Su “Macchine del diluvio” di Stefano Massari

Nota di lettura a cura di Graziana Marziliano.

Macchine del diluvio è la quarta raccolta poetica di Stefano Massari (Roma, 1969), pubblicata a Marzo 2022 per MC edizioni nella collana Gli insetti. La sezione iniziale della raccolta, «primi dodici morti (1969-1996)» – insieme alla seconda sezione «figure del diluvio» e all’«(antefatto)» – contiene poesie composte dal 2010 al 2016. Le ultime due sezioni, «macchine del diluvio» e «diario nostro», contengono liriche elaborate dal 2016 al 2021. Questa raccolta di Stefano Massari si pone in un momento particolare della produzione dell’autore: guardando alle prime tre pubblicazioni – diario del pane, libro dei vivi, serie del ritorno – che costituiscono una specie di trittico, Macchine del diluvio arriva dopo un momento di silenzio autoimposto, un silenzio che l’autore stesso credeva definitivo.

È interessante vedere come il testo si apra con delle parole trascritte durante una seduta spiritica: «raccontare non è facile. le mie rinunce – le piango / ancora», in cui emerge sin da subito il tema della raccolta: chiamare chi c’è dall’altro lato, far riapparire figure che continuano a bruciare e consumarsi nella mente di coloro che vivono. La sezione d’apertura «primi dodici morti (1969-1996)» contiene dodici componimenti, ciascuno relativo all’esperienza di una morte – anche non diretta, cioè raccontata per bocche di altre persone, con uno scarto di tempo – di un personaggio. Non si tratta necessariamente solo di una morte corporale, ma anche esistenziale e generazionale, infatti, l’arco temporale indicato nel titolo comincia con l’anno di nascita dell’autore e il fatto che al centro del primo componimento (la prima delle dodici morti) ci sia l’io lirico bambino dà l’idea che la nascita stessa coincida con un elemento mortifero, con qualcosa di mancante in nuce.

I personaggi di questa prima sezione sono fantasmi familiari dal destino coatto, che ripetono le loro azioni in un esercizio di sfinimento cieco. Uno di questi è la madre, figura che pulisce e protegge. È lei che abita le stanze asfittiche della poesia «con gli occhi abituati al buio e le finestre sbarrate per paura dei topi dei servi e del caldo // con le unghie masticate fino all’alba e tutto il nervo del secolo addosso»; è incastrata in un meccanismo di ripetizioni senza uscita: «io non ho più fede in niente / ma non posso». La madre si muove nel testo di apertura con gesti di fatica e protezione che continuano a ripetersi senza interruzione né possibilità di un altro tipo di azione nella storia.

Αlla figura della madre se ne sovrappone un’altra, più oscura e laterale: il padre, di cui sentiamo il rumore delle bestemmie e dei pugni sulle porte di casa prima ancora di vederlo comparire nel buio. A completare questo albero genealogico disfatto sono i parenti di secondo grado, «il padre del padre» e «la madre della madre»: figure in macerie, deliranti, che sono separate e in contrapposizione rispetto ai figli «perduti e mai nati» le cui esistenze non sono nemmeno abbozzate, ma rimangono limitate all’ipotesi, all’assurdo.

ΙΙ
poi la madre della madre   cullava qualcuno
che per sempre non c’era   fissava qualcosa
che per sempre spariva   stretta nella camicia
che puzzava di bianco  la notte mi pisciava
di fianco e piangeva   e si strappava i capelli
e chiamava madre sua figlia

un po’ d’acqua e nient’altro  signora
tanto da questo male   nessuno ritorna
signora

In mezzo a questa folla, tra fantasmi e apparizioni, si situa un noi, un soggetto plurale con radice anagrafica: «noi / gli interrotti   condannati a tradire / addestrati a sparire». Tra i suoi interlocutori troviamo i fratelli e le sorelle, che sono stati spazzati via prima del tempo («crani di fratelli e le sorelle   liquefatti troppo presto / troppo presto»). I loro strumenti di sparizione ritornano più volte nel testo: la corda, le siringhe, gli aghi sporchi. Queste sparizioni si inseriscono nelle due sezioni centrali («figure del diluvio» e «macchine del diluvio»), in cui si possono intravedere apparenti echi storici riconducibili agli anni Ottanta e Novanta («le leggi di falciare le vene» «le grandi femmine sovrane» «di urina e rivoluzione»).

Il soggetto plurale al centro della raccolta si caratterizza come superstite, sospeso in una frattura tra generazioni e fa i conti – attraverso tentativi di catalogazione – con ciò che rimane e ciò che si è perso durante il diluvio.

Il noi collettivo che è rimasto vivo deve raccogliere le morti improvvise e non assimilate degli scorsi decenni. Deve chiedere un perdono per chi è sparito troppo presto (e anche per se stesso) e deve farlo utilizzando un lessico di preghiera. La materia del testo – riferita, storica, concreta – viene incastrata in un edificio di parole sacre, tuttavia, questo campo semantico della sacralità è continuamente corrotto e sporcato dalle evidenze della storia: «poveri cristi e criste   con le iene in testa / e lo sporco di dio   sottopelle».

Ad attraversare tutta la raccolta è un monito, un giuramento infedele «che ogni cosa  verrà generata ancora». Le figure tramiti di questa promessa di rigenerazione, le portatrici, sono le figure femminili («la nuda impaurita trafitta», «l’innamorata», «l’insanguinata», «la testimone», «la bambina con la morte» o «che piove senza pace e aspetta / sulle soglie») vengono poste come elementi liminari, spiragli di un futuro possibile, ma inefficaci, perché la rigenerazione si inceppa già nei suoi presupposti.

Ciò si spiega con il fatto che questa collettività femminile ha due funzioni principali: la prima consiste in uno sguardo retroattivo che serve a ribadire l’impotenza dei padri, che però è sempre santa («sulle gole delle sorelle che baciano / il padre morto   come un talismano»). La paternità è un’eredità sfuggita di mano («alla destra di nostro padre terminale»): la sua impossibilità si configura nei confronti di un soggetto lirico che deve riconoscersi oggi nel ruolo di padre: «uova / di maschio mangiate sulle schiene / sporche e sfinite di padri prede e pietre / come pezzi di corpi che non nasceranno mai più» o almeno i padri non sono più distanti, lontani, incomprensibili e intraducibili e sono finalmente dei «padri impauriti   che sorvegliano / la schiena del mondo   e battono le mani le mattine / nere di freddo   e si preparano   all’odio e al lavoro /al cospetto dei giudici e i loro denti   inauditi».

I personaggi più insoliti e interessanti che appaiono nella sezione centrale «macchine del diluvio» abitano un paesaggio infetto e desolato, hanno le sembianze di macchine organiche: «i grandi acciai animali scavatori»«gli uccelli fissi e idioti»«il verme cardanico», «la sorella carotide metallica»; in questa categoria si potrebbe includere lateralmente anche dio stesso: «chiunque tu sia   perduto dio   incompiuta bestia».

In Macchine del diluvio la scrittura si configura come un’operazione in minuscolo, in cui le spaziature sono le  vene – spezzate dalla continua tensione – del corpo orizzontale del testo. «Una poesia contratta» la definisce Pasquale di Palmo, direttore della collana, i cui versi si articolano per blocchi sintagmatici. Guardando la struttura dei componimenti, verrebbe da notare che la terza sezione «macchine del diluvio» e la prima parte della quarta sezione «(roma-corale)», rispetto alle precedenti, presentino una più accentuata contrazione dei testi (di tre o quattro versi): qui i sintagmi nominali si accalcano evidenziando una maggiore urgenza del dire. Questi sono i testi più recenti, composti dal 2016 al 2021.

i morti ce li portiamo in bocca
non sappiamo come altro fare

La quarta sezione, «diario nostro», prosegue rannicchiandosi in un’intimità cercata: dalla pluralità di figure delle altre sezioni si passa a un dialogo tra una coppia di sopravvissuti: «la nostra notte / lentissima   assurda verticale   ora che ci raggiunge / ci semina e ci crede illesi   ci lascia riposare». La raccolta si chiude sui toni di un dolore nudo e onesto, girato di schiena. Viene quasi da pensare che quelle dodici morti iniziali non siano effettivamente figure necessarie, attraverso cui si deve passare ogni notte, prima di trovare – o nella speranza di trovare – il sonno o il perdono.

