Due voci a confronto. Su “Exfanzia” di Valerio Magrelli

Note di lettura a cura di Clara Tumminelli e Patrizio Andrisano.

Introduzione

Questo articolo riunisce due contributi sul nuovo libro di Valerio Magrelli Exfanzia (2022), degli studiosi Patrizio Andrisano e Clara Tumminelli. I due autori si inseriscono nel dibattito sorto nelle ultime settimane a proposito del valore letterario del libro, analizzandolo da prospettive diverse. Clara si sofferma maggiormente sull’aspetto pop della raccolta, rilevandone i punti critici nel confronto con la produzione precedente di Magrelli; Patrizio invece mette in luce le sottili linee di significato che attraversano il testo, cercandone l’unico punto di fuga rappresentato dal tema del riconoscimento.


Exfanzia, il fiammifero e lo stoppino

di Clara Tumminelli

Ēx: preposizione, parte del discorso non declinabile: “da, fuori di”.

A distanza di otto anni dall’ultima pubblicazione di poesie, Valerio Magrelli (nato a Roma, classe ‘57) si ripropone nel panorama poetico con la raccolta Exfanzia, uscita il 15 febbraio 2022 per la collana Einaudi. Nel ‘77 un giovanissimo Magrelli appare con i suoi primi esperimenti nella rivista «Periodo ipotetico», diretto da Elio Pagliarani. Esordisce nel 1980 con Ora serrata retinae, a cui seguono Nature e venature (1987), Esercizi di tiptologia (1992), Didascalia per la lettura di un giornale (1999), Disturbi del sistema binario (2006) e Il sangue amaro (2014) che saranno poi raccolti in Le cavie: poesie 1980-2018 (Einaudi, 2018). Traduttore e critico letterario, Valerio Magrelli insegna Letteratura francese presso l’Università di Pisa e di Cassino.

Il ribaltamento esercitato da Ēx- apre subito il tema della raccolta e richiede al lettore una torsione, uno sforzo di espansione che segue il movimento messo in moto da questo rimaneggiamento. Exfanzia, dunque, come moto da luogo, come trazione («la vecchiaia è: diventare liquido»). È la senilità come condizione esistenziale, uscita dal sé, sguardo sul mondo e sull’infanzia («d’essere, io stesso, pantano!»). L’immagine dello sguardo «non allegro, ma assorto» del bambino che palleggia «solo col suo pallone e le sue leggi» – in apertura della sezione «Sotto la protezione di Pollicino» – viene riprodotta incessantemente lungo tutta la raccolta, è una sottrazione, e si fa retrospettiva, strozzata: parla di malattia e di morte («Se lui è malato, io cosa sono?»; «Sto qui nel letto. Febbre.») con uno scarto forte rispetto alle precedenti raccolte che affrontano il tema come chiave escatologica del rapporto corpo-cavia-mondo («il vivo veniva legato a un cadavere», in Noterelle archeologiche); si abbandona nella nenia di una filastrocca, mediante l’utilizzo provocatorio di rime inclusive («versi/avversi»; «logopedista/dista»), volutamente sciatte, dando vita a «un kit di rime da assemblare». Lo stile, dunque, è dimesso, semplice, e sembra farsi forza in un’estetica bruttura che naviga la superficie delle parole perché «Poesia viene da pus», mentre il lessico si apre sempre di più a tecnicismi collaterali e prestiti di lusso («check-in»; «stretching»; «shopping»; «password», «phon»).

