Su “La verità e la biro” di Tiziano Scarpa

Nota di lettura a cura di Lavinia Ceci.

Autore prolifico e discusso, Tiziano Scarpa ha recentemente pubblicato per Einaudi il suo ultimo lavoro dal titolo La verità e la biro. Dico lavoro perché, a ben vedere, tale titolo difficilmente rientra nella tradizionale categoria di romanzo, quello fatto di trame e personaggi. Infatti, come l’autore stesso specifica con un’«Avvertenza» ad hoc in apertura, il racconto segue una sorta di collazione di «fatti accaduti anni fa e altri abbastanza recenti»; fatti, appunto, che precedono «quella diagnosi» su cui l’autore non si dilunga ma che lascia come «sottinteso di ogni parola», un sottofondo dagli «accesi toni azzurro cielo o rosso sangue». In sostanza, La verità e la biro appare alla penna dell’autore come un richiamo all’ordine, una ricognizione personale, un tentativo di intrecciare in nome del Vero i due grandi temi della sua poetica: il sacro della filosofia, dell’arte e del bello; il profano dell’indagine nei più materici aspetti dell’esistenza umana e nei rapporti che in essa si iscrivono. Eppure, sono gli occhi del lettore il vero target della riflessione: strumenti in grado di decifrare e progressivamente svelare le verità – tali o presunte – di cui l’autore dissemina il testo, quasi nel tentativo di prodursi in un’estrema confessione, quasi un denudarsi, che assume i drammatici connotati della summa filosofica.

Il testo ha un’impostazione diaristica, struttura che permette all’autore di muoversi liberamente all’interno delle questioni discusse, lavorando tanto per associazioni paratattiche di idee quanto in forme concentriche: spesso una riflessione tira l’altra, generando un sistema di parallelismi e variazioni che, pur nella loro incostanza, mostrano una logica di fondo che segue il fil rouge della verità e della sua confessione, intendendo «apertamente affrontare la questione della verità, [de]le cose che si possono dire e quelle che è meglio tenere segrete per non sgretolare la società». D’altro canto, l’impostazione diaristica ha una sua deontologia della verità, e l’autore la prende a monito e regola per costruire l’impalcatura del discorso. Discorso che procede entro la narrazione di un duplice viaggio: quello estivo in compagnia della consorte Lucia, in una Grecia spaccata tra il consumismo dei villaggi turistici e le reminiscenze filosofiche della Grecia Antica di pensatori e poeti; quello più intimo e personale di rilettura della propria esistenza, dall’infanzia all’età adulta, con annessa confessione di fatti ed eventi veritieri e particolarmente segnanti.

In tale articolata dinamica, che lavora in modo ondivago tra passato e presente, teorico e pratico, Scarpa dissemina i suoi strampalati spunti di riflessione, fornendo spesso quadretti bassi e triviali: il sesso orale praticato da una studentessa di filosofia, donna le cui parole avevano sempre un ché di vero, almeno a detta dello scrittore, «perché me le raccontava lei stessa, di persona»; la spiaggia nudista su cui approda con la moglie; il catechista pedofilo; il consumismo della Grecia turistica. La riflessione sulle figure femminili appare quella più insistita: le diverse ragazze menzionate nel romanzo, tutte senza nome, assumono agli occhi dell’autore oramai anziano il ruolo di mistiche portatrici di verità quotidiane, che vengono in un certo senso “consumate” al pari dell’atto sessuale. La studentessa di filosofia, quella di letteratura russa, la ragazza dagli occhi spiritati scatenano, nel distratto e quotidiano loro mettersi a nudo dinanzi a un uomo, riflessioni profonde che dialogano col presente dell’autore in un progressivo disvelamento di verità taciute o nascoste. Ovviamente, si tratta di un meccanismo tutto interno alla mente dell’autore, rispetto al quale il contatto con queste figure è puramente funzionale: le donne non vengono assunte a divulgatrici di queste piccole verità, ma sono semplici evocatrici, le cui azioni o parole inducono realizzazioni intime e veridiche nel profondo dell’autore; rivelazioni che rimangono ancora nella memoria fortemente agganciate all’eccentricità sessuale di queste donne, la cui sola esistenza si fa ispirazione.

L’aggancio alla dimensione filosofica si verifica proprio nel momento di massima assolutizzazione di questi quadretti, in cui Scarpa adulto si ritrova a riflettere; e riflette sui significati profondi di certi comportamenti o frasi casuali delle sue compagne o delle persone che ha incontrato; o più semplicemente lo fa quando si sente particolarmente ispirato perché in contatto con le anime di autori e pensatori classici. In tale intreccio, l’aspetto forse più interessante riguarda il rapporto col lettore. L’acquisizione di queste verità illuminate, infatti, verrebbe presentata da Scarpa all’interno di una forma narrativa che vede la riflessione inserita all’interno di una vera e propria sovrariflessione, vera struttura del romanzo. Le verità giovanili, estrapolate dalle discussioni postcoitali con donne senza nome, acquisite a seguito di ripensamenti e nuove interpretazioni di fatti ed eventi passati, diventano la base per la costruzione di un romanzo che è di per sé una continua ricerca di verità, che si palesa agli occhi dell’autore e del lettore quasi nello stesso momento. Verità, vera o presunta, perché di un romanzo si tratta e giustamente Scarpa ne rispetta i canoni: «poter essere libero di scrivere la verità che comprende anche le mie fantasie, le storie inventate che ho pubblicato».

Io abbreviazione di Dio. Una lettura de “Le schegge” di Bret Easton Ellis

Nota di lettura a cura di Simone Salomoni.

Su Le schegge, ultimo romanzo di Bret Easton Ellis, è già stato scritto molto e il contrario di molto: il capolavoro dello scrittore californiano, l’ennesima riscrittura del solo romanzo che lo scrittore californiano ha scritto nella sua carriera, Ellis al massimo del suo splendore, Ellis al massimo della sua sciatteria stilistica.