Macchine del diluvio è un tentativo di scavo e riconciliazione con un mondo dal quale si è stati per molto tempo disconnessi, chiusi in solitudine. Quando si tira fuori la voce dopo un periodo di silenzio, la bocca è impastata e il peso della sillabazione si percepisce maggiormente, ma quel composto ritmico e materico che era in attesa preme per uscire – le parole allora si rivelano necessarie.

da (roma-corale)

XVII
chiunque tu sia allora sillaba contro sillaba
corpo madre cardinale   giura che posso
ancora pronunciare questo ennesimo addio
curvo come un diluvio   un digiuno   una febbre
un calendario di prede e regole del bene
che finalmente posso entrare   nell’unica tua
temperatura dell’alba1    perfetta e finale


  1. N.d.A.: «temperatura dell’alba» è un verso di Carlotta Cicci. ↩︎

Su “Totem” di Silvia Tripodi

Nota di lettura a cura di Antonio Francesco Perozzi.

Totem di Silvia Tripodi (Tic Edizioni, 2021) eredita il modus della “prosa in prosa” e lo piega in direzione di una postura teorizzante, che pure nella sua frammentarietà traccia le linee di uno schema e affronta (più o meno frontalmente) la sfida tra immagine e parola, nuovi media e letteratura , evento e traccia.

Da un punto di vista stilistico, il libro fa proprie molte caratteristiche della prosa in prosa. La brevità; la reductio sistematica delle elevazioni epico-retoriche (anche tramite un “rientro” delle interrogative: «Cosa ha fatto Guadagnino in questi mesi. Ha girato la sua fiction, non credo»); una pratica della nominazione stralunata, lievemente mossa; una sfiducia nei confronti dell’assertività diretta e marmorea. Questo impianto fa sì che anche le parti più “filosofiche” appaiano come calate nell’ambra, chiare eppure opache. Del resto il libro conserva una certa carica metalinguistica («Alcune parole chiave come falso, strategia, dinamica […] hanno perso il loro significato originario, la loro credibilità») e quindi una mira autoproblematizzante, che si percepisce soprattutto nel momento in cui il discorso vira sull’immagine.

Ciò avviene in particolare seguendo due piste. La prima riguarda Guadagnino, verso cui si nutre quasi un’ossessione («Occuparsi esclusivamente del look di Luca Guadagnino, studiare i suoi gusti, scegliere i suoi vestiti, sperare nell’impossibile»), ma che è ridotto più che altro a una funzione («effetto Guadagnino o dell’intimità strutturata»). In quanto orchestratore di immagini e “desiderato” insieme, Guadagnino funziona sia come obiettivo verso cui tende il soggetto, sia come architetto delle immagini che regolano la sua esperienza. Ne consegue che la coscienza del soggetto appare quasi plasmata dall’“effetto Guadagnino”.

La seconda pista è quella del Grande Fratello. In realtà, il programma non viene mai citato (lo riconosciamo a partire dalle scene descritte) e perciò evapora, diventa un abitare l’immagine (i partecipanti sono, come si sa, costantemente osservati), un’antropologia della vita calata dentro la scena. Così leggiamo a proposito di un concorrente: «Quanta volontà di compiacere gli autori c’è in lui? In quale percentuale le sue azioni, le sue decisioni, i suoi discorsi, le sue parole e anche le sue crisi di ansia, vengono influenzate dalla regia, vengono indotte o manipolate?»

È su tale piano (della coscienza e dell’immagine che si abitano a vicenda) che si innesta il Covid, il discorso-orizzonte cui tende tutto il “detto” degli ultimi anni eppure in grado di mantenere inespressi i suoi fantasmi, di diventare esso stesso un non-detto, uno step della storia che compromette, se nominato, la fluidità della rappresentazione («Come se non fosse esistito, come se non ci fosse, non bisogna esibirlo nella narrazione»). In questa ambigua trasparenza, allora, il Covid si intreccia alla scrittura, diventa il campo di prova per una nuova dicibilità non compromessa al montaggio nascosto, non epica: «una narrazione in frammenti in differita».

Crema la conosco attraverso un film. Non ci sono mai stata. In una tarda mattinata estiva, assolata, per le strade assolate di Crema. Andare in bicicletta fino al centro, andare al bar tabacchi comprare le sigarette. Tornare indietro, verso casa. La curva fiancheggiata da alberi, assolata. Le ombre corte, fa caldo. La luce estiva, accecante, definitiva. Non ho mai visto Crema, solo attraverso i fotogrammi di un film. E se fosse un’altra città, credo che probabilmente riuscirei a pensarla con la stessa intensità. O forse no. No.

Rasi al suolo e post-testuali. Su “Soggetti a cancellazione” di Lorenzo Mari

Nota di lettura a cura di Fabrizio Maria Spinelli.

È noto come per Lacan il soggetto non possa mai realizzarsi sul piano dell’enunciato, ma solo su quello dell’enunciazione. Da qui l’origine di quelle frasi vertiginose come «il significante rappresenta il soggetto per un altro significante» che ci piace tanto citare nei nostri paper, ma soprattutto l’abitudine, nei bizantini diagrammi che costellano il Seminario e gli Scritti, di rappresentare il soggetto come barrato, scisso, separato, più o meno così: $Proprio laddove il soggetto viene designato dall’enunciato (dalla catena significante), esso viene a mancare, si afferma come manque-à-être. Smarrisce il proprio essere, viene squalificato. Una volta che il significante (afferente al simbolico, cioè al territorio dell’Altro, del linguaggio socializzato) nomina il soggetto, esso si eclissa, scompare nel momento che appare: come un cliché, come una cosa che smette di sembrarci vera una volta che la verbalizziamo. Il soggetto lacaniano è perciò un soggetto a cancellazione.

Soggetti a cancellazione è il titolo della nuova (bella) raccolta di Lorenzo Mari, uscita per Arcipelago Itaca, nella collana Lacustrine diretta da Renata Morresi. Il libro si presenta con un insolito formato A4, e, fin dal primo sguardo, appare evidente che giochi tanto sulla iconotestualità (impaginazione, parole cancellate, testualità esplosa – soprattutto nella notevole sezione Monte dei cocci, dove frammenti saggistici e note idiosincratiche si agglutinano intorno al testo della poesia (?), rimandando a quel labirinto tipografico che è, in alcuni suoi punti, House of Leaves di Danielewski), che sull’ipertestualità (le pagine sono corredate di QRcode, talvolta anch’essi cancellati o frantumati, ‘glitchati’, che rimandano al sito montedeicocci.wordpress.com e a una stanza virtuale, una piana verde circondata da collinette, tipo il primo livello di un videogioco – una schermata di Minecraft o del primo Doom – dove in una visuale in prima persona l’utente può muoversi tra monumenti a forma di QRcode e registrazioni audio di Corrado Costa).

Piccola nota autobiografica, che però dice molto su come un simile oggetto (post-)testuale modifichi le abitudini di lettori. Ho un cellulare molto vecchio, con la memoria ingolfata, che uso praticamente solo per condividere meme (che sono costretto a cancellare repentinamente) con un ristretto gruppo di persone (no, lettore, non rispondo mai alle chat) e prendere appunti. Sono perciò stato costretto a cancellare un cospicuo numero di fotografie (aridi paesaggi greci, dozzine di gatti, meme sul calcio che raccontano la mia vita meglio di un romanzo, video di ricci, screenshot di call per convegni o di copertine di libri tradotti da amici) per scaricare un lettore di QRcode che mi permettesse di godere pienamente del libro.