La protezione di Pollicino è il disegno programmatico della raccolta, il vademecum di questa a-poetica («perdo gli oggetti, a uno a uno»). Ne scaturisce un rapporto guastato con il mondo contemporaneo, e la poesia mima il reale attraverso la metafora dell’elettrodomestico, «il frigorifero», che qui diventa un correlativo oggettivo privato della sua carica, diverso dal «termosifone» in Viaggio d’inverno. Entrano nei testi squallide immagini («in certi gabinetti / con la cellula elettrica»); disincanto e cinismo ingialliscono la raccolta («maschere»; «Ponte dei Suicidi»); «Ottuso, meccanico, ripetitivo» con «quel suo borbottare da idiota» è il tono dell’io, che si inceppa all’interno di un asfittico punto d’osservazione («è raro che la poesia possa riaprirsi»), sottolineato da ripetizioni ossessive, masticate («a quale dio mi lega?», «prego un dio», «un dio farmacologico», «un dio su misura»). Tramite il meccanismo di spostamento messo in moto dall’Ex-, la a-poesia si incarna in una accondiscendente amarezza che stona di fronte alla riproposizione di un’infanzia ingenua e non problematizzata («Vi amo come figli / e vi vorrei salvare / da questa orrenda età che vi tortura»), in una torsione deformante che ri-elabora impietosamente il passato attualizzandolo nel presente («Tra mezz’ora, cadendo, / mi romperò una spalla / e poi sarò operato due volte»). Costellata da correlativi oggettivi – feticci – che non si illuminano, la raccolta assume le fattezze di un diario che altera la nostalgia in una sempre più compiacente poesia pop («Non resta che ballare, / perché ballare è la cosa più bella che esista»), e un lessico così radicalmente domato rischia di esaurire il proprio potenziale in un ammuffimento di significati («Ma le rughe raccontano i sorrisi»), nei parallelismi retorici, sentimentali («anche abitando tanto vicini, / come potremmo stare più lontani?»), nell’autoreferenzialità intrisa di “contemporaneismo” – carattere distintivo del poemetto Guardando le serie tv, in coda alla raccolta nella sezione «Quattro poemetti» – di cui l’io non riesce a fare a meno («Tra la mia sofferenza e il mio amore, / io scelgo Super Mario Nintendo»).

Nonostante la puntuale organicità che corre lungo la raccolta, fedele al punto nevralgico dell’ex-fanzia, si ha il sentore di una poesia addomesticata, addestrata e con il fiato corto, lontana dallo «stormire neurologico di fronde» della vecchiaia, presente in Timore e tremore. È quindi una poesia che si apre al contemporaneo ma che rimane inerte; si rifiuta, ora, di fungere da scandaglio del reale e sembra ripudiare l’«alfabeto dei padri» di Paesaggi laziali; che lascia depotenziati della loro forza espressioni come l’esangue «QR code del tuo viso»; «il flash del riconoscimento» non apre la poesia a ulteriori significati celati nel correlativo oggettivo; il «lettore ottico» è uno spiraglio che propone una visione depressa del mondo; «identità», «storia», «vita» restano parole abuliche nella chiusa di una poesia che non ha voce, che non inveisce «sotto una tomba etrusca». Non «come fa lo stoppino / da uno stoppino che gli passa il fuoco» in Viaggio d’inverno, ma come un fiammifero: si accende e subito si consuma.

Nel segno di Pollicino

di Patrizio Andrisano

La nuova raccolta poetica di Magrelli non costituisce un punto di rottura coi lavori precedenti, e laddove si volesse collocare questo testo in continuità con Il sangue amaro (2014), allora urgerebbe ammettere che piuttosto ne rappresenta l’explicit, ossia la prima parola di un verso di fine: Exfanzia (2022). E proprio attorno a questa parola-titolo così impegnativa sorgono le prime difficoltà interpretative, che, a fidarsi dell’autore, si risolverebbero nell’ammettere un “ex” che comunque implichi “in”, a definire dunque, come spazio poetico, l’inconsueta plaga del contatto fra infanzia e vecchiaia; quantomeno, un piano di sineciosi non vincolante e di trapasso fra due mondi lontanissimi. La verità è più complessa. La scena è tutta presa da un tentativo di mediazione che segue la prassi della confidenza autobiografica e sferra un duro colpo a ogni scapicollata forma di neospontanesimo. La costruzione meticolosa del verso, la scelta di incipit chiari ed estremamente esplicativi in molti componimenti – «Ogni tanto mi telefona il mio amico malato», «E ricomincia la solita tortura», «Sto qui nel letto. Febbre. Ma sto bene», «La vecchiaia è questione di idraulica» – e l’emergere di un caldo impeto esclamativo a volte dal tono paterno ed esortativo – «resurrexit!» – altre più fanciullesco – «allora non ve ne siete ancora andati!» – definiscono l’ubi consistam di un dramma esistenziale che investe il lettore attento ai temi della maturità. Scontato credere che le vecchie generazioni non comprendano il nostro modo di sentire, meno ovvio è il contrario: siamo capaci di comprendere, noi, il dramma dell’anziano? La risposta è no, almeno non come, teoricamente, sarebbe in grado di fare un bambino che esprime sempre, seppure da prospettiva diversa, le medesime necessità del vecchio; una su tutte, quella del riconoscimento. Ma andiamo con ordine.