Quello che mi interessa fare qui (per altro non so dire se Le schegge sia un capolavoro, se sia il capolavoro di Bret Easton Ellis, mentre sono anche io convinto che Ellis abbia scritto un solo romanzo – come quasi tutti gli scrittori: la differenza è che Ellis lo fa in maniera più spudorata e quindi onesta – e cercato a ogni riscrittura la forma finale di sé: ho l’impressione che ora sia riuscito a raggiungerla e gli auguro di potere spurgare il suo male), non so se è stato fatto altrove, non mi pare, è riflettere su come Bret Easton Ellis si ponga, si muova – come scrittore ma anche come vivente: per BEE le due cose sono più che per altri inscindibili – si mimetizzi e si esponga all’interno di un romanzo come Le schegge, romanzo che potremmo con una certa sicurezza inserire nel novero delle cosiddette autofinzioni.

Partiamo da un fatto evidente: Ellis ci ricorda costantemente di essere uno scrittore, lo fa ogni dieci pagine per oltre settecento pagine e in maniera neanche troppo velata, lo fa a partire dallo splendido, davvero splendido, incipit e pertanto, se questa è la sua autobiografia di uno scrittore dobbiamo allora leggerla ricordandoci che per lo scrittore, come scriveva Rimbaud, io è – SEMPRE – un altro.

Chi è allora io per Bret Easton Ellis ne Le schegge? Io, innanzitutto, è abbreviazione di Dio, e Ellis gioca e quasi porta all’estremo l’idea facendosi Dio e demiurgo del proprio mondo narrativo, e mi pare lo faccia servendosi principalmente di tre personaggi, tre protagonisti, se vogliamo: il suo doppio narrativo, Bret, autore e narratore e protagonista de Le schegge, Robert Mallory, lo studente nuovo arrivato affetto da problemi mentali, nemesi dello stesso Bret, e The Trawler, tradotto da Giuseppe Culicchia con Il pescatore a strascico, sadico e misterioso serial killer che impera su Los Angeles.

Bret, Mallory e The Trawler sembrano a un primo sguardo, e senza possibilità di smentita, tre personaggi diversi, separati, monadi indipendenti l’una dall’altra che si muovono all’interno dello stesso spazio narrativo. Fin dalle prime pagine, però, Ellis insinua il dubbio che Mallory possa essere The Trawler o quantomeno che la sua apparizione a Los Angeles sia collegata all’apparizione e agli omicidi del Pescatore a strascico: “E poi naturalmente, si presentò il Pescatore a Strascico. Per circa un anno c’erano state diverse effrazioni e aggressioni, e sparizioni, e poi nel 1981 venne rinvenuto il secondo cadavere di un’adolescente scomparsa – il primo era stato scoperto nel 1980 – e infine fu collegato alle effrazioni nelle case. Tutto questo avrebbe potuto verificarsi senza la presenza di Robert Mallory, ma il fatto che il suo arrivo fosse coinciso con lo strano offuscamento che aveva iniziato a insinuarsi nelle nostre vite fu una cosa che non mi fu possibile ignorare, sebbene gli altri lo facessero, a loro rischio e pericolo” (pag. 19).

Ellis insinua e quando l’autore insinua il lettore, o quantomeno il lettore che sono io, si sente autorizzato a insinuarsi a sua volta, a insinuarsi e insinuare propositi e desideri autoriali più o meno manifesti, nascosti non come fatti ma come fantasmi nelle pieghe della narrazione e così il lettore che sono io si è trovato a chiedersi: ma non è che come BEE (il narratore) insinua una correlazione se non una sovrapposizione fra Robert Mallory e The Trawler, BEE (l’autore) voglia insinuare anche una correlazione se non una sovrapposizione fra BEE (il personaggio) e Robert Mallory?

ATTENZIONE: NON PROSEGUIRE LA LETTURA SE SI TEMONO SPOILER.

Questa ipotesi diventa qualcosa in più di un’ipotesi mano a mano che si avvicina la fine del romanzo – Bret e Mallory hanno un confronto, un tentativo di chiarimento delle incomprensioni avute “Non sapevo più che cosa dire, perché non c’era nient’altro da dire – niente faceva presa su di lui, era come parlare a uno specchio” (pag. 682) nel quale Mallory finge di sedurre Bret salvo poi umiliarlo “Lo guardai in faccia e il sorriso sexy era sparito, e lui si tirò via e sedette sul bordo del letto e poi mi guardò dall’alto in basso e con una lieve traccia di disgusto si ripulì la bocca col dorso della mano e mormorò: – Frocio del cazzo –. E poi: Lo sapevo” (pag. 684) – e prende maggiore forza durante la notte in cui prima Thom e Susan (il migliore amico di Bret e la sua fidanzata) vengono aggrediti con la ferocia che caratterizza The Trawler e dopo avviene la colluttazione fra Bret e Robert Mallory – “Abbassai lo sguardo e vidi che stringeva in pugno un coltello da macellaio. E poi lui vide il coltello che impugnavo io” (pag. 694) “Incespicai alla cieca in avanti alzando il coltello, ma Robert era corso fuori dalla stanza e io collassai contro il lavabo del bagno ma non riuscivo a vedermi nello specchio perché c’era troppo vapore” (pag. 697) – colluttazione nella quale è Mallory a soccombere.

Anche se le indagini ufficiali dicono il contrario, Bret insiste sulla possibilità che Mallory – prima di aggredirlo – abbia aggredito i suoi amici con inumana ferocia (a Susan è stato amputato un seno, mutilazione che caratterizza The Trawler, come vedremo), salvo poi aprire al lettore (o almeno: al lettore che sono io) un diverso e inquietante scenario – “Io indossavo una camicia Polo azzurra, con le maniche lunghe, abbottonata fino al collo, ma una delle maniche era ricaduta indietro quando avevo alzato un braccio per premerle un dito sulle labbra, e mi resi conto che era lì che stava guardando. Il sorriso da sballata era sparito e i suoi occhi incrociarono i miei e poi tornarono sul mio braccio. L’atmosfera ovattata, spossata, della stanza cambiò, e si attivò qualcosa – tutto stava ronzando. Susan prese a tremare intanto che tornava a guardarmi. Prima che potessi fermarla lei si sporse e tirò più su la manica. Dapprima non disse niente, ma mi resi conto che stava guardando una profonda ferita sull’avambraccio circondata da un livido viola e giallo.
Le sembrava di aver visto il segno di un morso. Lo disse alzando la voce.
Le sembrava che quel segno di un morso fosse esattamente dove aveva morso l’intruso sabato sera” (pag. 716) – lo scenario nel quale The Trawler possa in realtà essere lo stesso Bret.