Già da questa sommaria descrizione apparirà evidente come l’operazione di Mari metta in primo piano, usando ancora termini lacaniani, il «perceptum» rispetto al «percipiens», anzi, sottolinea come sia il primo a istituire il secondo e non viceversa (non c’è un soggetto originario e autentico che si esprime, ma è quanto enunciato che crea una piattaforma ricevente che potremmo chiamare, per mancanza di altri termini “soggetto”). Mari: «Tutta la lotta con i pronomi contro i pronomi/ per farla finita con il canto a soggetto». Con il canto a soggetto, ma non con il canto. Uno dei temi che informano il libro, e che costituiscono il filo sottile che lo lega alle altre opere dell’autore (soprattutto Querencia) è quello della lallazione, cioè dell’articolazione prefonematica di suoni elementari ripetuti (con il conseguente piacere orale che tale ripetizione comporta; vale la pena notare che per Lacan il processo di soggettivizzazione inizia quando il neonato entra nel linguaggio, ossia nel simbolico; la lallazione è una sorta di soglia). Ciò non significa che la poesia di Mari si risolva nell’informale o in un fonosimbolismo spinto, ma è tuttavia ancora presente, nella sua pratica ipercontemporanea, un forte orecchio metrico, una tensione al canto, una preminenza del somatico rispetto al semantico che domina alcune sezioni del libro (soprattutto Délibáb e Vertigo/Lai; nella prima c’è una poesia che è una vera e propria danza dei prefissoidi).

Tuttavia, ciò che contraddistingue Soggetti a cancellazione rispetto ai libri precedenti, è la varietà e l’eclettismo. C’è la lallazione, appunto, ma anche la lirica fredda e percussiva (fatta di bassi e di ritmi metallici) di Malco, la poesia che si esaurisce nella chiosa accademica di Monte dei cocciuna sezione concettuale in pieno stile uncreative writing statunitense (la traduzione automatica di un discorso di Godard preso da una live su Instragram, dove ci sono associazioni luminose come questa: «Ti ho pensato molto perché/ hai commentato molto»), una sezione dedicata alle traduzioni di un poeta spagnolo che sembra uscito dalla penna di Bolaño (un realvisceralista ante litteram, dotato di una consistenza ontologica sottile e fantasmatica, tipicamente sudamericana, nonostante sia nato a Madrid), di cui Mari riproduce filologicamente anche la pagina Wikipedia, con tanto di impaginazione html (il poeta si chiama Carlos Salamón, e forse è il destinatario dell’Urlo di Ginsberg, forse non è mai esistito, forse c’entra con un progetto di sparizione della fauna avicola; se, come scrive Ben Lerner nel suo primo romanzo, «i nomi propri dei governanti sono distrazioni dai sistemi economici concreti», i nomi dei poeti – dimenticati o mai esistiti – che funzione sociale hanno?).

Insomma, Soggetti a cancellazione è un libro molto vario, molto stratificato, molto complesso, che prova a mappare (solo io ci vedo un intento enciclopedico?) il paesaggio di quella che potremmo chiamare lirica 2.0, cioè il canto (non totalmente serio, non totalmente ludico) di un mondo sovraesposto alle immagini e alle informazioni, dove anche il dominio della merce si è spostato nell’immateriale, dove è crollato il discrimine tra fattuale e virtuale, dove la soggettività è il risultato delle nostre ricerche su Google.

Di seguito alcuni appunti sparsi.

Versi che mi sono piaciuti di più: «Si potevano ancora/ scambiare i rumori della strada/ per rumori della strada».

Hype: una sezione del libro riporta delle citazioni tratte dal delizioso poemetto eroicomico (rigorosamente in ottave) La Vaiasseide, scritto da Giulio Cesare Cortese nel 1612 in dialetto napoletano. Il PDF della prima stampa è consultabile online.

Quanti anni ha Lorenzo Mari: 38.

Bergeriana: Délibáb, prima sezione del libro, si occupa di miraggi. Parla di piani, piani inclinati, sirene, campanili ed orizzonti. A un certo punto, mai nominato, verso la fine, compare Ulisse. L’Ulisse dantesco, che cerca di navigare fino al termine della terra piatta, e la sua ciurma deve resistere al canto delle sirene (il canto a soggetto, la cadenza dei pronomi). Solo che il piano su cui naviga è una pellicola. Lo schermo del cellulare. Le onde del mare sono i pixel. La terra piatta è lo smartphone che ho in mano. Oltre il quale c’è l’immagine di un campanile rovesciato. Una fata morgana. La montagna del purgatorio.

Un’altra manciata di versi: «Ancora disastra il mondo/ […] ne abbiamo fatto ragione/ canto e alfabeto soprattutto/ ci rassicuriamo perché/ l’abbiamo scritto».

sequenza di malconon si compone: non sa fumare
dello spazio che fumare riempie di ictus
il canto che fumare potrebbe
fumare come una riserva
altamente disponibile e in cerchio
per ogni tipo di combustione fumare
senza risoluzione o quasi come
un lapsus o un’altra forma
questo dovrebbe almeno
smettere perché ai suoi molti figli
squadrando il cammino da parte a parte
il padre aveva lasciato soltanto una cassa
piena di carte
si pensava a un tesoro
che invece si poteva semplicemente
fumare poi se n’era andato ridendo
si ricordava che era pieno
di vita fino alle punte
dei polmoni alle punte dei fiori
e lasciando solo una cassa
da fumare disse amore mio
poi correggendosi amori miei
di mio resta questo
pieno ma proprio soltanto
di carte e cartine per

             [dire e far dire: c’ero anch’io]


Post ScriptumSoggetti a cancellazione è stato letto sotto l’effetto di Ambien, uno pseudobenzodiazepinico abbastanza blando (almeno per come lo uso io), e si è prestato davvero in modo mirabile a una simile lettura (eccitata, piena di immaginazione, di confini sfocati, ma anche di un certo acume paradossale). I libri di poesia andrebbero catalogati sulla base del tipo di sostanza a cui si adattano meglio. Un saggio andrebbe poi scritto sul rapporto tra antidepressivi e poesia (se i farmaci ci rendono più sopportabile la vita, influenzano – ma in che termini – anche il nostro modo di rappresentarla, o, come fa la poesia, di farla riaccadere ritualmente) e, ovviamente, tra antidepressivi e recensioni di libri di poesia.

Su “Poesie per Pasolini” a cura di Roberto Galaverni

Nota di lettura a cura di Patrizio Andrisano.

Nel lungo anno del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, nulla credo meriti più attenzione di Poesie per Pasolini a cura di Roberto Galaverni, pubblicato a marzo da Mondadori nella collana Lo Specchio. Un’antologia che raccoglie i poeti in ordine alfabetico, secondo un criterio di trasversalità, e pone sullo stesso piano i contributi dei grandi maestri e dei poeti più recenti. Chiunque come il sottoscritto abbia avuto modo di incontrare Pasolini lungo il proprio percorso di studi comprenderà presto, dinanzi a questo ‘pseudocanzoniere’, le potenzialità di un’opera che emerge chiara e spontanea dalle profondità del Novecento e traccia una volta per tutte la mappa dell’intrico di rapporti che legava il poeta delle ceneri a tutto il sistema-letteratura del suo tempo. Se da un lato è infatti visibile l’immagine stinta del Pasolini contro tutti, dall’altro emerge con grande forza (mai così tanta, quasi un’eco) l’effige opposta del tutti per Pasolini, che fa della raccolta un involontario, eppure largamente giustificato, percorso di espiazione collettiva nei confronti del poeta che, come scrive Galaverni, «per tutti e più di tutti ci ha provato» (Galaverni, p. XIII)1.

Ora, cercare di comprendere la portata di questo provarci o poetico cimento della durata di un’intera vita da Pasolini, è sia il fulcro operativo attorno al quale ruotano le intenzioni del curatore sia il motivo che spinge il tema Pasolini ad affermarsi come sottogenere poetico; almeno, laddove risulti vero che in qualche misura «dire la propria su Pasolini – e non fa differenza se per incensarlo o metterlo al muro – per molti ha significato e tuttora significa dire la propria anche sulla poesia in quanto tale» (ivi, p. VI). I poeti di questa raccolta, in apparenza gli involontari autori del testo, non solo si esprimono sul mito Pasolini che sviscera a sua volta il mito pasoliniano – e tanto basterebbe –, ma riflettono su un certo modo di fare poesia che Pasolini ha sistematicamente aggirato, più di tutti e per tutti. In fondo non sarebbe neanche corretto definirli autori involontari, trattare questa raccolta come un apocrifo codice Pasolini, in quanto, seppure con le dovute eccezioni, queste poesie (elegie, poemetti, epigrammi, epistole, haiku…) nascono da una vera necessità poetica mossa per (o contro) ragioni di passione e ideologia: il tema costante, quello della diversità; s’intende, della diversità nella poesia, come scrive Elsa Morante: «la tua vera diversità era la poesia. È quella l’ultima ragione del loro odio» (Morante p. 106).

