Gran palissandro

Racconto di Francesco Petrucci, secondo classificato al Premio Lo Spazio Letterario 2025.

Locandina della quarta edizione del Premio Lo Spazio Letterario

Pubblichiamo di seguito il testo secondo classificato della quarta edizione del Premio Lo Spazio LetterarioGran palissandro di Francesco Petrucci.


Gil Da Silva era uomo d’onore. Le sue mani grandi, cotte di fatica, stringevano le altrui con vigore, e quello era il contratto. Occhi a fessura, capelli ricci ormai grigi, ciondolava la carcassa color cuoio fra le foreste dell’interno, in cerca del meglio.

Dopo aver scortato il carico fino in città, lui e i figli Dulcìdio e Vinicius puntarono la bussola verso la sagoma bianca e ocra della Igreja de Nossa Senhora da Barroquinha per l’usuale ringraziamento. Una breve, sentita preghiera, poi furono fuori, sulla via animata da gente e rumori. Sotto il tendone arancione aggrappato alla facciata verde opale di un palazzo di fronte li aspettava il loro tavolino: una bottiglia di cachaça gelata sarebbe bastata a placare le loro gole in agguato. Gil posò il cappello fradicio di sudore, scacciò con una manata un agrilo dalla corazza azzurrognola che ci s’era abbarbicato e si accasciò su una sedia logora, allungando i calzoni in tela grezza nocciola da cui sbucavano scarpe polverose. Dopo un sorso di bruciabudella schioccò sonoramente la lingua e rifletté. La merce l’aveva consegnata: non sarebbe più stato affar suo. Non gli importava di dove sarebbe andata a finire o forse sì, ma non era uomo da rompicapi.

Il carico partì il giorno successivo. Dieci tonnellate abbondanti di tavole grezze di uno splendido palissandro rossiccio con striature nere, sagomate in segheria e accatastate una sull’altra. Estratte pochi giorni prima da maestosi alberi delle foreste interne dello stato di Bahia, viaggiavano spedite da Salvador verso Rio, in pancia alla motonave Aparecida. Successivamente avrebbero puntato verso l’emisfero nord, tagliando l’Atlantico: era un controsenso scendere per poi risalire, ma gli uomini sono fatti così. Il legname giunto a Rio venne trasferito sul bastimento Piemonte II, ex nave passeggeri convertita all’uso mercantile, e partì due giorni dopo. Ci volle una traversata di circa cinquemila miglia prima di avvistare la Lanterna di Genova, Italia.

All’ingresso in porto, mentre la pilotina faceva strada, capitan Perasso, un segaligno con baffetti taglienti e un naso rincagnato da una banale caduta su uno scalino che lui spacciava come lascito d’una rissa gloriosa, guardava l’orologio con impazienza. Era pervaso da un certo formicolio alle parti basse, dato che non vedeva Nives la rossa, la sua amante a gettone, da ormai quattro mesi. Non prestava l’occhio alle plastiche danze dei gabbiani in volo sopra uno sfondo ardesia cupo turbato da una cotonosa nuvolaglia, né orecchio ai fischi striduli delle sirene, sospinti da una tramontana impietosa. A malapena salutò il pilotino Pinin Canepa, un atticciato sessantenne con la pelle di prugna secca, che si sbracciava da una cerata gialla oversize.

Perasso era arrivato, ma per il carico di palissandro si trattava di un altro pit stop.

Sul molo, sotto l’ululato del vento rabbioso, una banda di rudi camalli baccaglianti in vena di bestemmie si occupò del brusco atterraggio dei bancali.

Poi vi fu un altro trasbordo su due bisonti rossi con rimorchio che sfoggiavano la lucente scritta cromata 642N65R, posta di sbieco sui musi gentili.

I bestioni partirono ruggendo, tra sbuffi acri di nafta combusta, e giunsero a destinazione dopo un viaggio relativamente breve, inizialmente tutto sballottamenti causa curve. Lissone, Brianza, era il capolinea.

C’è chi, ispirato, da un informe blocco di pietra dà vita a una statua, e perciò vien detto artista. Forse che l’artigiano, che plasma rozze tavole di legno in mobili, vale di meno?

