Informe, senza nome, con tutti i nomi.
«Agid Böhm, Germania. Luogo di nascita: Magdeburgo. Quindici anni di servizio. Dipartimento: astrofisica teorica. Famiglia: assente. Sei stato scelto per il quindicesimo lancio. Congratulazioni». Lo sguardo del rettore gli fa capire quanto sia importante per lui quest’ultima nomina.
L’anno è irrilevante, ma non lontano. L’umanità, sopravvissuta a ogni suo tentativo di uccidersi da sola, vede per la prima volta dall’Osservatorio di Greenwich qualcosa di ben strano: sette punti nel cielo, quasi contemporaneamente, brillano intensamente di una luce azzurrina, per poi dileguarsi nel firmamento. La squadra di astronomi che assiste all’evento la chiama convergenza, la definisce come una coincidenza, tra le infinite casualità dello spazio infinito.
Ma il giorno dopo, altre ventiquattro stelle scompaiono.
«Heat death», e mentre lo dice non gli sembra che esca alcun suono dalla bocca. Immagina invece di aver creato una bolla, ripiena di parole e significati: in tedesco quel termine ne ha così tanti…
«Ma che bel bambino, come si chiama?»
«Agid. Agid, dài, di’ ciao alla signora».
Suo padre lo spinge in avanti dolcemente, gli strofina la nuca per rassicurarlo, ma Agid si mette le mani davanti alla bocca e corre a nascondersi dietro le sue gambe imponenti, grandi come la più grande quercia del mondo. Anni dopo, al liceo studia di Yggdrasil, l’albero mitico che tiene il mondo intero, e pensa alle gambe del padre, impiantate salde per terra.
Kauer Böhm è sdraiato su un letto di ospedale. Non vede più – dice la dottoressa –, il tumore gli ha preso gli occhi. Papà sta morendo fra mura ingiallite. Papà che quando aveva avuto la varicella gli aveva regalato una piccola mappa del sistema solare ed era stato con lui tutto il tempo a raccontargli dei curiosi altri nuovi mondi che aspettavano dall’altra parte di esser scoperti. Papà che aveva sorriso sentendogli dire per la prima volta che voleva studiare le stelle, papà.
Agid pensa a Yggdrasil e alle sue gambe che non riesce più a vedere, fra le coperte pesanti, mentre gli carezza la barba incolta. Nella sua mente, là sotto le radici corrono a impiantarsi nelle fondamenta dell’ospedale e più in fondo ancora, fino ad arrivare al nocciolo della terra.
Nocciolo. Nüss. Hasselnüss. Nocciola. Ed eccola davanti ai suoi occhi in mezzo alle figure informi, dove tutto cambia, il guscio scuro e lucido che riflette la luce (che luce? Da dove arriva questa luce?) E sembra, no, è la stessa che aveva gettato nel fiume con lei la notte che era partita.
Il tonfo quando cade in acqua sembra coprire tutti gli altri rumori del bosco. Anche lei lo avverte, si guardano e senza capire perché ridono.
Ha le labbra strette e le iridi verdi costellate di satelliti castani, che si illuminano di luce propria mentre gli parla di microbi e tardigradi e ambergris. Lui la guarda come se fosse un miracolo. Per un attimo non gli interessa nulla dello spazio, delle stringhe, delle stelle di neutrini, rivede l’enormità del tutto nella sua pelle liscia e scura e preferisce gettarsi in lei che in una navicella verso il vuoto, che in quel momento gli appare freddo, freddissimo.
Quando si rivestono le chiede se è sicura di partire, spera non confessandolo in un suo ripensamento, ma lei risponde che è deciso, che ha già comprato il biglietto e che la sua vita la attende là, lontano, che oltreoceano ci sono cure sperimentali nuove, e che anche non fosse, ci sono tante piccole bellezze che deve ancora scoprire. Che vuole ancora scoprire.