Dunque, se alcuni componimenti ricordano il Pasolini delle inchieste giornalistiche, o il Pasolini della memoria, o azzardano il what if del cosa direbbe oggi se fosse vivo – ne sono un esempio Pasolini di Giuseppe Conte e Se tu potessi vedere l’Italia di Gianni D’Elia – è vero che, nel loro insieme, i testi rivelano un certo stato del pentimento collettivo, per non aver compreso l’angoscia vera di chi ebbe «l’ansia di toccare il cuore al mondo» (Ferretti p. 53), perché, aggiunge sempre Massimo Ferretti in Lode d’un amico poeta, «il tuo sangue non vive in questi lacci» (Ibid). E non solo i «lacci» di Ferretti, la «prigione» di Franco Fortini o la «rete» di Ignazio Buttitta, ma altre, moltissime, immagini simili definiscono il limen oltre il quale nessuno come Pasolini s’è mai spinto, uno starci, spiega Eugenio Montale in Lettera a Malvolio, del poeta nella realtà. Qui starebbe il motivo della diversità di cui parlano Fortini, Matteo Marchesini, Alda Merini, Montale, Morante, Mario Luzi, Elio Pagliarani (per citarne alcuni), del poeta che, ribadiamolo, per tutti e più di tutti ha abitato il confine fra poesia e vita, fra mondo interno e realtà. È innegabile, nessuno come Pasolini ha sottoposto a maggior tensione il punto di contatto fra la parola e la cosa, fino all’esito estremo che rende la poesia all’impoetico ipercinetico di Trasumanar e organizzar (1971): raccolta di versi non spendibili dai poeti delle generazioni successive, niente meno che il braccio armato dell’ininterrotta belligeranza del loro autore. Tuttavia, se da una parte la voce immensa di Montale sminuisce l’ossessione pasoliniana per una poesia efficace definendola un’«astuzia» – e sempre da quella parte della barricata Fortini scrive: «non conoscerò che me stesso / ma tutti in me stesso. / La mia prigione vede più della tua libertà» (Fortini p. 66) – altri prendono parte al grande disegno che questo libro riscrive, e a partire da un corpus sterminato di poesie, che è un canzoniere in morte e in vita lungo il quale si tocca il massimo grado dell’espiazione di un innegabile fariseismo poetico. Porto l’esempio di Mario Luzi:

Pasolini?
Ho pensato a lui più volte
[…]
Ci sono modi diseguali di stare nella equità dei tempi,
nella stessa storia, avendone tormento.
Ci sono modi e modi di vivere quella disuguaglianza.
Tutti erano in lizza, questo generava dramma.
[…] Lui agonista
Non aveva scampo. Lo incalzavano
due erinni: la disperazione
e la vitalità, fameliche ugualmente,
lo mordeva la sua intelligenza.
La perduta integrità del mondo
diceva scritta nella sua rovina,
ed era, credo, fieramente vero,
narcisisticamente anche lo era,
e sacrificalmente, spero (Luzi pp. 79-80).”

Non l’astuzia di chi «rifiuta le distanze» (Montale p. 95), non scorciatoia, ma verità; e anche Pagliarani rimprovera se stesso per non aver creduto: «potrò mai perdonarmi / che quel grido quel vento altro che a effetto, altro che artificiale / erano le tue stimmate / era nelle tue viscere / ti era consubstanziale» (Pagliarani p. 117). La stessa rivelazione di una verità connaturata alla figura di Pasolini che aleggia anche nelle parole di Paolo Bertolani: «leggendoti dicevamo / che anche se avevi torto / avevi ragione» (Bertolani p. 20)2.

Ora, le strade che questo libro apre parrebbero infinite, e difficile sarebbe portare qui un’analisi completa del testo. Mi limiterò dunque ad approfondire solo un altro elemento di quest’opera che credo possa completare quanto detto sinora. Vorrei dire qualcosa circa il significato delle stimmate delle quali scrive Pagliarani, fare il punto sul tema del sacrificio che forse ha più a che fare con Dostoevskij che non col Cristo dei Vangeli.

Leggendo si fa strada l’idea che il compromettersi con la realtà, ossia lo snodo che spinge la voce di Pasolini a divergere da quella degli altri sia anche, in un certo senso, la salvezza degli altri; come regola generale, infatti, accettare un compromesso ha sempre un prezzo, anche in poesia, e come s’è visto: «tutti erano in lizza, questo generava dramma». Eppure, non tutti sono disposti ad adottare lo statuto dell’«ossimoro permanente» (Montale p. 95), pochi si spingono tanto in là da confondere arte e vita, e con lo scopo di ridurre lo iato che separa la parola dalla cosa. Luzi ripensa a Pasolini e lo vede in ciò «sacrificalmente» vero, la sua voce come una parola incisa sottopelle, stigma di verità. Giudici è attraversato dalla medesima presa di coscienza quando scrive: «io qui rauca memoria del nodo / che per noi liberava la tua voce» (Giudici p. 70). Inutile girarci attorno: Pasolini libera gli altri poeti dal fardello di una poesia che esce fuori da sé fino a cagionare la propria stessa dispersione, si immerge nel magma più di Luzi, nella palude più di Sanguineti. Perciò, credo che l’immagine del criminale dostoevskiano sia la più adatta a spiegare il servizio che Pasolini rende alla società dei poeti (forse alla società intera), nel concretizzare per tutti il desiderio indicibile di ognuno. Tutti vogliono delinquere, uccidere, rubare e per Dostoevskij il criminale che compie l’atto è una specie di valvola di sfogo per l’intera società, è un santo che permette a tutti gli altri di non agire. In modo analogo, Il poeta delle primule è colui che sporca le proprie mani sacrificandosi, che viene poi condannato per aver liberato la voce di tutti contro il mondo dei padri; lo stesso mondo di padri (borghese, fascista, capitalista) che vibrava, ora sì per interposta persona, l’ultimo colpo di tavoletta che uccise Pasolini; almeno, così negli illuminati versi di Alberto Moravia:

Ti sei chinato e con te
Si è chinato tuo padre e tutti gli altri padri
d’Italia
hai raccolto la tavoletta
e poi hai vibrato il colpo
e con te l’hanno vibrato tuo padre
e tutti gli altri padri (Moravia p. 109).

Il reale insomma è il luogo che fagocita la poesia di Pasolini, giunta addirittura in forma di lirica dagli anni di Casarsa, e in seguito piegata a crescenti nuove violenze per farne l’arma di un’estenuante lotta patricida. Una poesia di Attilio Lolini dal titolo La versione di Dostoevskij rompe allora ogni dubbio:

mi ha detto ammazzami
tutte le notti cercava un assassino
senza trovarlo mai

[…]
vedrai diceva ne trarranno
ovvie conclusioni

nei miei occhi aveva visto un nonsoché
un’antichissima malattia
una sfida da altri mai raccolta

come in un tale mitja che non so chi sia
che come me diceva lui era santo (Lolini p. 76).

L’«antichissima malattia» è il complesso di Edipo, ed Edipo è parte di un’imago interiore che assimila anche le figure di Cristo e Narciso a costituire il trittico fondamentale degli scritti giovanili di Pasolini, – dove anche l’immedesimazione con Cristo ha un taglio perlopiù edipico: è il figlio che per la legge del padre è costretto a separarsi per sempre dalla madre. La «sfida» a cui invece allude, dando almeno per plausibile la conversazione con Lolini, è quella del parricidio, una sfida che Pasolini raccoglie sin da bambino e poi nella poesia, e non per se stesso soltanto quanto anche per i suoi fratelli putativi – gli altri poeti di questo libro, bloccati dalla formalizzazione del verso – che perciò esprimono tra le righe un certo senso di colpa nei confronti del poeta solo contro il mondo; proprio come Ivan Karamazov per il fratello Dimitrij (Mitja), perché se Mitja l’ha fatto, certamente, Ivan l’ha desiderato.

