Nel finimondo. Su “Il duca” di Matteo Melchiorre

Nota di lettura a cura di Antonio Galetta.

Copertina de "Il duca" di Matteo Melchiorre

Il Duca di Matteo Melchiorre (Einaudi 2022, 464 pp., 21 €) è ambientato perlopiù nel 2018 in un piccolissimo e fittizio paese di montagna, Vallorgàna, probabilmente tra Veneto e Trentino Alto-Adige. Il protagonista è un uomo né giovane né vecchio – il duca, appunto; anche se in realtà si tratterebbe di un conte – che a poco a poco capisce di non potersi sottrarre a un confronto definitivo con se stesso, cioè con la propria storia e i propri luoghi, i quali deve decidere se accettare o rifiutare una volta per tutte.

Quest’uomo senza nome è l’ultimo discendente della quasi millenaria famiglia dei Cimamonte, signori feudali di Vallorgàna. Dopo una giovinezza trascorsa altrove, sempre nell’agio economico e dedicandosi a studi paleografici e filologici, il duca si trasferisce nella villa dei propri antenati: una scelta radicale, a cui però non fa seguito una vera integrazione nella comunità del paese. Il duca è solo, privo di grandi occupazioni, e quasi non fa altro che passeggiare per i boschi e chiacchierare con gli operai che lo aiutano ad amministrare i suoi possedimenti rurali.

Questo, almeno, finché non litiga con un allevatore – Mario Fastréda, ottant’anni passati – per una questione di confini di proprietà: il duca non vuole cedere quel che è suo, l’allevatore ha bisogno di tre ettari in più per ottenere delle sovvenzioni statali con cui costruire una strada per l’alpeggio delle vacche. A questo scontro di interessi in fondo meschini, da una parte e dall’altra si sovrappongono motivazioni più complesse, tali da delineare, pian piano, due figure diversissime, eppure accomunate da una certa tragicità: tanto il duca sviluppa un rapporto ambivalente con la storia dei propri antenati, tanto Fastréda si mostra geloso dell’ascendente che è riuscito a guadagnarsi sugli altri abitanti del paese.

Il Duca ha molti tratti del romanzo realistico tradizionale: narratore omodiegetico in prima persona, racconto retrospettivo, registro medio-alto, colpi di scena preparati dal sedimentarsi di motivi riconoscibili, nette opposizioni e sostanziale continuità di tempo, luogo e vicenda. Eppure io credo che si tratti di un romanzo innovativo.

Nel Duca, per cominciare, ha luogo uno scontro preciso e solo in apparenza anacronistico: quello tra borghesia e nobiltà, rappresentate rispettivamente da Fastréda e dal duca, il cui sapore arcaico è pienamente riscattato da una disposizione inconsueta delle forze in campo. Per quanto sia un privilegiato e agisca mosso da velleità piuttosto puerili, infatti, il duca è qui il personaggio positivo, quello che subisce un torto, quello con cui – anche senza poter aderire ai deliri che lo portano sull’orlo di teorie razziste e classiste – si è portati a identificarsi. Ne deriva, per il lettore, un costante senso di straniamento, e per l’autore la possibilità di inscrivere nell’intreccio stesso una critica sociopolitica rivolta alla tendenza a non riconoscere limiti di sorta all’agire umano. Nel nobile decaduto privo di preoccupazioni materiali, mi sembra che Melchiorre abbia trovato un punto di vista alternativo rispetto alla borghesia ma interno alla nostra società, dal quale – pur senza salire su un piedistallo – gli è stato possibile mettere in discussione l’ansia di guadagno, la virtù imprenditoriale, l’idea che il paesaggio sia una merce da comprare, valorizzare, ridisegnare, liquidare. Non è un caso, in questo senso, che il duca si trovi spesso a conversare col tagliaboschi sessantenne Nelso Tabióna, montanaro testardo e intransigente, il quale a propria volta appare del tutto organico alla società attuale, eppure – grazie alla sua lunga familiarità con campi di forze non del tutto governabili, quali in questo romanzo sono il bosco e la montagna – estraneo alle leggi monologiche del profitto, dell’interesse e dell’espansione commerciale. È proprio Nelso a mettere le cose in chiaro: «Fastréda e quelli come lui», il tagliaboschi dice al duca, «hanno vissuto gli anni in cui il mondo andava avanti. Ogni giorno una conquista, ogni giorno più su di uno scalino. Perciò, a Fastréda e a quelli come lui, anche adesso che il mondo va indietro, è rimasta nello stomaco quella fame lì: quella fame di conquistare» (p. 312).

Ora, per quanto l’attuale situazione climatica renda necessarie e urgenti critiche di questa famiglia, è ad oggi piuttosto difficile trovarne qualcuna che sia declinata con i mezzi adoperati da Melchiorre – cioè coi mezzi del romanzo tradizionale, scevro di sperimentalismi vistosi nella lingua o nelle invenzioni e anzi ben disposto, in favore della leggibilità, a maneggiare motivi e svolte di trama prossime al cliché. Nel Duca il motivo anti-antropocentrico e anticapitalistico risulta giocato più sulla contraddizione che sull’assertività, più sulla rappresentazione complessa di identità conflittuali che sulla più o meno eroica presa di posizione individuale: nessun personaggio ha ragione fino in fondo e il vero protagonista è la società coi suoi conflitti, le sue disuguaglianze, la crisi dei suoi strumenti interpretativi e il suo essere parte infinitesima di una realtà più grande e irriducibile all’umano; e questo lo rende a mio giudizio un romanzo innovativo, di cui fare tesoro e dal quale imparare.