La casa abbandonata su Benedict Canyon – casa appartenente alla famiglia di Mallory nella quale Bret entra abusivamente in cerca di un collegamento fra Robert Mallory e The Trawler – a me sembra funzionare come un corpo, il corpo che contiene la psiche di Ellis: il proprietario è Mallory, al suo interno vediamo muoversi esclusivamente Bret, ma sul finale si scopre che è il luogo nel quale, in effetti, è stata rinvenuta la quarta vittima di The Trawler: “Il suo corpo era stato «decorato»: la bocca riempita di pesci, la testa e il collo di un gatto cuciti sulla fronte, il resto del corpo dell’animale che fuoriusciva dalla vagina, mentre le gambe erano state ripiegate e divaricate come se Audrey stesse partorendo. La testa era adorna di corpi così che una sorta di parrucca le coprisse il cranio. I seni mancavano – erano stati rimossi, e nelle cavità erano state posizionate le teste di due gatti. L’ano era stato forzato col muso di un cane decapitato a cui era stato cucito il collo strappato a un altro cane. Come ho detto, solo mesi dopo venimmo a conoscenza di tali dettagli, e solo di alcuni: ci volle un anno perché l’orrore di ciò che il Pescatore aveva «realizzato» venisse reso noto nella sua interezza. Anche se il corpo della quarta vittima del Pescatore era stato ritrovato nella casa sulla Benedict Canyon, Robert Mallory non era mai apparso come il sospettato numero uno nei giorni successivi – appresi in seguito che si trattava di una teoria «allettante» ma che certi dati semplicemente non combaciavano.” (pag. 709-710). Una lunga sequenza per stomaci forti, la descrizione di un corpo smembrato che sembra quasi essere la sublimazione orrorifica del lavoro di selezione, correzione e montaggio di uno scrittore.

So che non è per forza così, mi rendo conto che attraverso gli strumenti della critica ufficiale l’analisi potrebbe dare risultati diversi, però io non sono un critico, e questa idea casa-corpo rafforza in me l’ipotesi che mi ha suggestionato, che mi ha portato a pensare: ma è possibile che per Bret Easton Ellis Bret, Mallory e The Trawler siano in effetti saldati, indissolubili, inscindibili? A me pare di sì. Mi pare che essi possano essere interpretati come la rappresentazione freudiana della psiche umana di Ellis nella quale Bret ha la funzione di IO (il giovane ragazzo ricco consapevole della propria omosessualità, pronto a sperimentarla ma non ancora ad accettarla), Robert Mallory quella di SUPER IO (Mallory è reduce da un ricovero psichiatrico, d’accordo, rappresenta comunque tutto ciò che Bret non è ma forse vorrebbe essere: bello e eterosessuale al punto da riuscire a sedurre Susan, la ragazza che Bret avrebbe voluto per sé, fosse stato eterosessuale) e The Trawler quella di ES (ciò che Bret sarebbe potuto diventare se avesse dato diverso sfogo assoluto alla sua parte oscura, se non fosse arrivata la scrittura a sublimare gli istinti più indicibili e violenti).

Se poi volessi andare oltre o di lato, e mi prendessi la libertà di immaginare un BEE ebbro di Cristianesimo, di immaginare un autore più europeo e meno americano, cosa che assolutamente Ellis non è – o almeno non mi pare proprio che sia – potrei arrivare ad affermare che Le Schegge potrebbe essere un tentativo di messa in scena di Dio più che di Io, la messa in scena di uno scrittore, demiurgo e trino, nella quale Bret è Padre, Mallory è figlio e The Trawler è Spirito Santo. Le Schegge è un romanzo che si presta a molte letture e molti lettori. Può essere letto come un thriller, la tensione è altissima e non cala mai; ci si può fermare a un secondo livello di lettura e leggervi la storia che segna la fine traumatica di una giovinezza e la nascita di uno scrittore; ci si può trovare molto altro: quello che ci ho trovato io – senza alcuna pretesa di univocità – è la sofferta ricomposizione di una trinità umana disgregata e sottomessa al trionfo dell’ego autoriale.

Nel finimondo. Su “Il duca” di Matteo Melchiorre

Nota di lettura a cura di Antonio Galetta.

Il Duca di Matteo Melchiorre (Einaudi 2022, 464 pp., 21 €) è ambientato perlopiù nel 2018 in un piccolissimo e fittizio paese di montagna, Vallorgàna, probabilmente tra Veneto e Trentino Alto-Adige. Il protagonista è un uomo né giovane né vecchio – il duca, appunto; anche se in realtà si tratterebbe di un conte – che a poco a poco capisce di non potersi sottrarre a un confronto definitivo con se stesso, cioè con la propria storia e i propri luoghi, i quali deve decidere se accettare o rifiutare una volta per tutte.

Quest’uomo senza nome è l’ultimo discendente della quasi millenaria famiglia dei Cimamonte, signori feudali di Vallorgàna. Dopo una giovinezza trascorsa altrove, sempre nell’agio economico e dedicandosi a studi paleografici e filologici, il duca si trasferisce nella villa dei propri antenati: una scelta radicale, a cui però non fa seguito una vera integrazione nella comunità del paese. Il duca è solo, privo di grandi occupazioni, e quasi non fa altro che passeggiare per i boschi e chiacchierare con gli operai che lo aiutano ad amministrare i suoi possedimenti rurali.

