il fermaglio dietro il collo.

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