Non la pensava così Gioàn Viganò, mastro mobiliere dal viso duro e compatto come la materia che lavorava con mani potenti, svelte e precise. Un uomo semplice che aspirava a migliorarsi e per progetti importanti si appoggiava a Vittorio Dassi, disegnatore dalla matita sapiente, che più avanti avrebbero ribattezzato designer.

Quel palissandro brasiliano si sarebbe sottomesso docilmente alla maestria del Gioàn, per assumere nuove forme e affrontare una seconda vita.

Fu così che dalla macedonia artigegnatori, come definivano il loro duo affiatato, prese vita un gioiello ligneo: l’armadio intarsiato Dassi/(Viganò). Il resto della materia prima ebbe sorte ordinaria e finì in mobilio omologato.

L’opera non rimase a prender polvere in magazzeno, come diceva Gioàn. Venne acquistata da un potente esponente della ricca borghesia milanese, tale Luigi Crippa, come regalo per la casa del figlio maggiore Gaetano.

L’armadio passò parecchi anni nella spaziosa camera da letto, assistendo a sonni e veglie, a letture e amplessi, a litigi e rappacificazioni, sorbendosi perfino roboanti ronfamenti e i sotterranei gorgoglii dei borborigmi.

Purtroppo, giunse inesorabile il tempo della dismissione. Un bel giorno venne soppiantato da un meno raffinato ma più modaiolo rimpiazzo, e finì in conto vendita in un mercatino dell’usato. Lo comperò una coppia giovane, in vena di vintage.

Paolo e Chiara erano innamoratissimi, e sul letto di fronte fabbricarono due bambini che fortunatamente andarono poi a sfogare i loro estri in un’altra camera.

Ma in un week end estivo non fu Chiara a infilarsi sotto le lenzuola, bensì Susy, collega di Paolo. Gli uomini sono proprio stupidi. Per una occasionale mitragliata di orgasmi, Paolo si giocò il matrimonio. Chiara rimase nell’appartamento coi figli, ma decise di cambiare tutto l’arredamento.

Il venditore del nuovo mobilio, il sig. Pandolfi, si offrì di acquistare in blocco l’usato a un prezzo vergognoso. Chiara accettò, senza batter ciglio. Lui aveva i suoi giri, sapeva a chi affibbiare quella merce poco appetibile.

Ad esempio, alle Rsa, strutture in costante espansione che avevano bisogno di arredare i locali a costi sostenibili con mobili dignitosi, anche se démodé. Ce n’era una con cui faceva spesso affari, diretta da un certo dottor Parodi, uno sparagnino calvo e ingobbito che pagava sull’unghia.

L’armadio, tirato a lucido per aumentarne il valore, imboccò a ritroso il corso di un destino beffardo e si ritrovò in una stanza della Residenza “I pitosfori”, a Genova Nervi. Sotto altre spoglie, un tempo aveva conosciuto i moli salini e ventosi di quella città.

Ora, nella camera 12, vigilava dall’alto della sua grande stazza.

La scorza luccicante, pervasa da un mix di toni cupi e rossastri e lingue scure, emanava un fascino austero e rifletteva il meglio baciata dalla giusta luce.

Era un cinque ante monumentale che dominava senza imporsi, piantato su una quaterna di zampe modanate a treppiede; due centrali e due laterali: mastodontico per quell’ambiente ed esagerato per l’uso cui era destinato. Gli intarsi delle ante, inseriti in una pannellatura a rettangoli sovrapposti separati da strisce chiare, come dorate, gli donavano un tocco artistico. Dentro ogni rettangolo, a sinistra stava un fascio ordinato di intarsi a fibre scure verticali, accostate a un fascio simile ma ortogonale, che occupava la parte destra. Sulla faccia interna dell’anta centrale era applicato un alto specchio con una incipiente maculatura nera dovuta all’argento ossidato; dentro, quattro ripiani. Aprendo le due ante di sinistra appariva una ridondante cassettiera a otto cassetti con sopra due ripiani. Dentro le due ante di destra, una barra metallica orizzontale aggraffata alle pareti laterali, cui erano agganciati degli appendiabiti scompagnati, alcuni in legno chiaro e altri in plastica nera opaca; i quattro in filo d’acciaio ammucchiati all’estrema destra parevano scheletri uncinati.