Questo, almeno, finché non litiga con un allevatore – Mario Fastréda, ottant’anni passati – per una questione di confini di proprietà: il duca non vuole cedere quel che è suo, l’allevatore ha bisogno di tre ettari in più per ottenere delle sovvenzioni statali con cui costruire una strada per l’alpeggio delle vacche. A questo scontro di interessi in fondo meschini, da una parte e dall’altra si sovrappongono motivazioni più complesse, tali da delineare, pian piano, due figure diversissime, eppure accomunate da una certa tragicità: tanto il duca sviluppa un rapporto ambivalente con la storia dei propri antenati, tanto Fastréda si mostra geloso dell’ascendente che è riuscito a guadagnarsi sugli altri abitanti del paese.

Il Duca ha molti tratti del romanzo realistico tradizionale: narratore omodiegetico in prima persona, racconto retrospettivo, registro medio-alto, colpi di scena preparati dal sedimentarsi di motivi riconoscibili, nette opposizioni e sostanziale continuità di tempo, luogo e vicenda. Eppure io credo che si tratti di un romanzo innovativo.

Nel Duca, per cominciare, ha luogo uno scontro preciso e solo in apparenza anacronistico: quello tra borghesia e nobiltà, rappresentate rispettivamente da Fastréda e dal duca, il cui sapore arcaico è pienamente riscattato da una disposizione inconsueta delle forze in campo. Per quanto sia un privilegiato e agisca mosso da velleità piuttosto puerili, infatti, il duca è qui il personaggio positivo, quello che subisce un torto, quello con cui – anche senza poter aderire ai deliri che lo portano sull’orlo di teorie razziste e classiste – si è portati a identificarsi. Ne deriva, per il lettore, un costante senso di straniamento, e per l’autore la possibilità di inscrivere nell’intreccio stesso una critica sociopolitica rivolta alla tendenza a non riconoscere limiti di sorta all’agire umano. Nel nobile decaduto privo di preoccupazioni materiali, mi sembra che Melchiorre abbia trovato un punto di vista alternativo rispetto alla borghesia ma interno alla nostra società, dal quale – pur senza salire su un piedistallo – gli è stato possibile mettere in discussione l’ansia di guadagno, la virtù imprenditoriale, l’idea che il paesaggio sia una merce da comprare, valorizzare, ridisegnare, liquidare. Non è un caso, in questo senso, che il duca si trovi spesso a conversare col tagliaboschi sessantenne Nelso Tabióna, montanaro testardo e intransigente, il quale a propria volta appare del tutto organico alla società attuale, eppure – grazie alla sua lunga familiarità con campi di forze non del tutto governabili, quali in questo romanzo sono il bosco e la montagna – estraneo alle leggi monologiche del profitto, dell’interesse e dell’espansione commerciale. È proprio Nelso a mettere le cose in chiaro: «Fastréda e quelli come lui», il tagliaboschi dice al duca, «hanno vissuto gli anni in cui il mondo andava avanti. Ogni giorno una conquista, ogni giorno più su di uno scalino. Perciò, a Fastréda e a quelli come lui, anche adesso che il mondo va indietro, è rimasta nello stomaco quella fame lì: quella fame di conquistare» (p. 312).

Ora, per quanto l’attuale situazione climatica renda necessarie e urgenti critiche di questa famiglia, è ad oggi piuttosto difficile trovarne qualcuna che sia declinata con i mezzi adoperati da Melchiorre – cioè coi mezzi del romanzo tradizionale, scevro di sperimentalismi vistosi nella lingua o nelle invenzioni e anzi ben disposto, in favore della leggibilità, a maneggiare motivi e svolte di trama prossime al cliché. Nel Duca il motivo anti-antropocentrico e anticapitalistico risulta giocato più sulla contraddizione che sull’assertività, più sulla rappresentazione complessa di identità conflittuali che sulla più o meno eroica presa di posizione individuale: nessun personaggio ha ragione fino in fondo e il vero protagonista è la società coi suoi conflitti, le sue disuguaglianze, la crisi dei suoi strumenti interpretativi e il suo essere parte infinitesima di una realtà più grande e irriducibile all’umano; e questo lo rende a mio giudizio un romanzo innovativo, di cui fare tesoro e dal quale imparare.

Ma l’aspetto forse più notevole di questo romanzo è la rappresentazione delle forze naturali: quest’ultime, con una centralità piuttosto rara nel romanzo moderno, svolgono un ruolo compiutamente e propriamente drammatico, intervenendo nel momento di maggiore tensione e reindirizzando la trama verso direzioni inaspettate. Nel Duca accade né più né meno ciò che è accaduto nella realtà: arriva imprevista la tempesta Vaia (ottobre-novembre 2018), che sfigura il paesaggio e lascia spaesati gli esseri umani. E il narratore non può che registrare quel che succede:

Iniziò un finimondo. Il vento sfuriava come mai prima di allora l’avevo sentito sfuriare. Ululava. Muggiva. Trascinava con sé il latrato di mille latrati […]

Vidi che insieme al vento c’era l’acqua. E quest’acqua, nell’alone di luce del lampioncino della corte, non cadeva affatto dall’alto al basso ma correva a mezz’aria, quasi parallela al suolo, via dritta in quel vento. […]

Attendere con fiducia, mi dissi […] le buriane fanno così. Pochi minuti di frastuono e se ne vanno. […]

E il vento peggiorò ancora, ed era da non credere come potesse peggiorare dal peggio. Avevo caldo. Sudavo. […] Conobbi, quella sera, ciò che significhi l’impotenza. (pp. 367-370)

Qui uno schema interpretativo consueto («le buriane fanno così») non fa più presa e, dileguandosi, consegna all’osservatore una cognizione più esatta della propria impotenza. Due cose vanno sottolineate. La prima è che questo «finimondo» invade il romanzo come un corpo estraneo, o comunque del tutto inatteso: la sua descrizione e i suoi strascichi, i quali occupano in tutto una trentina di pagine, arrivano nel momento di maggiore tensione della vicenda, quando una rivelazione radicale sul rapporto che lega il duca a Fastréda è stata annunciata da un po’ e si appresta infine a essere condivisa. La vicenda umana viene dunque interrotta, rimandata a più tardi e con ciò stesso ridimensionata, senza per questo perdere ogni importanza, solo passando, se non in secondo piano, certamente da una condizione di urgenza assoluta a una di urgenza relativa.