Due enormi dilemmi fanno da impalcatura alle trame del libro: cosa resta oggi di ieri? E ancora: cosa resterà? Domande che spingono il poeta alla solitudine e all’isolamento. Anche qui Magrelli si comporta da scienziato, prova a rispondere impugnando alternativamente alla lima il bisturi – «L’importante per un chirurgo, / diceva il poeta, / è stare sempre dalla parte del manico» – e attraverso un’alleanza fra corpo mortale e corpo poetico, una sutura questa, che seleziona in maniera puntuale e raffinata i lemmi di riferimento: «tessuto psichico, corteccia cerebrale, valvola mitralica, cartilagine, sangue, unghie…». Così, Exfanzia prende molto dal lessico scientifico e mette in risalto l’inevitabile disfacimento del corpo – «Qui come premi un po’, sgorgano liquidi, /e la vecchiaia è: diventare liquido» –, risponde alle due domande cardine rivelando allora, con grande umiltà, quella tensione verso l’inorganico – invero, una pulsione di ritorno all’inorganico – che attraversa tutta l’opera di Valerio Magrelli e trova qui, forse, la sua massima finalizzazione. Di noi resteranno solo alcuni scarti, delle «scorie», un «pantano», al limite delle fotografie – «poi sbuca fuori una foto», «la foto di mia figlia piccola» – e alcuni scampoli di memoria – «io, disperato, invece, adesso abbraccio / quell’immagine» –; ma questo è solo il punto di partenza.

Dopo circa sessanta pagine, Magrelli propone una soluzione; inserisce un testo chiaramente programmatico col quale esprime il bisogno di riaffermare l’ovvio: l’antidoto al disfacimento è la poesia. Poesia come riciclo: «immenso lavoro di trasformazione delle scorie», dalla deformazione all’ordine matematico, prosodico, metrico perché «l’accento è tutto», al ribaltamento del caos nel calcolo preciso borrominiano perché «qui, “ma” vuol dire tutto», e ancora, l’atto di «fare maglioni col dolore», di «trasformare l’angoscia in tappetini da bagno» per realizzare «la metamorfosi del male»; niente meno che «una vecchia idea» di Magrelli, di Poesia come «terapia, arredamento, traduzione». Ma quanto affermato sul piano della coscienza altrove viene negato, e dunque conservato, fra le lastre di una poesia marmorea, non elaborato ma rimosso; per usare un’immagine dello stesso Magrelli, tutto è seppellito in una bara zincata o plastificato nella materia poetica. Così le scorie (ciò che resta), quelle umane, ma anche quelle di un pensiero dominante che non può essere invalidato, non ritornano a nuova vita – «mi sento riformato dalla vita» –, mai smaltite, forse stoccate, certo rinchiuse dove non possono nuocere, di qua della poesia che, ad un tempo, è scudo e oggetto ultore: armato contro «l’infinita crudeltà della vita».