Qui Pasolini parla di Dimitrij Karamazov ma parla di sé, come del fratello accusato ingiustamente di aver assassinato il padre, condannato per aver fatto (ma in verità il vero assassino è Smerdjakov) quel che tutti desiderano. E Pasolini a questa missione ha sacrificato la propria poesia come nessun’altro. È «il poeta che più di tutti e per tutti ci ha provato».

Non so se le genziane viola sino al blu di Proserpina
fioriscono a Casarsa
ma certo di primo autunno sui monti
che ferisce e ventila il tagliamento bambino.
Non un brindisi funebre
un mazzo di genziane miste a felci
vogliono le tue ossa – non le tue ceneri –
che ancora inquietano e consolano
noi in attesa
di ricordarti di dimenticarti (Bertolucci p. 27).


  1. Roberto Galaverni, Introduzione in Roberto Galaverni (a cura di), Poesie per Pasolini, Mondadori, Milano, 2022. Tutti i testi poetici citati di seguito sono tratti dal medesimo volume. Per maggiori informazioni sui testi citati si rimanda alla sezione «Notizie sui testi». ↩︎
  2. Leséndote a diséve / che ‘ncò se t’avi torto / t’avi rasòn. ↩︎

Su “Saggio sulla paura” di Fabrizio Miliucci

Nota di lettura a cura di Riccardo Frolloni.

La paura è una delle emozioni primordiali, animali, e viene controllata dall’amigdala. Alla paura l’animale reagisce con il combattimento o con la fuga. La paura spinge alla sopravvivenza, è un potentissimo impulso vitale. Miliucci ha «deciso di scrivere un saggio sulla paura», perché «lei non mi dice più niente». Questo lei minuscolo, minimo, cui il poeta si riferisce e che scompare nell’opera, come qualcosa o qualcuno da non pronunciare. Qualcosa di pauroso: lei.

Ma ci può essere spazio per la paura in un libro che inizia così?: «Caro Carlo, // io mi volevo ammazzare […]». Il Carlo a cui si rivolge il poeta è un altro poeta, Carlo Bordini, morto. Dunque subito capiamo il tono e il tema: è un dialogo tra morti, o meglio, tra chi lo è sul serio e chi lo vorrebbe. Un dialogo impossibile con una sorta di Doppelgänger, o una dialettica negativa, dove tutto della vita (gli affetti, la famiglia, il ricordo, la scrittura, il lavoro, il senso) sappiamo cosa non è, vediamo manifesta la sua scandalosa e violenta mancanza di umanità, la sua perfetta inumanità: «Il mio stato cosciente è un verminaio oscuro e pauroso. Faccio finta di niente, / mi distraggo e mi rassicuro dicendomi che il solo pensiero non è un sintomo grave». A primo impatto, i modelli più semplici da ritracciare sono Simone Cattaneo e Salvatore Toma, per la violenza e la truculenza, ma anche Bernard-Marie Koltès per il dramma del doppio che c’è nella Solitudine dei campi di cotone (1986). D’altra parte torna insistente anche il lavoro dello stesso Bordini, La pura superficie (2017)di Guido Mazzoni, o a tratti anche una certa calibratissima puerilità che ricorda Stefano Dal Bianco, soprattutto quello della «distrazione»: unica via di fuga, forma di conoscenza, ma una conoscenza inutile per Miliucci; infatti, suicida è chi chiude i conti con la paura, il mancato-suicida è chi cerca una distrazione per sopravvivere a questa.

L’opera si divide in sei parti: Il presente domani; ErroriCittà aperta; La dolce vita agra; La deficienza; Il bene chiaro. Vediamo il personaggio-poeta procedere in una lunga autoanalisi, sembra quasi sentirlo ragionare ad alta voce, con la sua lingua naturale, la lingua dell’Es, sboccata e tagliente, non filtrata, sbrindellata, e così passa da anglismi («global warming»; «human skills») a dialettismi («fammi ‘sto piacere»), dal linguaggio tecnico psicoanalitico a quello filosofico: «Penso che non pensarci è stato come non pensare a me / che mi penso in continuazione, come una specie di parente lontano». La forza di queste poesie sta proprio nel giusto squilibrio che l’autore riesce a creare, nella ricerca di una «nuova educazione» tramite la scrittura poetica. Il verso a volte è breve, a volte lunghissimo, altre volte è una prosa, muta continuamente e la sua metamorfosi è coincidente col dettato. Ripercorre i traumi dell’infanzia, la violenza antica che si tramanda di generazione in generazione, quel mulinello di dolore che porta alla «certezza del disastro». Perciò la vita e la scrittura sono solo un mezzo di «distrazione del pensiero schizofrenico» e un modo per «interrogarsi sul male». D’altronde questo è un Saggio sulla paura, un verse-essay, con una sua presunta scientificità poetica, e come tale deve essere letto. La tensione poetica-filosofica-psicoanalitica si rispecchia (distorta, incrinata) nella realtà, descritta cinematograficamente, nella Roma-città aperta, producendo di fatto un rovescio del reale, dove realtà, coscienza, incoscienza, memoria, veglia, sogno, dialettica tra fuori e dentro, sono un tutt’uno nel laboratorio narrativo e poetico dell’opera-saggio.

Saggio sulla paura è un libro nero, crudissimo, dove la speranza non viene mai dichiarata apertamente e dove il combattimento (o la fuga, tra i due non c’è distinzione) se c’è è nel persistente tentativo della scrittura e negli affetti, o meglio, in alcuni di essi, in Giulia, «unico mio contatto col reale» e nella famiglia, dove è possibile  resistere a una vita tragicamente umana.


Costruiamo questa vita monca
fatta di atti mancati poche possibilità tirare avanti.
Gli orizzonti che vediamo non sono lineari, hanno una piega
in mezzo come delle V infinitamente espanse.

Passiamo il sabato a discutere i difetti di un bilocale sulla Casilina
ipotizziamo che trasferirsi ancora più in periferia abbasserebbe la rata del mutuo
attraversiamo Alessandrino Torre Maura Giardinetti e non vediamo niente.

Ma non è alienazione, è qualcosa che non sappiamo spiegare.
Il tempo si ammucchia fuori dalla finestra, il lavoro si assottiglia
come una candela, identità privata e collettiva diventano ogni giorno più divaricate.

Nel legno della nostra convivenza, un parassita ha dissodato un solco.

Potremmo alzare la testa e vedere cosa è fuori, ma fuori
è lo specchio irriflesso di quello che è dentro, ovvero un bisogno
in cui siamo giocati fino all’ultimo lembo di pelle.

Su “Prossimo e remoto” di Eleonora Rimolo

Nota di lettura a cura di Lorenzo Di Palma.

Il quarto libro di poesie di Eleonora Rimolo, Prossimo e remoto (PeQuod, 2022), è corredato da una postfazione di Milo De Angelis, che con l’estrema sintesi dei grandi poeti esaurisce da solo tutti gli argomenti di un recensore. Mi limito soltanto a qualche riflessione sulle criticità stilistiche e sui punti di forza che a mio avviso meritano di essere messi in luce.

Il libro si presenta come un dialogo ininterrotto tra un Io femminile e un Tu ambiguo e cangiante che assume le forme di una figura paterna, di un amante, di un figlio. A tratti questi simulacri possono liquefarsi fino a diventare elementi astratti o metafisici ai quali rivolgersi. La struttura è quella di brevi poesie dal tenore epistolare: non c’è mai una spiccata sequenzialità nei testi, eppure si percepisce il senso di progressione di una storia.

La prima sezione, «Microcosmo», è dominata da una serie di oggetti quotidiani (i lacci, il cuscino, i bagagli), elementi naturali (la palude, lo stagno, le foglie, la corteccia), animali (il cane, il cervo, il rettile). La stonatura incombe quando l’autrice si ingessa in un manierismo geometrico e tutto si fa vago e accentuatamente cartesiano («sfere di silenzio», «imprecisa retta dell’orizzonte»); oppure quando al contrario si abbandona a metafore languide, trasognate («La tua mano è un cardo pungente senza fiori» in apertura di una poesia che contiene, pochi versi dopo, anche un «cuore basalto»). Le ultime due poesie giovano a rendere meno artefatti i toni (i versi iniziali recitano: «Per te solo ho distrutto il pudore e la gloria» e: «Come dire che questo libro è scritto / per te…»).