Rialzandosi, ansima, ma non smette per un attimo di fissare Agid, come se stesse forzando il suo cervello a fotografare le sue borse sotto gli occhi, i lineamenti scavati e le cicatrici dell’acne, tutti i dettagli che lo rendono una persona, e non un’idea. Gli dice che è meglio così per entrambi, che se restasse lui non si dedicherebbe al suo obiettivo, toccare le stelle con mano. Racconta una storia che suona falsa ad entrambi, su come sia meglio andarsene quando c’è ancora amore. Gli carezza la guancia, gli lancia un’ultima occhiata, coi suoi occhi profondi e vasti, lo spazio fra due corpi celesti, lo stesso che lui sente sta per crearsi fra loro due .
«Promettimi di dirmi cosa c’è al centro di tutto quando ci sarai arrivato».
Heat Death.
E la nocciola si apre e al suo centro danza una fiamma ardente, ma più Agid la fissa, più tremola incerta.
È su tutti gli schermi, su tutti i giornali. Heat death, la fine del ciclo del nostro universo, una serie di reazioni a catena che partono dalle sue estremità per arrivare al suo centro, nell’occhio. Ogni sole innesca una supernova, ingloba i pianeti circostanti per poi scomparire dalla mappa. In meno di venti giorni, quattrocentoventi sistemi solari vengono osservati estinguersi.
Ma si calcolava che mancassero milioni di anni.
I calcoli erano sbagliati.
Tempo stimato perché succeda al sistema Helios: meno di due anni.
Possibilità di impedirlo:
Nessuna.
La fiammella muore. Intorno tutto si fa buio, ma Agid lo sente muoversi ancora. Come scosse telluriche, sente che non ha ancora finito di vivere. Scalcia, ma manca poco, manca poco.
Qualche ricco e potente crea delle capsule fatte per resistere al vuoto siderale, iper-reattive e dotate di ogni comfort. Dittatori, CEO e presidenti vengono avvistati catapultarsi oltre l’atmosfera senza alcun preavviso, puntini che veloci scompaiono e tornano al niente.
Ma il mondo non cade in preda al caos. Nelle città e nei paesi la gente si riunisce. Canta, gioca, ride, fa l’amore, si abbraccia. Questa volta tutti sanno che non c’è fuga, che il più forte farà la stessa fine del più debole, e si ama di più.
Accademie, istituzioni, governi si stringono in un ultimo interrogativo: le più grandi menti del pianeta si trovano per la prima volta nella storia a concordare sul fatto che prima della fine è necessario sapere cosa ci sia nell’Occhio dell’Universo, nel suo centro rovente. Lo chiamano Dio, il Tutto, il Nucleo Quantico delle possibilità, l’Uovo, ma il nome non importa più. I lavori per creare i veicoli da scagliare nel vuoto procedono veloci, velocissimi, perché chi lavora vuole aiutare a trovare l’ultima risposta e sacrifica tutto con mani sporche e felici.
Agid è fra i primi a iscriversi al programma, supera tutti gli esami con il massimo dei voti, pensando a suo padre e a lei, pensando che deve a loro ogni cosa, e non si risparmia.
«Agid Böhm, Germania. Luogo di nascita: Magdeburgo. Quindici anni di servizio. Dipartimento: astrofisica teorica. Famiglia: assente.
«Sei stato scelto per il quindicesimo lancio».
Agid sta cadendo ma non esiste un terreno su cui atterrare. Sente il clamore dei balli sulla Terra e l’utero di sua madre morta durante il parto. Agid cade e continua a cadere, senza appigli.
Salendo sulla rampa di lancio, vede Mark correre verso di lui. Incurante delle norme di sicurezza, strattona le guardie e il pubblico per avvicinarsi.
«È morta, Agid. Erano anni che il cuore giocava a dadi con lei. Mi ha chiesto di ricordarti della promessa». E il cuore di Agid ora gioca a dadi con lui, si inabissa, ma non cambia rotta. I passi dentro la scatola in titanio e speranza non sono meno decisi.