Aveva voluto andarci quando ancora gli funzionavano gambe e cervello. Aria buona, più sole e meno pillole, con vista mare e palme tutte le mattine. Una mano santa per quel vecchio lungagnone dinoccolato, dagli occhi glauchi infossati e le spalle spioventi.

Una vita alla Banca Popolare, il ragionier Egidio Girardi, tra mutui, fidi, estratti conto e altre amenità. Ricordava gli ultimi clienti come ghepardi guardinghi che si avventuravano in selve ignote. Con lui si annusavano reciprocamente, senza voglia di allacciare un qualche rapporto che andasse oltre quello professionale.

Dopo la pensione, un rosario di anni vuoti, della serie copia-incolla. Egidio era proprio stufo, la Residenza “I pitosfori” se l’era meritata.

Come avrebbe detto sua madre buonanima, veneta di Campodarsego, era un vitasola; forse lì, nell’imbuto di tempo che gli rimaneva, una qualche amicizia l’avrebbe racimolata. Quella spallina militare, l’aveva scovata in fondo a un cassetto del grande armadio.

Dalle decorazioni sulla stoffa aveva immaginato che fosse appartenuta a uno di un certo rango. Ma Egidio non aveva prestato il servizio per insufficienza toracica, e in quanto a divise, gradi e gerarchie, non ci capiva una mazza. Gli piaceva accarezzarla con delicatezza, come fosse una creatura.

Era di fattura pregevole, con fili argento su sfondo nero. Il disegno rappresentava a sinistra un disco bianco marezzato da cui si dipartiva una serie di stringhe dello stesso colore intrecciate fra loro, per comporre un gioco ottico che non ne faceva indovinare inizio e fine. Al centro campeggiavano due ghiande contrapposte in verticale unite per i gambi in un punto da cui sbocciavano, protese a sinistra, tre rigogliose foglie di quercia, con le loro belle nervature.

Era solo un pezzo di panno infeltrito che emanava un odore stantio di muschio fracido, ma ogni tanto Egidio lo tirava fuori, se lo rigirava fra le mani e lo palpava con cura, apprezzandone la maschia ruvidezza. Fantasticava, e lasciava che l’immaginazione perforasse la spessa capotta che gravava sui suoi giorni grigi. Dopo, lo riponeva nel terzo cassetto, sopra le maglie pesanti.

Arrivarono nel tardo pomeriggio; il giovane davanti, il vecchio a ruota. Procedevano spediti, lungo il corridoio. “Stanza 12, eccola” disse il giovane ammiccando col capo, “c’è ancora il nome di quello prima, Girardi”. Il vecchio, un ometto ritto e secco con sopracciglia irsute a punta che sembrava volessero volare da qualche parte, esitava sulla porta, roteando lo sguardo smarrito. Entrarono. Trascinavano un valigione, un trolley e un carrellino di tela con motivo scozzese, per i libri. La stanza aveva un piccolo balcone, la porta finestra era aperta.

“Guarda che vista, papà!” Uscirono entrambi.

“A destra, laggiù, c’è la città; Punta Chiappa è a sinistra, dove finisce il golfo” disse, puntando il dito. “Una volta, se è bel tempo, mi fermo e facciamo una gita in battello a San Fruttuoso.”

Si girò verso il padre. “Ti ricordi l’abbazia dal mare… e la mamma che s’era beccata quell’ondata, era tutta fradicia!” Il vecchio non ascoltava, aveva gli occhi semichiusi e si sfregava il pizzetto candido con le nocche della mano destra.

“E la passeggiata al porticciolo puoi farla da solo, quando te la senti. Sai che ci metto niente a venirti a trovare con Marisa e i bambini? Da Assago a Nervi è un’ora e tre quarti: centocinquanta chilometri, tutta autostrada.”

Il vecchio, con una mano agguantata alla ringhiera celeste, a capo chino guardava in basso, irritato dalla nuova macchia bruna fiorita sulla pelle arida.

Sotto, il giardino stava assaporando gli ultimi raggi di un crepuscolo aranciato.

Appartato tra i palmizi, un uomo in divisa bianca monitorava con occhio vigile gli elefanti. Uno, pietrificato su una panchina; due, femmine, che strascicavano passi podagrosi; un altro in piedi coi gomiti appoggiati al parapetto, fissava un punto lontano. Quattro, in fondo a destra, giocavano a carte sotto il pergolato.