La seconda sezione, «Isole», è la più breve e forse la più coerente. Come per la precedente la coerenza è data essenzialmente dall’insieme lessicale, in questo caso afferente al mondo marino. Ecco comparire la Capraia, l’amo, la schiuma, la roccia, gli scogli, l’acqua, l’abisso, le gocce, l’umidità, la corrente. Il Mediterraneo diventa «l’enorme abisso limaccioso». La narrazione gira attorno all’Io che si rivolge ad un «padre mancato» (un profugo? un orfano del mare?).

 Ancora poche pagine e leggiamo: «Queste sono le mie colline: occupano uno spazio». Il tono perentorio e la parola spazio ci informano che siamo passati a un ultimo contenitore lessicale, quello geologico e astronomico (le stelle, i pianeti, i vulcani, i punti cardinali, «la macchina del mondo») che corrisponde alla terza sezione: «Macrocosmo». È in questa sezione che troviamo le poesie più interessanti, forse grazie ad una tensione filosofica apparentemente assente nel resto del libro. («e su Marte non c’è biologia ma c’è / sulla terra stasera una paura / che fa più umane le cose…»).

Per concludere, non posso evitare di menzionare l’occorrenza assillante dell’avverbio/congiunzione quando che compare 21 volte su 50 poesie totali. Niente di inaspettato per un libro in cui il tempo rappresenta fin dal titolo l’elemento dominante; più difficile da comprendere la scelta di ripeterlo anche più di una volta nella stessa poesia, rendendolo a tutti gli effetti un leitmotiv piuttosto insistente.

Insomma, si tratta di una scrittura godibile, a tratti manierata, che trova le sue vette nei punti in cui la totale mancanza di palingenesi professata dalla Rimolo si fa più chiaramente universale, umana, e trascende gli eventi minimi di quotidianità corriva, argomento più di ogni altro inflazionato nella poesia contemporanea. Perché è proprio grazie a questo sforzo speculativo che si arriva indenni alla «sola parola che conta».


Questi corpi elementari che volano eterni
dai ponti metallici sono mossi dagli urti
e scarnificati fino alla completa dissoluzione:
forse camminano al nostro fianco, vestono di lana,
si proteggono dall’infezione. Non basta per esserci.
Sempre in qualunque luogo stia qualunque persona
da ogni lato si lascia sempre un tutto infinito:
vorrei toccare Vera con la punta delle dita,
rimettere in piedi Umberto con un abbraccio,
dire a Nilde che il dolore è solo un lampo.
Ogni giorno voltiamo la pagina, con grazia
attraversiamo le epoche, recitiamo la favola
dei mondi antichi in esametri. Questa è
l’ottusa insistenza della storia, il mio breve
messaggio di congedo, la sola parola che conta.

Su “Tutte le poesie” di Cosimo Ortesta

Nota di lettura a cura di Federico Di Mauro.

In questi giorni esce per Argolibri l’opera completa del poeta e traduttore dal francese Cosimo Ortesta (1939-2019), a cura di Jacopo Galavotti, Giacomo Morbiato e Vito M. Bonito. Il volume persegue coerentemente il progetto della casa editrice di Macerata di riproporre autori fuori canone del Novecento italiano. Già ampiamente conosciuti i bei volumi sull’opera omnia di Corrado Costa e su Trilce di Cesar Vallejo. La collana Talee ancora una volta si distingue per la grande cura critica ed editoriale: come nelle precedenti uscite, le introduzioni e le postfazioni si pongono come un luogo di dibattito critico serio, a margine di una riflessione generale sulla poesia d’avanguardia di ieri e di oggi.

Ortesta ha fatto fatica a trovare uno spazio nelle antologie della poesia recente, a eccezione della breve comparsa tra le pagine di Dopo la lirica di Enrico Testa. Le ragioni sono espresse da Galavotti e Morbiato nel saggio Una sola digressione ininterrotta. Cosimo Ortesta poeta e traduttore (Padova University Press), che tre anni fa ha aperto la strada per la riscoperta del poeta. Oltre a essere ostile al conformismo dei salotti letterari italiani, Ortesta era un poeta consapevolmente e orgogliosamente anacronistico. Esordiente a oltre quarant’anni con Il bagno degli occhi (1980), opera emblematica e barocca che molto deve a Mallarmé e ai poeti di Tel Quel (Sollers, Jaccottet, e altri), egli traccia una parabola autoriale insolita e difficilmente catalogabile. Da un lato, riprende con coerenza il materialismo che aveva animato la cultura francese del Sessantotto – già ampiamente dismessa all’altezza degli anni Ottanta, per non dire negli anni Novanta; dall’altro, impegna un dialogo serrato con se stesso, che di raccolta in raccolta lo porterà a chiudersi nei temi e nei motivi più ossessivamente personali: la memoria, la malattia, il disfacimento del corpo, la morte.

Letta oggi, la poesia di Ortesta ha un importante valore documentario perché ritrae un momento di svolta della poesia del secondo Novecento dal punto di vista di un interprete d’eccezione.

Dopo una prima fase all’insegna dello sperimentalismo di matrice parigina, Ortesta raggiunge la piena maturità stilistica in Serraglio primaverile (1999). Qui l’autore sa bilanciare istanze di un certo manierismo oscuro, come il travestimento in figure del mito, le accese sinestesie, i pesanti ossimori, la metaforica obliqua alla Dylan Thomas e l’insistenza martellante sul significante, al disvelamento di un vissuto lacerato, solcato dal trauma costante della perdita e da una pervasiva sofferenza psichica.

Il Serraglio abbandona in parte la messa in scena esclusivamente intra-psichica delle prime raccolte e va incontro al mondo esterno, percepito come minaccia costante. Alberi, animali, personaggi dai contorni evanescenti (bambini, ragazze, donne vedove) inscenano una specie di idillio rovesciato, dove un mondo radicalmente negativo rischia di rovesciarsi sulle vite degli esseri umani, inseparabili dal dolore, dall’invecchiamento e dal lutto:

È verde il bocciolo e fiorirà
quando più non parlerai.
Una specie di primavera sfiora il corpo gelato
un odore di felci e miele tutt’intorno
alle bocche che mangiano e baciano
annuncia un pensiero
l’umida crepa mistero tremante
nel fiato della madre.
Colpisce la compattezza stilistica e tematica della raccolta, che segna una rottura rispetto alle prime fasi sperimentali di Ortesta.

A seguire La passione della biografia, un’auto-antologia uscita nel 2006 per Donzelli. Il libro prende il nome dal poemetto uscito originariamente nel 1977 sui Quaderni della Fenice di Guanda, diretti al tempo da Attilio Bertolucci, e segna il consuntivo di questo poeta notturno, terminale, quasi postumo in vita.

Ortesta si muove dietro la rappresentazione, sul palcoscenico della mente e dei suoi fantasmi, per mezzo di un linguaggio-geroglifico segnato dalla rimozione; qui però un maggiore intento comunicativo e in generale una disposizione più favorevole alla comprensione e l’immedesimazione del lettore permettono alla sua poesia di rilasciare l’incandescente contenuto psichico delle sue immagini e di avvolgere il lettore in un ritmo più disteso e quasi narrativo. Da Zanzotto e Ungaretti, i punti di riferimento diventeranno soprattutto Giudici e Bertolucci. Nel lungo poema Céleste che apre la raccolta, indossando la maschera di Proust, l’autore ci fa calare nell’esperienza del corpo malato e dell’attesa della morte, riscattata in parte dal progetto di un’opera capace di trascendere l’esperienza della finitudine dell’individuo:

immobilità e silenzio gli [a Proust] insegnano a lavorare
per un’improbabile vita futura

mentre, sul fondo, fa la sua comparsa il presentimento del nulla definitivo

un’unica forma nera pronta
a dileguarsi nella notte
sta per toccare il confine
ecco adesso vi è entrata

l’azzurro intravisto dalla finestra
è un luogo preciso della terra
senza rilievo senza colore gli alberi
e le colline non entrano più nei suoi occhi.