Quando si stacca da terra, la navicella è un pennello leggero, e traccia fra le nuvole i suoi occhi.
I piedi di Agid, astrofisico e astronauta, non toccano terra, ma non sente più di stare precipitando. Le contrazioni intorno a lui si sono fatte più lente. Attorno, sagome aliene si mischiano a immagini familiari. Un letto di ospedale, una nocciola, un libro di mitologia nordica.
È a metà strada, a migliaia di anni luce da casa, che una voce elettronica lo avverte:
«Attenzione. La massa di Helios ha superato il limite critico di stabilità. Collasso imminente».
Non la vede, Agid, la fine di tutto quel che ha conosciuto. Non riesce nemmeno a immaginare il sole, che in un agosto lontano brillava mentre lui correva con uno shuttle giocattolo in mano, rinchiudersi nella grandezza di una nocciola e poi esplodere in una luce bluastra, catturando nel suo abbraccio il golfo di Palermo, le montagne dell’Oklahoma, i boschi di Magdeburgo.
Mentre il computer urla, lui torna alle gambe del padre e agli occhi di lei, a Yggdrasil, le cui radici salde non possono cedere nemmeno davanti all’esplosione del sole.
E continua verso la meta.
Tutto tace.
Agid si sorprende a udire il suo respiro all’interno del casco. Nel silenzio cosmico, suona come quello di un gigante risvegliatosi da un sonno lungo millenni. Lo trattiene per qualche secondo ma appena si accorge quanto sia spaventoso non avvertire niente, comincia a respirare angosciosamente.
Agid iperventila, cade nel panico, si contorce al posto dell’Universo, forse credendo di starlo salvando, di starlo invitando a ballare con lui, a scuoterlo, a reagire. Ma l’universo è silente.
La navicella passa attraverso la polvere di sistemi consumati. Dallo schermo il pilota vede nastri di luce carezzare le pareti del vascello, avvista forme tetradimensionali fissarlo curiose, lingue di tenebra che si accoppiano con batteri impossibilmente enormi, meraviglie e terrori che non riesce a descrivere e che gli bucano la testa se tenta di concentrarsi. Tutti lo lasciano andare, e lui si racconta sia perché anche loro capiscono dove sta andando, si convince lo stiano incitando verso la meta, gli stiano dicendo che manca poco, ancora poco, scimmia col casco, sei quasi arrivata.
E Agid, ultimo pilota, ultimo essere umano, scorge l’Occhio dell’Universo, distante e allo stesso tempo vicinissimo: è un buco rigonfio, solcato da fulmini solidi che si imprimono e si spezzano in altri multicolore, è un cerchio perfetto senza geometria, un punto minuscolo che avvolge l’orizzonte, un trucco ottico che rimane dopo averlo lasciato, porte del Paradiso e voragine infernale.
Si dimena, Agid, primate di cromosoma XY, sente di non essere più del tutto vivo.
È a quel punto che la nave si incrina. Le pareti si piegano, cambiano di materia, decadono, diventano di legno, poi di pietra, poi di leghe sconosciute e irreali, di colori nuovi ed estranei che si sfaldano e si ricompongono, e Agid avverte le ossa scricchiolare e gli occhi cuocere dentro le orbite, il cervello congelarsi, contrarsi ed espandersi toccando il cranio.
Agid sa di stare morendo, ma spinge i propulsori, la tuta, le gambe, la mente, spinge ogni cosa mentre perde il controllo lanciandosi verso l’orizzonte degli eventi e solo quando sa di essere oltre si abbandona alla presa dell’Occhio.
Agid si schianta contro il cielo.
*
C’è della terra sotto il suo palmo. È umida e calda, e fili di erba dondolano in mezzo alle sue dita.
Si alza, confuso. Ricorda di esser caduto e di aver volato, ricorda di essere morto. Si rende conto di esserlo in parte.