Il secondo aspetto da sottolineare riguarda proprio il carattere eccezionale, eppure reale, empirico, della tempesta raccontata. Nella storia del romanzo non sono molti i testi che inglobano organicamente simili cataclismi, vuoi perché la crisi dell’antropocentrismo è un fatto relativamente recente, vuoi per il gusto per trame e personaggi ordinari che si è andato affermando tra XIX e XX secolo. Ma i tempi sono cambiati, gli eventi climatici eccezionali sono sempre più frequenti e da più parti, negli ultimi anni, è stata evidenziata la necessità di rivedere questi e altri paradigmi (vedi Carla Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi 2021, e Antonio Moresco, Il grido, Sem 2018). Lo spiega benissimo lo scrittore indiano Amitav Ghosh, il quale nella Grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile (Neri Pozza 2017) riferisce di non essere mai riuscito a raccontare in un suo romanzo di quando, nel 1978, si era trovato nell’occhio di un tornado apparso improvvisamente a Dheli nord, salvandosi per pura casualità e testimoniando il finimondo da molto vicino. Ghosh afferma che la difficoltà nel narrare questa vicenda proviene da un’incompatibilità di fondo tra la sua esperienza e l’arte del romanzo così come si è andata configurando nella modernità:

Nei miei libri ricorrono tempeste, inondazioni ed eventi climatici insoliti […] Perché dunque non riuscivo, a dispetto delle mie migliori intenzioni, a spedire un personaggio giù per una strada che sta per essere investita da un tornado?

Riflettendoci, mi trovo a domandarmi quale sarebbe la mia reazione di fronte a una simile scena se la trovassi nel romanzo scritto da un altro. Sospetto che sarebbe di incredulità, che sarei portato a considerarla una trovata di bassa lega. Penserei che solo uno scrittore di ormai scarse risorse immaginative ripiegherebbe su una situazione tanto improbabile.

Insomma, l’invenzione di una lingua e di dispositivi drammatici per raccontare simili eventi metereologici sembra essere una delle frontiere del romanzo attuale. Ed è per questo, soprattutto, che mi sembra che Melchiorre sia stato all’altezza di raccontare il nostro presente, pur muovendo da contesti geografici marginali (i paesi di montagna) e concentrandosi su personaggi tutt’altro che medi (il nobile appassionato di filologia). Anzi, forse proprio la scelta di un palcoscenico così piccolo e di protagonisti dai quali, sia pure indirettamente, dipende il destino di un minuscolo gruppo sociale, ha permesso all’autore di coniugare il racconto realistico tradizionale col racconto dell’impensabile. Non è che Melchiorre «torna astutamente al romance», come ha scritto Danilo Bonora su «L’indice dei libri del mese» (settembre 2022); è che il nostro tempo, in qualche modo, rende dirompente la condizione di un nobile decaduto e suscita romanzi con al centro, inaspettata, una tempesta mai vista prima.

Dopo aver letto Il Duca ho preso in prestito in biblioteca il primo libro di Melchiorre, Requiem per un albero. Resoconto dal Nord Est (Spartaco 2004), pubblicato quando l’autore aveva ventitré anni, ben prima di intraprendere la carriera di ricercatore universitario in storia medievale e moderna e di bibliotecario. È un libretto prezioso, cronachistico e digressivo, tutto incentrato su un gigantesco olmo che c’era fino a vent’anni fa a Tomo, frazione di Feltre, in provincia di Belluno. Veniva chiamato l’Alberón ed era un punto di riferimento geografico e sentimentale per gli abitanti del paese.

Anche quell’albero, ho scoperto con sorpresa, è stato sradicato dal vento.

Su “Sonetti del giorno di quarzo” di Aldo Nove

Nota di lettura a cura di Gaetano De Virgilio.

Poeta e ancor prima scrittore, Aldo Nove pubblica il suo ultimo libro, Sonetti del giorno di quarzo (2022), nella collana Collezione di poesia di Einaudi.

Un canzoniere il suo, scanzonato e canzonatorio, che si rivela un «florilegio di miserie» in 350 sonetti, scritti dal 4 dicembre 2020 al 15 gennaio 2022 (con la piacevole incursione, ogni tanto, di sonetti più datati). In questi ultimi mesi sono stati pubblicati molti diari di narratori ed è sempre interessante vedere il pensiero della creazione al di qua della stesura, l’impalcatura dei libri che amiamo prima che vengano scritti.

Nove scrive di aver «traslocato in questi versi i giorni/ passati e gli improbabili futuri» ed è davanti agli occhi di tutti questo io che oscilla tra le acque di una tv continuamente accesa. Attraverso una metrica precisa e matematica Nove consegna al lettore «una forma d’addio/ a tutto quanto d’abitudinario». Un addio espresso in registri linguistici continuamente incrociati: l’alto, il basso, il di fianco e il di lato.

Non si fa segreto della passione smodata per «Avanti un altro!», «lui soltanto/ televisivo residuale incanto/ dalla mancanza di un qualche argomento/ che non sia questo tormento del vero/ che tale si dichiara e non lo è» (p. 205) e che guarda mentre mangia «la zuppa con i ceci/ scaldata al forno», a cui sono dedicate di volta in volta diverse poesie dai titoli sequenziali: «Bonolis I», «Bonolis II», «Bonolis III». Inconsueto poi che si scenda lungo il crinale di questa mascherata leggerezza per poi trovarsi davanti a poesie che per titolo hanno: «Suicidarsi».

Quando a 25 anni pubblicai
Woobinda e altre storie senza lieto
fine da Castelvecchi diventai
un classico. Ora sono un obsoleto
cinquantatreenne senza più lavoro,
senza casa, ammalato ed ancorato
a questo ottuso ultimo decoro
che non credo mi verrà pubblicato
se non post-mortem (p. 106).