Due voci a confronto. Su “Exfanzia” di Valerio Magrelli

Note di lettura a cura di Clara Tumminelli e Patrizio Andrisano.

Introduzione

Questo articolo riunisce due contributi sul nuovo libro di Valerio Magrelli Exfanzia (2022), degli studiosi Patrizio Andrisano e Clara Tumminelli. I due autori si inseriscono nel dibattito sorto nelle ultime settimane a proposito del valore letterario del libro, analizzandolo da prospettive diverse. Clara si sofferma maggiormente sull’aspetto pop della raccolta, rilevandone i punti critici nel confronto con la produzione precedente di Magrelli; Patrizio invece mette in luce le sottili linee di significato che attraversano il testo, cercandone l’unico punto di fuga rappresentato dal tema del riconoscimento.


Exfanzia, il fiammifero e lo stoppino

di Clara Tumminelli

Ēx: preposizione, parte del discorso non declinabile: “da, fuori di”.

A distanza di otto anni dall’ultima pubblicazione di poesie, Valerio Magrelli (nato a Roma, classe ‘57) si ripropone nel panorama poetico con la raccolta Exfanzia, uscita il 15 febbraio 2022 per la collana Einaudi. Nel ‘77 un giovanissimo Magrelli appare con i suoi primi esperimenti nella rivista «Periodo ipotetico», diretto da Elio Pagliarani. Esordisce nel 1980 con Ora serrata retinae, a cui seguono Nature e venature (1987), Esercizi di tiptologia (1992), Didascalia per la lettura di un giornale (1999), Disturbi del sistema binario (2006) e Il sangue amaro (2014) che saranno poi raccolti in Le cavie: poesie 1980-2018 (Einaudi, 2018). Traduttore e critico letterario, Valerio Magrelli insegna Letteratura francese presso l’Università di Pisa e di Cassino.

Il ribaltamento esercitato da Ēx- apre subito il tema della raccolta e richiede al lettore una torsione, uno sforzo di espansione che segue il movimento messo in moto da questo rimaneggiamento. Exfanzia, dunque, come moto da luogo, come trazione («la vecchiaia è: diventare liquido»). È la senilità come condizione esistenziale, uscita dal sé, sguardo sul mondo e sull’infanzia («d’essere, io stesso, pantano!»). L’immagine dello sguardo «non allegro, ma assorto» del bambino che palleggia «solo col suo pallone e le sue leggi» – in apertura della sezione «Sotto la protezione di Pollicino» – viene riprodotta incessantemente lungo tutta la raccolta, è una sottrazione, e si fa retrospettiva, strozzata: parla di malattia e di morte («Se lui è malato, io cosa sono?»; «Sto qui nel letto. Febbre.») con uno scarto forte rispetto alle precedenti raccolte che affrontano il tema come chiave escatologica del rapporto corpo-cavia-mondo («il vivo veniva legato a un cadavere», in Noterelle archeologiche); si abbandona nella nenia di una filastrocca, mediante l’utilizzo provocatorio di rime inclusive («versi/avversi»; «logopedista/dista»), volutamente sciatte, dando vita a «un kit di rime da assemblare». Lo stile, dunque, è dimesso, semplice, e sembra farsi forza in un’estetica bruttura che naviga la superficie delle parole perché «Poesia viene da pus», mentre il lessico si apre sempre di più a tecnicismi collaterali e prestiti di lusso («check-in»; «stretching»; «shopping»; «password», «phon»).

La protezione di Pollicino è il disegno programmatico della raccolta, il vademecum di questa a-poetica («perdo gli oggetti, a uno a uno»). Ne scaturisce un rapporto guastato con il mondo contemporaneo, e la poesia mima il reale attraverso la metafora dell’elettrodomestico, «il frigorifero», che qui diventa un correlativo oggettivo privato della sua carica, diverso dal «termosifone» in Viaggio d’inverno. Entrano nei testi squallide immagini («in certi gabinetti / con la cellula elettrica»); disincanto e cinismo ingialliscono la raccolta («maschere»; «Ponte dei Suicidi»); «Ottuso, meccanico, ripetitivo» con «quel suo borbottare da idiota» è il tono dell’io, che si inceppa all’interno di un asfittico punto d’osservazione («è raro che la poesia possa riaprirsi»), sottolineato da ripetizioni ossessive, masticate («a quale dio mi lega?», «prego un dio», «un dio farmacologico», «un dio su misura»). Tramite il meccanismo di spostamento messo in moto dall’Ex-, la a-poesia si incarna in una accondiscendente amarezza che stona di fronte alla riproposizione di un’infanzia ingenua e non problematizzata («Vi amo come figli / e vi vorrei salvare / da questa orrenda età che vi tortura»), in una torsione deformante che ri-elabora impietosamente il passato attualizzandolo nel presente («Tra mezz’ora, cadendo, / mi romperò una spalla / e poi sarò operato due volte»). Costellata da correlativi oggettivi – feticci – che non si illuminano, la raccolta assume le fattezze di un diario che altera la nostalgia in una sempre più compiacente poesia pop («Non resta che ballare, / perché ballare è la cosa più bella che esista»), e un lessico così radicalmente domato rischia di esaurire il proprio potenziale in un ammuffimento di significati («Ma le rughe raccontano i sorrisi»), nei parallelismi retorici, sentimentali («anche abitando tanto vicini, / come potremmo stare più lontani?»), nell’autoreferenzialità intrisa di “contemporaneismo” – carattere distintivo del poemetto Guardando le serie tv, in coda alla raccolta nella sezione «Quattro poemetti» – di cui l’io non riesce a fare a meno («Tra la mia sofferenza e il mio amore, / io scelgo Super Mario Nintendo»).

Nonostante la puntuale organicità che corre lungo la raccolta, fedele al punto nevralgico dell’ex-fanzia, si ha il sentore di una poesia addomesticata, addestrata e con il fiato corto, lontana dallo «stormire neurologico di fronde» della vecchiaia, presente in Timore e tremore. È quindi una poesia che si apre al contemporaneo ma che rimane inerte; si rifiuta, ora, di fungere da scandaglio del reale e sembra ripudiare l’«alfabeto dei padri» di Paesaggi laziali; che lascia depotenziati della loro forza espressioni come l’esangue «QR code del tuo viso»; «il flash del riconoscimento» non apre la poesia a ulteriori significati celati nel correlativo oggettivo; il «lettore ottico» è uno spiraglio che propone una visione depressa del mondo; «identità», «storia», «vita» restano parole abuliche nella chiusa di una poesia che non ha voce, che non inveisce «sotto una tomba etrusca». Non «come fa lo stoppino / da uno stoppino che gli passa il fuoco» in Viaggio d’inverno, ma come un fiammifero: si accende e subito si consuma.

Nel segno di Pollicino

di Patrizio Andrisano

La nuova raccolta poetica di Magrelli non costituisce un punto di rottura coi lavori precedenti, e laddove si volesse collocare questo testo in continuità con Il sangue amaro (2014), allora urgerebbe ammettere che piuttosto ne rappresenta l’explicit, ossia la prima parola di un verso di fine: Exfanzia (2022). E proprio attorno a questa parola-titolo così impegnativa sorgono le prime difficoltà interpretative, che, a fidarsi dell’autore, si risolverebbero nell’ammettere un “ex” che comunque implichi “in”, a definire dunque, come spazio poetico, l’inconsueta plaga del contatto fra infanzia e vecchiaia; quantomeno, un piano di sineciosi non vincolante e di trapasso fra due mondi lontanissimi. La verità è più complessa. La scena è tutta presa da un tentativo di mediazione che segue la prassi della confidenza autobiografica e sferra un duro colpo a ogni scapicollata forma di neospontanesimo. La costruzione meticolosa del verso, la scelta di incipit chiari ed estremamente esplicativi in molti componimenti – «Ogni tanto mi telefona il mio amico malato», «E ricomincia la solita tortura», «Sto qui nel letto. Febbre. Ma sto bene», «La vecchiaia è questione di idraulica» – e l’emergere di un caldo impeto esclamativo a volte dal tono paterno ed esortativo – «resurrexit!» – altre più fanciullesco – «allora non ve ne siete ancora andati!» – definiscono l’ubi consistam di un dramma esistenziale che investe il lettore attento ai temi della maturità. Scontato credere che le vecchie generazioni non comprendano il nostro modo di sentire, meno ovvio è il contrario: siamo capaci di comprendere, noi, il dramma dell’anziano? La risposta è no, almeno non come, teoricamente, sarebbe in grado di fare un bambino che esprime sempre, seppure da prospettiva diversa, le medesime necessità del vecchio; una su tutte, quella del riconoscimento. Ma andiamo con ordine.