C’era anche il mare.

Rientrarono, cominciando il lavoro di occupazione della stanza.

Pirandello – Tutto il teatro – lo metto sullo scaffale al centro?” disse il figlio, indicando la piccola libreria a muro.

“Dove ti pare.”

Il giovane posò lo sguardo sull’armadio. “E quel catorcio? Se la tirano da resort e poi risparmiano sull’arredamento; dopo gliene dico quattro, al direttore.”

Il vecchio non fiatò, si avvicinò al mobile e prese a lisciare la pelle lustra della prima anta.

“È un armadio intarsiato anni ’50, disegno di Dassi. Tu sei nato a Milano, ma io a Lissone dopo la scuola andavo a dare una mano al Gioàn, l’artigiano che l’ha fatto, un artista. È in palissandro brasiliano, specie Dalbergia.” Accostò il naso al legno e aspirò avidamente, volgendo gli occhi verso l’alto. Trattenne per sé il respiro per qualche istante, poi disse: “Si sente ancora un profumo di rosa… un gran palissandro questo, ora non ce n’è quasi più, viene tutto dalla Nigeria. Ma là i taglialegna illegali saccheggiano le foreste per il mercato cinese. È come per le pinne dello squalo bianco.”

“Cioè?”

“Per i cinesi è una prelibatezza, ci fanno le zuppe. Per quattro scodelle di brodaglia vengono mutilati questi pesci che perdono l’orientamento e muoiono disperati; ormai sono in via d’estinzione.”

“Sono belle storie papà… ma ora vediamo di sistemare tutta ‘sta roba, se no fai tardi per la cena.”

Raggiunse il padre, aprì le prime due ante e si mise ad armeggiare, cristando con la cassettiera, e alla fine assestò un vigoroso scossone a un cassetto che non voleva saperne di scorrere. “Ecco cos’era l’intoppo” sbottò, e posò sul tavolo un piccolo oggetto.

“Una spallina, viene dalla divisa d’un soldato, credo.”

“Credi? Si vede che non hai fatto il militare a Cuneo, anzi da nessuna parte” ironizzò il vecchio, sapendo che il figlio non avrebbe capito la battuta, e aggiunse: “Dev’essere di un ufficiale. Nazista, direi. Reichsführer, come dicevamo noi, o Rechsmarschall, come dicevano loro, quelli della Wehrmacht.”

“Nazista? Ma Girardi, il nome sulla porta… aspetta, ci sono! Era un partigiano, e la spallina è un cimelio di guerra.”

“Magari avevano fatto amicizia, era un regalo” buttò lì il padre, con un sorriso smorzato.

Nel mentre entrò Sebastiano, l’infermiere anziano della Residenza, sulle braccia una pila di lindi asciugamani prelevati da un carrello parcheggiato nel corridoio. Li depose delicatamente sul letto. “Ah, vedo che s’è già ambientato, professore. C’è una vista da qui, uno spettacolo, e poi vedrà, siamo una famiglia.”

Dal giardino salivano voci concitate, erano quasi urla. L’infermiere uscì sul balcone, e dopo una breve ricognizione, rientrò. Scuotendo la testa, richiuse la porta finestra. “Due bambini, litigano sempre, non sono mica cattivi, eh. Alla fine, davanti a un bianchetto e a una sleppa di focaccia fanno pace, in fondo si vogliono bene. È una famiglia, professore, vedrà.”

Nell’uscire, sbirciando il tavolo, venne attratto dalla spallina e, continuando a fissarla, disse: “To’, e questa da dove salta fuori? Sarà stata del Gandolfo, poveretto… che brutta fine. Dicono che fosse bravo, come attore di teatro. L’aveva chiamato anche quel regista famoso, una volta me ne aveva parlato. Sì, Lizzani mi pare fosse il nome… per un film importante, sulla seconda guerra”. L’infermiere concesse una pausa d’attesa, ma non arrivò nessun commento.

“Boh, chissà? Allora, questo cencio lo buttiamo” e fece per afferrare la spallina. Il vecchio, con una rapidità inaspettata, gli bloccò il polso e gli disse, con voce risoluta: “Lasci stare, ci penso io”.

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