L’odore di legno vecchio come il mondo invade le sue narici, e senza pensare al come, capisce dove si trova: sono i boschi attorno a Magdeburgo. Querce e faggi e salici piangenti lo accolgono a casa. Agid si toglie il casco, inspira. L’ossigeno non riciclato gli fa salire le lacrime agli occhi, ed è solo quando con il dorso del guanto le scosta che le vede tutto intorno a lui.
Fra i tronchi aleggiano migliaia di luci minuscole, ciascuna non più grossa di un granello di sabbia. Vorticano senza peso e si condensano in galassie delle dimensioni del suo volto.
«Sono meravigliose», e la sua voce ora echeggia fra gli alberi e non fa più paura.
Corre Agid entusiasta a esplorare la mappa del cosmo, senza metodo e con un bisogno infantile, piange e le gocce si impigliano fra la polvere di stelle, e così non si rende conto che ai lati della foresta il bagliore si sta spegnendo, prima lentamente, poi senza pietà.
Quando se ne accorge, impazzisce. Corre furioso a vedere le luci, tutte le luci, bestemmia e sa che il tempo è già scaduto.
Le afferra con più cura che può, le tiene accanto ai suoi occhi, ma ogni fiocco che gli muore davanti è minuto e splendido e terribile, troppo intricato perché possa capirlo in una vita che non ha già più. Le parti di un telaio impossibile si sgretolano in polvere fra i polpastrelli.
Agid Böhm, tedesco, nato a Magdeburgo, quindici anni di servizio, del dipartimento astrofisica teorica, ultima persona in vita, capisce meno adesso di quando era partito. Si mette le mani davanti alla bocca, ma non ha gambe imponenti dietro cui nascondersi. Sotto il terreno le radici di Yggdrasil, vecchie, stanche, hanno lasciato la presa. Rivede suo padre entrare in camera, in piena notte, per sedersi al lato del letto e sussurrargli che è tardi, che c’è tempo domani per leggere di tutte le stelle distanti, di spegnere la luce ora. Chiede a entrambi altro tempo, ancora un attimo, per favore.
Ma la foresta non ha orecchie per ascoltare, e resta una fiamma solitaria accanto al fiume. Oltre, non c’è più nulla.
Così, Agid si appoggia al tronco che sa esser lo stesso vicino al quale con lei aveva fatto l’amore, e si accascia.
Nel momento in cui l’ultimo tizzone si spegne, chiude gli occhi, e quasi gli sembra di sentire qualcuno accanto, col viso poggiato sull’incavo della spalla.
Un fascio di nervi brilla in un’ultima striscia di messaggi, simile al calore di una carezza alla guancia, a una mano strofinata sulla nuca. Un rumore di foglie toccate dal vento attraversa le tenebre.
E una costellazione di immagini implode ai margini del cervello. Le illustrazioni di un libro mutano nelle radici di un albero nascoste da lenzuola d’ospedale. Labbra strette in un sorriso triste si affiancano a satelliti castani trasformati in cenere. Le dita di un bambino mentre tentano di afferrare il cielo dipinto sul soffitto di camera sua.
Agid tende qualcosa, le ultime sinapsi che restano gli suggeriscono “mano”, anche se mani non ne ha più, prova a raggiungerlo ancora una volta.
Poi la lascia andare.
Agid non aprirà mai più gli occhi, eppure vede chiaramente la nocciola sul fondo del fiume,
il seme del prossimo Yggdrasil.
Agid vede.
Lo vede.
Un altro nuovo mondo, sbocciato nel solco del vecchio.
Roberto Pedotti è insegnante, traduttore e giornalista. Scrive poesie e racconti, e cerca di trovare le poche giuste parole con cui esprimersi (spesso fallendo). Adora le incomprensioni e gli anagrammi, e infatti online lo si trova come @orbiteprodotte.