Due enormi dilemmi fanno da impalcatura alle trame del libro: cosa resta oggi di ieri? E ancora: cosa resterà? Domande che spingono il poeta alla solitudine e all’isolamento. Anche qui Magrelli si comporta da scienziato, prova a rispondere impugnando alternativamente alla lima il bisturi – «L’importante per un chirurgo, / diceva il poeta, / è stare sempre dalla parte del manico» – e attraverso un’alleanza fra corpo mortale e corpo poetico, una sutura questa, che seleziona in maniera puntuale e raffinata i lemmi di riferimento: «tessuto psichico, corteccia cerebrale, valvola mitralica, cartilagine, sangue, unghie…». Così, Exfanzia prende molto dal lessico scientifico e mette in risalto l’inevitabile disfacimento del corpo – «Qui come premi un po’, sgorgano liquidi, /e la vecchiaia è: diventare liquido» –, risponde alle due domande cardine rivelando allora, con grande umiltà, quella tensione verso l’inorganico – invero, una pulsione di ritorno all’inorganico – che attraversa tutta l’opera di Valerio Magrelli e trova qui, forse, la sua massima finalizzazione. Di noi resteranno solo alcuni scarti, delle «scorie», un «pantano», al limite delle fotografie – «poi sbuca fuori una foto», «la foto di mia figlia piccola» – e alcuni scampoli di memoria – «io, disperato, invece, adesso abbraccio / quell’immagine» –; ma questo è solo il punto di partenza.

Dopo circa sessanta pagine, Magrelli propone una soluzione; inserisce un testo chiaramente programmatico col quale esprime il bisogno di riaffermare l’ovvio: l’antidoto al disfacimento è la poesia. Poesia come riciclo: «immenso lavoro di trasformazione delle scorie», dalla deformazione all’ordine matematico, prosodico, metrico perché «l’accento è tutto», al ribaltamento del caos nel calcolo preciso borrominiano perché «qui, “ma” vuol dire tutto», e ancora, l’atto di «fare maglioni col dolore», di «trasformare l’angoscia in tappetini da bagno» per realizzare «la metamorfosi del male»; niente meno che «una vecchia idea» di Magrelli, di Poesia come «terapia, arredamento, traduzione». Ma quanto affermato sul piano della coscienza altrove viene negato, e dunque conservato, fra le lastre di una poesia marmorea, non elaborato ma rimosso; per usare un’immagine dello stesso Magrelli, tutto è seppellito in una bara zincata o plastificato nella materia poetica. Così le scorie (ciò che resta), quelle umane, ma anche quelle di un pensiero dominante che non può essere invalidato, non ritornano a nuova vita – «mi sento riformato dalla vita» –, mai smaltite, forse stoccate, certo rinchiuse dove non possono nuocere, di qua della poesia che, ad un tempo, è scudo e oggetto ultore: armato contro «l’infinita crudeltà della vita».

Dice una cosa, poi la smentisce nei fatti; Magrelli vuole dirci che la poesia è una freccia spuntata all’età di sessantacinque anni, un rifugio per uomini già morti che anticipa un eterno riposo: «Cesare che si copre / la testa col mantello / vedendo Bruto tra i suoi assalitori. // Alberto fa lo stesso / con le coperte, a letto, / quando si vede vinto dalla malinconia», dove la poesia è il letto, una coperta simulacro di madre, che riduce la distanza da quel ritorno all’inorganico di cui s’è detto, mai soluzione. E tante sono le immagini di castrazione del mezzo poetico, una su tutte quella di Sunt lacrimae rerum: le lacrime non spengono il fuoco del dolore, ma cauterizzano l’acqua che tracima – «[…] il pianto è questo: / marca, marchio rovente» – bloccando la liquefazione, ma – si domanda Magrelli – «(per quanto?)». A questa piccola parentetica il compito di smantellare sul piano testuale la menzogna della poesia come riciclo che, chiaramente, non potrebbe realizzarsi se non in maniera perentoria. I motivi del dolore sono ora quelli della vecchiaia, e non è sufficiente il conforto offerto dalla certezza della forma ad arginare il senso di smarrimento che assottiglia l’uomo (ancora vivo) a cui venga negata la gioia del riconoscimento. Il “diritto di perdersi” a cui accenna il poeta in Mi perdo, mi perdo, mi perdo, nasconde dubbi e inquietudini; un certo grado di ambiguità serpeggia poi nel verso che chiude con tono perplesso la prima stanza: «perché recalcitro? Perché voglio smarrirmi?». Ma tra queste righe risiede il centro di irradiazione dell’intera raccolta, il motivo per cui “ex” e “in” possono convivere, il significato del titolo della prima sezione: «Sotto la protezione di Pollicino». Sì, perché dietro questo diritto a perdersi si annida il bisogno di essere ritrovati da qualcuno. È il motivo del nascondino questo, e di una dialettica del perdersi che unisce il bambino con l’anziano; ché entrambi hanno bisogno di sentirsi desiderati, entrambi desiderano continuare a scavare nell’Altro il vuoto della propria assenza. Allora, il Pollicino di Valerio Magrelli dissemina briciole sul proprio cammino non per ritrovare la strada, ma per lasciare una traccia del proprio passaggio, sempre nella speranza del ricongiungimento con l’Altro. I punti di emergenza di senso sono molteplici e il desiderio del poeta tracima presto nel rimpianto: i vagoni dei rapporti umani sfrecciano l’uno accanto all’altro nell’indifferenza – «Ci incontreremo in treno, / a metà strada, / tu verso Sud e io al Nord […] Sarà un momento, / i due vagoni passeranno vicini, / senza neanche accorgersene» –, gli amici sono ormai «perfetti estranei», il volto del poeta è lo spazio su cui «papà e mamma […] fanno capolino […] giocando fra le linee del viso. A nascondino». Insomma, il poeta è il teatro immobile del corteggiamento fra i genitori, e vorrebbe interferire (come farebbe un bambino) ma non può: «si divertono cercandosi tra loro, / io sono, escluso, a fare da teatro».

Come anticipato, Exfanzia non è un libro di rottura, e, a ben vedere, i temi di fondo sono i medesimi di altre raccolte, con momenti che richiamano Ora serrata retinae (1980) e Il sangue amaro (2014), espliciti richiami a Geologia di un padre (2013) e Addio al calcio (2010); tuttavia, il rimaneggiamento è importante e tocca l’estremo del rimotivare pienamente una parola antica attraverso l’esperienza nuova; perciò il libro riesce e segna il suo passaggio diritto sul piano dell’imposizione di un dilemma lontanissimo, mette il lettore nel corpo di chi non dovrebbe morire prima del tempo perché esprime ancora i medesimi bisogni del bambino a cui, diversamente, la gratificazione non verrà mai negata. Ora, credo di non poter tacere sulle ultime venti pagine della raccolta, a cui il poeta riconosce dignità di fare sezione a sé, dal titolo Quattro poemetti, perché sento il bisogno di rivolgere la parola direttamente a Magrelli per dire:

“Valerio,

mi sono messo nei tuoi panni, ho letto questo libro e qualcosa avrò pur detto di vicino all’esatto; non sarà forse il caso che tu faccia altrettanto con noi più o meno giovani? Capiresti che la parola “pandemia”, per noi, è troppo grande, capirai anche che questa critica non è rivolta soltanto a te, ma anche a noi”.