Su “La verità e la biro” di Tiziano Scarpa

Nota di lettura a cura di Lavinia Ceci.

Autore prolifico e discusso, Tiziano Scarpa ha recentemente pubblicato per Einaudi il suo ultimo lavoro dal titolo La verità e la biro. Dico lavoro perché, a ben vedere, tale titolo difficilmente rientra nella tradizionale categoria di romanzo, quello fatto di trame e personaggi. Infatti, come l’autore stesso specifica con un’«Avvertenza» ad hoc in apertura, il racconto segue una sorta di collazione di «fatti accaduti anni fa e altri abbastanza recenti»; fatti, appunto, che precedono «quella diagnosi» su cui l’autore non si dilunga ma che lascia come «sottinteso di ogni parola», un sottofondo dagli «accesi toni azzurro cielo o rosso sangue». In sostanza, La verità e la biro appare alla penna dell’autore come un richiamo all’ordine, una ricognizione personale, un tentativo di intrecciare in nome del Vero i due grandi temi della sua poetica: il sacro della filosofia, dell’arte e del bello; il profano dell’indagine nei più materici aspetti dell’esistenza umana e nei rapporti che in essa si iscrivono. Eppure, sono gli occhi del lettore il vero target della riflessione: strumenti in grado di decifrare e progressivamente svelare le verità – tali o presunte – di cui l’autore dissemina il testo, quasi nel tentativo di prodursi in un’estrema confessione, quasi un denudarsi, che assume i drammatici connotati della summa filosofica.

Il testo ha un’impostazione diaristica, struttura che permette all’autore di muoversi liberamente all’interno delle questioni discusse, lavorando tanto per associazioni paratattiche di idee quanto in forme concentriche: spesso una riflessione tira l’altra, generando un sistema di parallelismi e variazioni che, pur nella loro incostanza, mostrano una logica di fondo che segue il fil rouge della verità e della sua confessione, intendendo «apertamente affrontare la questione della verità, [de]le cose che si possono dire e quelle che è meglio tenere segrete per non sgretolare la società». D’altro canto, l’impostazione diaristica ha una sua deontologia della verità, e l’autore la prende a monito e regola per costruire l’impalcatura del discorso. Discorso che procede entro la narrazione di un duplice viaggio: quello estivo in compagnia della consorte Lucia, in una Grecia spaccata tra il consumismo dei villaggi turistici e le reminiscenze filosofiche della Grecia Antica di pensatori e poeti; quello più intimo e personale di rilettura della propria esistenza, dall’infanzia all’età adulta, con annessa confessione di fatti ed eventi veritieri e particolarmente segnanti.

In tale articolata dinamica, che lavora in modo ondivago tra passato e presente, teorico e pratico, Scarpa dissemina i suoi strampalati spunti di riflessione, fornendo spesso quadretti bassi e triviali: il sesso orale praticato da una studentessa di filosofia, donna le cui parole avevano sempre un ché di vero, almeno a detta dello scrittore, «perché me le raccontava lei stessa, di persona»; la spiaggia nudista su cui approda con la moglie; il catechista pedofilo; il consumismo della Grecia turistica. La riflessione sulle figure femminili appare quella più insistita: le diverse ragazze menzionate nel romanzo, tutte senza nome, assumono agli occhi dell’autore oramai anziano il ruolo di mistiche portatrici di verità quotidiane, che vengono in un certo senso “consumate” al pari dell’atto sessuale. La studentessa di filosofia, quella di letteratura russa, la ragazza dagli occhi spiritati scatenano, nel distratto e quotidiano loro mettersi a nudo dinanzi a un uomo, riflessioni profonde che dialogano col presente dell’autore in un progressivo disvelamento di verità taciute o nascoste. Ovviamente, si tratta di un meccanismo tutto interno alla mente dell’autore, rispetto al quale il contatto con queste figure è puramente funzionale: le donne non vengono assunte a divulgatrici di queste piccole verità, ma sono semplici evocatrici, le cui azioni o parole inducono realizzazioni intime e veridiche nel profondo dell’autore; rivelazioni che rimangono ancora nella memoria fortemente agganciate all’eccentricità sessuale di queste donne, la cui sola esistenza si fa ispirazione.

L’aggancio alla dimensione filosofica si verifica proprio nel momento di massima assolutizzazione di questi quadretti, in cui Scarpa adulto si ritrova a riflettere; e riflette sui significati profondi di certi comportamenti o frasi casuali delle sue compagne o delle persone che ha incontrato; o più semplicemente lo fa quando si sente particolarmente ispirato perché in contatto con le anime di autori e pensatori classici. In tale intreccio, l’aspetto forse più interessante riguarda il rapporto col lettore. L’acquisizione di queste verità illuminate, infatti, verrebbe presentata da Scarpa all’interno di una forma narrativa che vede la riflessione inserita all’interno di una vera e propria sovrariflessione, vera struttura del romanzo. Le verità giovanili, estrapolate dalle discussioni postcoitali con donne senza nome, acquisite a seguito di ripensamenti e nuove interpretazioni di fatti ed eventi passati, diventano la base per la costruzione di un romanzo che è di per sé una continua ricerca di verità, che si palesa agli occhi dell’autore e del lettore quasi nello stesso momento. Verità, vera o presunta, perché di un romanzo si tratta e giustamente Scarpa ne rispetta i canoni: «poter essere libero di scrivere la verità che comprende anche le mie fantasie, le storie inventate che ho pubblicato».