Ma l’aspetto forse più notevole di questo romanzo è la rappresentazione delle forze naturali: quest’ultime, con una centralità piuttosto rara nel romanzo moderno, svolgono un ruolo compiutamente e propriamente drammatico, intervenendo nel momento di maggiore tensione e reindirizzando la trama verso direzioni inaspettate. Nel Duca accade né più né meno ciò che è accaduto nella realtà: arriva imprevista la tempesta Vaia (ottobre-novembre 2018), che sfigura il paesaggio e lascia spaesati gli esseri umani. E il narratore non può che registrare quel che succede:

Iniziò un finimondo. Il vento sfuriava come mai prima di allora l’avevo sentito sfuriare. Ululava. Muggiva. Trascinava con sé il latrato di mille latrati […]

Vidi che insieme al vento c’era l’acqua. E quest’acqua, nell’alone di luce del lampioncino della corte, non cadeva affatto dall’alto al basso ma correva a mezz’aria, quasi parallela al suolo, via dritta in quel vento. […]

Attendere con fiducia, mi dissi […] le buriane fanno così. Pochi minuti di frastuono e se ne vanno. […]

E il vento peggiorò ancora, ed era da non credere come potesse peggiorare dal peggio. Avevo caldo. Sudavo. […] Conobbi, quella sera, ciò che significhi l’impotenza. (pp. 367-370)

Qui uno schema interpretativo consueto («le buriane fanno così») non fa più presa e, dileguandosi, consegna all’osservatore una cognizione più esatta della propria impotenza. Due cose vanno sottolineate. La prima è che questo «finimondo» invade il romanzo come un corpo estraneo, o comunque del tutto inatteso: la sua descrizione e i suoi strascichi, i quali occupano in tutto una trentina di pagine, arrivano nel momento di maggiore tensione della vicenda, quando una rivelazione radicale sul rapporto che lega il duca a Fastréda è stata annunciata da un po’ e si appresta infine a essere condivisa. La vicenda umana viene dunque interrotta, rimandata a più tardi e con ciò stesso ridimensionata, senza per questo perdere ogni importanza, solo passando, se non in secondo piano, certamente da una condizione di urgenza assoluta a una di urgenza relativa.

Il secondo aspetto da sottolineare riguarda proprio il carattere eccezionale, eppure reale, empirico, della tempesta raccontata. Nella storia del romanzo non sono molti i testi che inglobano organicamente simili cataclismi, vuoi perché la crisi dell’antropocentrismo è un fatto relativamente recente, vuoi per il gusto per trame e personaggi ordinari che si è andato affermando tra XIX e XX secolo. Ma i tempi sono cambiati, gli eventi climatici eccezionali sono sempre più frequenti e da più parti, negli ultimi anni, è stata evidenziata la necessità di rivedere questi e altri paradigmi (vedi Carla Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi 2021, e Antonio Moresco, Il grido, Sem 2018). Lo spiega benissimo lo scrittore indiano Amitav Ghosh, il quale nella Grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile (Neri Pozza 2017) riferisce di non essere mai riuscito a raccontare in un suo romanzo di quando, nel 1978, si era trovato nell’occhio di un tornado apparso improvvisamente a Dheli nord, salvandosi per pura casualità e testimoniando il finimondo da molto vicino. Ghosh afferma che la difficoltà nel narrare questa vicenda proviene da un’incompatibilità di fondo tra la sua esperienza e l’arte del romanzo così come si è andata configurando nella modernità:

Nei miei libri ricorrono tempeste, inondazioni ed eventi climatici insoliti […] Perché dunque non riuscivo, a dispetto delle mie migliori intenzioni, a spedire un personaggio giù per una strada che sta per essere investita da un tornado?

Riflettendoci, mi trovo a domandarmi quale sarebbe la mia reazione di fronte a una simile scena se la trovassi nel romanzo scritto da un altro. Sospetto che sarebbe di incredulità, che sarei portato a considerarla una trovata di bassa lega. Penserei che solo uno scrittore di ormai scarse risorse immaginative ripiegherebbe su una situazione tanto improbabile.

Insomma, l’invenzione di una lingua e di dispositivi drammatici per raccontare simili eventi metereologici sembra essere una delle frontiere del romanzo attuale. Ed è per questo, soprattutto, che mi sembra che Melchiorre sia stato all’altezza di raccontare il nostro presente, pur muovendo da contesti geografici marginali (i paesi di montagna) e concentrandosi su personaggi tutt’altro che medi (il nobile appassionato di filologia). Anzi, forse proprio la scelta di un palcoscenico così piccolo e di protagonisti dai quali, sia pure indirettamente, dipende il destino di un minuscolo gruppo sociale, ha permesso all’autore di coniugare il racconto realistico tradizionale col racconto dell’impensabile. Non è che Melchiorre «torna astutamente al romance», come ha scritto Danilo Bonora su «L’indice dei libri del mese» (settembre 2022); è che il nostro tempo, in qualche modo, rende dirompente la condizione di un nobile decaduto e suscita romanzi con al centro, inaspettata, una tempesta mai vista prima.

Dopo aver letto Il Duca ho preso in prestito in biblioteca il primo libro di Melchiorre, Requiem per un albero. Resoconto dal Nord Est (Spartaco 2004), pubblicato quando l’autore aveva ventitré anni, ben prima di intraprendere la carriera di ricercatore universitario in storia medievale e moderna e di bibliotecario. È un libretto prezioso, cronachistico e digressivo, tutto incentrato su un gigantesco olmo che c’era fino a vent’anni fa a Tomo, frazione di Feltre, in provincia di Belluno. Veniva chiamato l’Alberón ed era un punto di riferimento geografico e sentimentale per gli abitanti del paese.

Anche quell’albero, ho scoperto con sorpresa, è stato sradicato dal vento.

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