I sonetti sono tutti perlopiù composti dai soliti quattordici versi endecasillabi sviluppati in due quartine a rima alternata e in due terzine a rima varia. Solo in pochi casi Nove aggiunge in chiusura un’altra terzina che segue le regole della precedente. È un testo di grande acume, solido, costruito con cura. È una continua dichiarazione di poetica, sia nella forma che nei contenuti:

Sono le tre di notte. «Sono», prima
persona singolare. E tra un istante
sarò le cinque e mezza e farò rima
col ticchettio dell’albeggio scostante
di ciò che fui tra un anno. […]
Forse, mentre nevicando
genererò miriadi di gemelli
di me che sono mari di cristalli,
frattali di un’infinità d’appelli
a cui risponderò che sono valli
e fiumi, e sono questo, e sono quello (p. 44).

Il testo di Nove, assieme a quello di Emilio Isgrò – Sì alla notte (Guanda, 2022) – è un volume che, in un tempo solo, segue il solco della tradizione per aprirsi alla novità. Sono infatti tanti i padri e le madri ideali del poeta, tanti i pilastri del Novecento verso cui mostra estrema gratitudine: Eugenio Montale, Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti, Franco Loi, Franco Battiato, Amelia Rosselli, Gianni Rodari, solo per citarne alcuni. E da loro fa in modo di apprendere questo uso spesso ludico della poesia, questi versi nei quali si chiede l’assurdo in cambio di un briciolo di verosimiglianza:

Mi sono comperato un universo
a 39 euro. Lo proietto
sulla parete quando vado a letto
con il telecomando, e poi converso
con lui del perché sono e cosa devo
fare domani o quale senso ha avuto
quest’e quest’altro e lui rimane muto
similarmente a Dio, come sapevo (p. 221).

Due voci a confronto. Su “Exfanzia” di Valerio Magrelli

Note di lettura a cura di Clara Tumminelli e Patrizio Andrisano.

Introduzione

Questo articolo riunisce due contributi sul nuovo libro di Valerio Magrelli Exfanzia (2022), degli studiosi Patrizio Andrisano e Clara Tumminelli. I due autori si inseriscono nel dibattito sorto nelle ultime settimane a proposito del valore letterario del libro, analizzandolo da prospettive diverse. Clara si sofferma maggiormente sull’aspetto pop della raccolta, rilevandone i punti critici nel confronto con la produzione precedente di Magrelli; Patrizio invece mette in luce le sottili linee di significato che attraversano il testo, cercandone l’unico punto di fuga rappresentato dal tema del riconoscimento.


Exfanzia, il fiammifero e lo stoppino

di Clara Tumminelli

Ēx: preposizione, parte del discorso non declinabile: “da, fuori di”.

A distanza di otto anni dall’ultima pubblicazione di poesie, Valerio Magrelli (nato a Roma, classe ‘57) si ripropone nel panorama poetico con la raccolta Exfanzia, uscita il 15 febbraio 2022 per la collana Einaudi. Nel ‘77 un giovanissimo Magrelli appare con i suoi primi esperimenti nella rivista «Periodo ipotetico», diretto da Elio Pagliarani. Esordisce nel 1980 con Ora serrata retinae, a cui seguono Nature e venature (1987), Esercizi di tiptologia (1992), Didascalia per la lettura di un giornale (1999), Disturbi del sistema binario (2006) e Il sangue amaro (2014) che saranno poi raccolti in Le cavie: poesie 1980-2018 (Einaudi, 2018). Traduttore e critico letterario, Valerio Magrelli insegna Letteratura francese presso l’Università di Pisa e di Cassino.

Il ribaltamento esercitato da Ēx- apre subito il tema della raccolta e richiede al lettore una torsione, uno sforzo di espansione che segue il movimento messo in moto da questo rimaneggiamento. Exfanzia, dunque, come moto da luogo, come trazione («la vecchiaia è: diventare liquido»). È la senilità come condizione esistenziale, uscita dal sé, sguardo sul mondo e sull’infanzia («d’essere, io stesso, pantano!»). L’immagine dello sguardo «non allegro, ma assorto» del bambino che palleggia «solo col suo pallone e le sue leggi» – in apertura della sezione «Sotto la protezione di Pollicino» – viene riprodotta incessantemente lungo tutta la raccolta, è una sottrazione, e si fa retrospettiva, strozzata: parla di malattia e di morte («Se lui è malato, io cosa sono?»; «Sto qui nel letto. Febbre.») con uno scarto forte rispetto alle precedenti raccolte che affrontano il tema come chiave escatologica del rapporto corpo-cavia-mondo («il vivo veniva legato a un cadavere», in Noterelle archeologiche); si abbandona nella nenia di una filastrocca, mediante l’utilizzo provocatorio di rime inclusive («versi/avversi»; «logopedista/dista»), volutamente sciatte, dando vita a «un kit di rime da assemblare». Lo stile, dunque, è dimesso, semplice, e sembra farsi forza in un’estetica bruttura che naviga la superficie delle parole perché «Poesia viene da pus», mentre il lessico si apre sempre di più a tecnicismi collaterali e prestiti di lusso («check-in»; «stretching»; «shopping»; «password», «phon»).