Dice una cosa, poi la smentisce nei fatti; Magrelli vuole dirci che la poesia è una freccia spuntata all’età di sessantacinque anni, un rifugio per uomini già morti che anticipa un eterno riposo: «Cesare che si copre / la testa col mantello / vedendo Bruto tra i suoi assalitori. // Alberto fa lo stesso / con le coperte, a letto, / quando si vede vinto dalla malinconia», dove la poesia è il letto, una coperta simulacro di madre, che riduce la distanza da quel ritorno all’inorganico di cui s’è detto, mai soluzione. E tante sono le immagini di castrazione del mezzo poetico, una su tutte quella di Sunt lacrimae rerum: le lacrime non spengono il fuoco del dolore, ma cauterizzano l’acqua che tracima – «[…] il pianto è questo: / marca, marchio rovente» – bloccando la liquefazione, ma – si domanda Magrelli – «(per quanto?)». A questa piccola parentetica il compito di smantellare sul piano testuale la menzogna della poesia come riciclo che, chiaramente, non potrebbe realizzarsi se non in maniera perentoria. I motivi del dolore sono ora quelli della vecchiaia, e non è sufficiente il conforto offerto dalla certezza della forma ad arginare il senso di smarrimento che assottiglia l’uomo (ancora vivo) a cui venga negata la gioia del riconoscimento. Il “diritto di perdersi” a cui accenna il poeta in Mi perdo, mi perdo, mi perdo, nasconde dubbi e inquietudini; un certo grado di ambiguità serpeggia poi nel verso che chiude con tono perplesso la prima stanza: «perché recalcitro? Perché voglio smarrirmi?». Ma tra queste righe risiede il centro di irradiazione dell’intera raccolta, il motivo per cui “ex” e “in” possono convivere, il significato del titolo della prima sezione: «Sotto la protezione di Pollicino». Sì, perché dietro questo diritto a perdersi si annida il bisogno di essere ritrovati da qualcuno. È il motivo del nascondino questo, e di una dialettica del perdersi che unisce il bambino con l’anziano; ché entrambi hanno bisogno di sentirsi desiderati, entrambi desiderano continuare a scavare nell’Altro il vuoto della propria assenza. Allora, il Pollicino di Valerio Magrelli dissemina briciole sul proprio cammino non per ritrovare la strada, ma per lasciare una traccia del proprio passaggio, sempre nella speranza del ricongiungimento con l’Altro. I punti di emergenza di senso sono molteplici e il desiderio del poeta tracima presto nel rimpianto: i vagoni dei rapporti umani sfrecciano l’uno accanto all’altro nell’indifferenza – «Ci incontreremo in treno, / a metà strada, / tu verso Sud e io al Nord […] Sarà un momento, / i due vagoni passeranno vicini, / senza neanche accorgersene» –, gli amici sono ormai «perfetti estranei», il volto del poeta è lo spazio su cui «papà e mamma […] fanno capolino […] giocando fra le linee del viso. A nascondino». Insomma, il poeta è il teatro immobile del corteggiamento fra i genitori, e vorrebbe interferire (come farebbe un bambino) ma non può: «si divertono cercandosi tra loro, / io sono, escluso, a fare da teatro».

Come anticipato, Exfanzia non è un libro di rottura, e, a ben vedere, i temi di fondo sono i medesimi di altre raccolte, con momenti che richiamano Ora serrata retinae (1980) e Il sangue amaro (2014), espliciti richiami a Geologia di un padre (2013) e Addio al calcio (2010); tuttavia, il rimaneggiamento è importante e tocca l’estremo del rimotivare pienamente una parola antica attraverso l’esperienza nuova; perciò il libro riesce e segna il suo passaggio diritto sul piano dell’imposizione di un dilemma lontanissimo, mette il lettore nel corpo di chi non dovrebbe morire prima del tempo perché esprime ancora i medesimi bisogni del bambino a cui, diversamente, la gratificazione non verrà mai negata. Ora, credo di non poter tacere sulle ultime venti pagine della raccolta, a cui il poeta riconosce dignità di fare sezione a sé, dal titolo Quattro poemetti, perché sento il bisogno di rivolgere la parola direttamente a Magrelli per dire:

“Valerio,

mi sono messo nei tuoi panni, ho letto questo libro e qualcosa avrò pur detto di vicino all’esatto; non sarà forse il caso che tu faccia altrettanto con noi più o meno giovani? Capiresti che la parola “pandemia”, per noi, è troppo grande, capirai anche che questa critica non è rivolta soltanto a te, ma anche a noi”.