La protezione di Pollicino è il disegno programmatico della raccolta, il vademecum di questa a-poetica («perdo gli oggetti, a uno a uno»). Ne scaturisce un rapporto guastato con il mondo contemporaneo, e la poesia mima il reale attraverso la metafora dell’elettrodomestico, «il frigorifero», che qui diventa un correlativo oggettivo privato della sua carica, diverso dal «termosifone» in Viaggio d’inverno. Entrano nei testi squallide immagini («in certi gabinetti / con la cellula elettrica»); disincanto e cinismo ingialliscono la raccolta («maschere»; «Ponte dei Suicidi»); «Ottuso, meccanico, ripetitivo» con «quel suo borbottare da idiota» è il tono dell’io, che si inceppa all’interno di un asfittico punto d’osservazione («è raro che la poesia possa riaprirsi»), sottolineato da ripetizioni ossessive, masticate («a quale dio mi lega?», «prego un dio», «un dio farmacologico», «un dio su misura»). Tramite il meccanismo di spostamento messo in moto dall’Ex-, la a-poesia si incarna in una accondiscendente amarezza che stona di fronte alla riproposizione di un’infanzia ingenua e non problematizzata («Vi amo come figli / e vi vorrei salvare / da questa orrenda età che vi tortura»), in una torsione deformante che ri-elabora impietosamente il passato attualizzandolo nel presente («Tra mezz’ora, cadendo, / mi romperò una spalla / e poi sarò operato due volte»). Costellata da correlativi oggettivi – feticci – che non si illuminano, la raccolta assume le fattezze di un diario che altera la nostalgia in una sempre più compiacente poesia pop («Non resta che ballare, / perché ballare è la cosa più bella che esista»), e un lessico così radicalmente domato rischia di esaurire il proprio potenziale in un ammuffimento di significati («Ma le rughe raccontano i sorrisi»), nei parallelismi retorici, sentimentali («anche abitando tanto vicini, / come potremmo stare più lontani?»), nell’autoreferenzialità intrisa di “contemporaneismo” – carattere distintivo del poemetto Guardando le serie tv, in coda alla raccolta nella sezione «Quattro poemetti» – di cui l’io non riesce a fare a meno («Tra la mia sofferenza e il mio amore, / io scelgo Super Mario Nintendo»).

Nonostante la puntuale organicità che corre lungo la raccolta, fedele al punto nevralgico dell’ex-fanzia, si ha il sentore di una poesia addomesticata, addestrata e con il fiato corto, lontana dallo «stormire neurologico di fronde» della vecchiaia, presente in Timore e tremore. È quindi una poesia che si apre al contemporaneo ma che rimane inerte; si rifiuta, ora, di fungere da scandaglio del reale e sembra ripudiare l’«alfabeto dei padri» di Paesaggi laziali; che lascia depotenziati della loro forza espressioni come l’esangue «QR code del tuo viso»; «il flash del riconoscimento» non apre la poesia a ulteriori significati celati nel correlativo oggettivo; il «lettore ottico» è uno spiraglio che propone una visione depressa del mondo; «identità», «storia», «vita» restano parole abuliche nella chiusa di una poesia che non ha voce, che non inveisce «sotto una tomba etrusca». Non «come fa lo stoppino / da uno stoppino che gli passa il fuoco» in Viaggio d’inverno, ma come un fiammifero: si accende e subito si consuma.

Nel segno di Pollicino

di Patrizio Andrisano

La nuova raccolta poetica di Magrelli non costituisce un punto di rottura coi lavori precedenti, e laddove si volesse collocare questo testo in continuità con Il sangue amaro (2014), allora urgerebbe ammettere che piuttosto ne rappresenta l’explicit, ossia la prima parola di un verso di fine: Exfanzia (2022). E proprio attorno a questa parola-titolo così impegnativa sorgono le prime difficoltà interpretative, che, a fidarsi dell’autore, si risolverebbero nell’ammettere un “ex” che comunque implichi “in”, a definire dunque, come spazio poetico, l’inconsueta plaga del contatto fra infanzia e vecchiaia; quantomeno, un piano di sineciosi non vincolante e di trapasso fra due mondi lontanissimi. La verità è più complessa. La scena è tutta presa da un tentativo di mediazione che segue la prassi della confidenza autobiografica e sferra un duro colpo a ogni scapicollata forma di neospontanesimo. La costruzione meticolosa del verso, la scelta di incipit chiari ed estremamente esplicativi in molti componimenti – «Ogni tanto mi telefona il mio amico malato», «E ricomincia la solita tortura», «Sto qui nel letto. Febbre. Ma sto bene», «La vecchiaia è questione di idraulica» – e l’emergere di un caldo impeto esclamativo a volte dal tono paterno ed esortativo – «resurrexit!» – altre più fanciullesco – «allora non ve ne siete ancora andati!» – definiscono l’ubi consistam di un dramma esistenziale che investe il lettore attento ai temi della maturità. Scontato credere che le vecchie generazioni non comprendano il nostro modo di sentire, meno ovvio è il contrario: siamo capaci di comprendere, noi, il dramma dell’anziano? La risposta è no, almeno non come, teoricamente, sarebbe in grado di fare un bambino che esprime sempre, seppure da prospettiva diversa, le medesime necessità del vecchio; una su tutte, quella del riconoscimento. Ma andiamo con ordine.

Due enormi dilemmi fanno da impalcatura alle trame del libro: cosa resta oggi di ieri? E ancora: cosa resterà? Domande che spingono il poeta alla solitudine e all’isolamento. Anche qui Magrelli si comporta da scienziato, prova a rispondere impugnando alternativamente alla lima il bisturi – «L’importante per un chirurgo, / diceva il poeta, / è stare sempre dalla parte del manico» – e attraverso un’alleanza fra corpo mortale e corpo poetico, una sutura questa, che seleziona in maniera puntuale e raffinata i lemmi di riferimento: «tessuto psichico, corteccia cerebrale, valvola mitralica, cartilagine, sangue, unghie…». Così, Exfanzia prende molto dal lessico scientifico e mette in risalto l’inevitabile disfacimento del corpo – «Qui come premi un po’, sgorgano liquidi, /e la vecchiaia è: diventare liquido» –, risponde alle due domande cardine rivelando allora, con grande umiltà, quella tensione verso l’inorganico – invero, una pulsione di ritorno all’inorganico – che attraversa tutta l’opera di Valerio Magrelli e trova qui, forse, la sua massima finalizzazione. Di noi resteranno solo alcuni scarti, delle «scorie», un «pantano», al limite delle fotografie – «poi sbuca fuori una foto», «la foto di mia figlia piccola» – e alcuni scampoli di memoria – «io, disperato, invece, adesso abbraccio / quell’immagine» –; ma questo è solo il punto di partenza.

Dopo circa sessanta pagine, Magrelli propone una soluzione; inserisce un testo chiaramente programmatico col quale esprime il bisogno di riaffermare l’ovvio: l’antidoto al disfacimento è la poesia. Poesia come riciclo: «immenso lavoro di trasformazione delle scorie», dalla deformazione all’ordine matematico, prosodico, metrico perché «l’accento è tutto», al ribaltamento del caos nel calcolo preciso borrominiano perché «qui, “ma” vuol dire tutto», e ancora, l’atto di «fare maglioni col dolore», di «trasformare l’angoscia in tappetini da bagno» per realizzare «la metamorfosi del male»; niente meno che «una vecchia idea» di Magrelli, di Poesia come «terapia, arredamento, traduzione». Ma quanto affermato sul piano della coscienza altrove viene negato, e dunque conservato, fra le lastre di una poesia marmorea, non elaborato ma rimosso; per usare un’immagine dello stesso Magrelli, tutto è seppellito in una bara zincata o plastificato nella materia poetica. Così le scorie (ciò che resta), quelle umane, ma anche quelle di un pensiero dominante che non può essere invalidato, non ritornano a nuova vita – «mi sento riformato dalla vita» –, mai smaltite, forse stoccate, certo rinchiuse dove non possono nuocere, di qua della poesia che, ad un tempo, è scudo e oggetto ultore: armato contro «l’infinita crudeltà della vita».

Dice una cosa, poi la smentisce nei fatti; Magrelli vuole dirci che la poesia è una freccia spuntata all’età di sessantacinque anni, un rifugio per uomini già morti che anticipa un eterno riposo: «Cesare che si copre / la testa col mantello / vedendo Bruto tra i suoi assalitori. // Alberto fa lo stesso / con le coperte, a letto, / quando si vede vinto dalla malinconia», dove la poesia è il letto, una coperta simulacro di madre, che riduce la distanza da quel ritorno all’inorganico di cui s’è detto, mai soluzione. E tante sono le immagini di castrazione del mezzo poetico, una su tutte quella di Sunt lacrimae rerum: le lacrime non spengono il fuoco del dolore, ma cauterizzano l’acqua che tracima – «[…] il pianto è questo: / marca, marchio rovente» – bloccando la liquefazione, ma – si domanda Magrelli – «(per quanto?)». A questa piccola parentetica il compito di smantellare sul piano testuale la menzogna della poesia come riciclo che, chiaramente, non potrebbe realizzarsi se non in maniera perentoria. I motivi del dolore sono ora quelli della vecchiaia, e non è sufficiente il conforto offerto dalla certezza della forma ad arginare il senso di smarrimento che assottiglia l’uomo (ancora vivo) a cui venga negata la gioia del riconoscimento. Il “diritto di perdersi” a cui accenna il poeta in Mi perdo, mi perdo, mi perdo, nasconde dubbi e inquietudini; un certo grado di ambiguità serpeggia poi nel verso che chiude con tono perplesso la prima stanza: «perché recalcitro? Perché voglio smarrirmi?». Ma tra queste righe risiede il centro di irradiazione dell’intera raccolta, il motivo per cui “ex” e “in” possono convivere, il significato del titolo della prima sezione: «Sotto la protezione di Pollicino». Sì, perché dietro questo diritto a perdersi si annida il bisogno di essere ritrovati da qualcuno. È il motivo del nascondino questo, e di una dialettica del perdersi che unisce il bambino con l’anziano; ché entrambi hanno bisogno di sentirsi desiderati, entrambi desiderano continuare a scavare nell’Altro il vuoto della propria assenza. Allora, il Pollicino di Valerio Magrelli dissemina briciole sul proprio cammino non per ritrovare la strada, ma per lasciare una traccia del proprio passaggio, sempre nella speranza del ricongiungimento con l’Altro. I punti di emergenza di senso sono molteplici e il desiderio del poeta tracima presto nel rimpianto: i vagoni dei rapporti umani sfrecciano l’uno accanto all’altro nell’indifferenza – «Ci incontreremo in treno, / a metà strada, / tu verso Sud e io al Nord […] Sarà un momento, / i due vagoni passeranno vicini, / senza neanche accorgersene» –, gli amici sono ormai «perfetti estranei», il volto del poeta è lo spazio su cui «papà e mamma […] fanno capolino […] giocando fra le linee del viso. A nascondino». Insomma, il poeta è il teatro immobile del corteggiamento fra i genitori, e vorrebbe interferire (come farebbe un bambino) ma non può: «si divertono cercandosi tra loro, / io sono, escluso, a fare da teatro».

Come anticipato, Exfanzia non è un libro di rottura, e, a ben vedere, i temi di fondo sono i medesimi di altre raccolte, con momenti che richiamano Ora serrata retinae (1980) e Il sangue amaro (2014), espliciti richiami a Geologia di un padre (2013) e Addio al calcio (2010); tuttavia, il rimaneggiamento è importante e tocca l’estremo del rimotivare pienamente una parola antica attraverso l’esperienza nuova; perciò il libro riesce e segna il suo passaggio diritto sul piano dell’imposizione di un dilemma lontanissimo, mette il lettore nel corpo di chi non dovrebbe morire prima del tempo perché esprime ancora i medesimi bisogni del bambino a cui, diversamente, la gratificazione non verrà mai negata. Ora, credo di non poter tacere sulle ultime venti pagine della raccolta, a cui il poeta riconosce dignità di fare sezione a sé, dal titolo Quattro poemetti, perché sento il bisogno di rivolgere la parola direttamente a Magrelli per dire:

“Valerio,

mi sono messo nei tuoi panni, ho letto questo libro e qualcosa avrò pur detto di vicino all’esatto; non sarà forse il caso che tu faccia altrettanto con noi più o meno giovani? Capiresti che la parola “pandemia”, per noi, è troppo grande, capirai anche che questa critica non è rivolta soltanto a te, ma anche a noi”.