Io abbreviazione di Dio. Una lettura de “Le schegge” di Bret Easton Ellis

Nota di lettura a cura di Simone Salomoni.

Su Le schegge, ultimo romanzo di Bret Easton Ellis, è già stato scritto molto e il contrario di molto: il capolavoro dello scrittore californiano, l’ennesima riscrittura del solo romanzo che lo scrittore californiano ha scritto nella sua carriera, Ellis al massimo del suo splendore, Ellis al massimo della sua sciatteria stilistica.

Quello che mi interessa fare qui (per altro non so dire se Le schegge sia un capolavoro, se sia il capolavoro di Bret Easton Ellis, mentre sono anche io convinto che Ellis abbia scritto un solo romanzo – come quasi tutti gli scrittori: la differenza è che Ellis lo fa in maniera più spudorata e quindi onesta – e cercato a ogni riscrittura la forma finale di sé: ho l’impressione che ora sia riuscito a raggiungerla e gli auguro di potere spurgare il suo male), non so se è stato fatto altrove, non mi pare, è riflettere su come Bret Easton Ellis si ponga, si muova – come scrittore ma anche come vivente: per BEE le due cose sono più che per altri inscindibili – si mimetizzi e si esponga all’interno di un romanzo come Le schegge, romanzo che potremmo con una certa sicurezza inserire nel novero delle cosiddette autofinzioni.

Partiamo da un fatto evidente: Ellis ci ricorda costantemente di essere uno scrittore, lo fa ogni dieci pagine per oltre settecento pagine e in maniera neanche troppo velata, lo fa a partire dallo splendido, davvero splendido, incipit e pertanto, se questa è la sua autobiografia di uno scrittore dobbiamo allora leggerla ricordandoci che per lo scrittore, come scriveva Rimbaud, io è – SEMPRE – un altro.

Chi è allora io per Bret Easton Ellis ne Le schegge? Io, innanzitutto, è abbreviazione di Dio, e Ellis gioca e quasi porta all’estremo l’idea facendosi Dio e demiurgo del proprio mondo narrativo, e mi pare lo faccia servendosi principalmente di tre personaggi, tre protagonisti, se vogliamo: il suo doppio narrativo, Bret, autore e narratore e protagonista de Le schegge, Robert Mallory, lo studente nuovo arrivato affetto da problemi mentali, nemesi dello stesso Bret, e The Trawler, tradotto da Giuseppe Culicchia con Il pescatore a strascico, sadico e misterioso serial killer che impera su Los Angeles.

Bret, Mallory e The Trawler sembrano a un primo sguardo, e senza possibilità di smentita, tre personaggi diversi, separati, monadi indipendenti l’una dall’altra che si muovono all’interno dello stesso spazio narrativo. Fin dalle prime pagine, però, Ellis insinua il dubbio che Mallory possa essere The Trawler o quantomeno che la sua apparizione a Los Angeles sia collegata all’apparizione e agli omicidi del Pescatore a strascico: “E poi naturalmente, si presentò il Pescatore a Strascico. Per circa un anno c’erano state diverse effrazioni e aggressioni, e sparizioni, e poi nel 1981 venne rinvenuto il secondo cadavere di un’adolescente scomparsa – il primo era stato scoperto nel 1980 – e infine fu collegato alle effrazioni nelle case. Tutto questo avrebbe potuto verificarsi senza la presenza di Robert Mallory, ma il fatto che il suo arrivo fosse coinciso con lo strano offuscamento che aveva iniziato a insinuarsi nelle nostre vite fu una cosa che non mi fu possibile ignorare, sebbene gli altri lo facessero, a loro rischio e pericolo” (pag. 19).

Ellis insinua e quando l’autore insinua il lettore, o quantomeno il lettore che sono io, si sente autorizzato a insinuarsi a sua volta, a insinuarsi e insinuare propositi e desideri autoriali più o meno manifesti, nascosti non come fatti ma come fantasmi nelle pieghe della narrazione e così il lettore che sono io si è trovato a chiedersi: ma non è che come BEE (il narratore) insinua una correlazione se non una sovrapposizione fra Robert Mallory e The Trawler, BEE (l’autore) voglia insinuare anche una correlazione se non una sovrapposizione fra BEE (il personaggio) e Robert Mallory?

ATTENZIONE: NON PROSEGUIRE LA LETTURA SE SI TEMONO SPOILER.

Questa ipotesi diventa qualcosa in più di un’ipotesi mano a mano che si avvicina la fine del romanzo – Bret e Mallory hanno un confronto, un tentativo di chiarimento delle incomprensioni avute “Non sapevo più che cosa dire, perché non c’era nient’altro da dire – niente faceva presa su di lui, era come parlare a uno specchio” (pag. 682) nel quale Mallory finge di sedurre Bret salvo poi umiliarlo “Lo guardai in faccia e il sorriso sexy era sparito, e lui si tirò via e sedette sul bordo del letto e poi mi guardò dall’alto in basso e con una lieve traccia di disgusto si ripulì la bocca col dorso della mano e mormorò: – Frocio del cazzo –. E poi: Lo sapevo” (pag. 684) – e prende maggiore forza durante la notte in cui prima Thom e Susan (il migliore amico di Bret e la sua fidanzata) vengono aggrediti con la ferocia che caratterizza The Trawler e dopo avviene la colluttazione fra Bret e Robert Mallory – “Abbassai lo sguardo e vidi che stringeva in pugno un coltello da macellaio. E poi lui vide il coltello che impugnavo io” (pag. 694) “Incespicai alla cieca in avanti alzando il coltello, ma Robert era corso fuori dalla stanza e io collassai contro il lavabo del bagno ma non riuscivo a vedermi nello specchio perché c’era troppo vapore” (pag. 697) – colluttazione nella quale è Mallory a soccombere.

Anche se le indagini ufficiali dicono il contrario, Bret insiste sulla possibilità che Mallory – prima di aggredirlo – abbia aggredito i suoi amici con inumana ferocia (a Susan è stato amputato un seno, mutilazione che caratterizza The Trawler, come vedremo), salvo poi aprire al lettore (o almeno: al lettore che sono io) un diverso e inquietante scenario – “Io indossavo una camicia Polo azzurra, con le maniche lunghe, abbottonata fino al collo, ma una delle maniche era ricaduta indietro quando avevo alzato un braccio per premerle un dito sulle labbra, e mi resi conto che era lì che stava guardando. Il sorriso da sballata era sparito e i suoi occhi incrociarono i miei e poi tornarono sul mio braccio. L’atmosfera ovattata, spossata, della stanza cambiò, e si attivò qualcosa – tutto stava ronzando. Susan prese a tremare intanto che tornava a guardarmi. Prima che potessi fermarla lei si sporse e tirò più su la manica. Dapprima non disse niente, ma mi resi conto che stava guardando una profonda ferita sull’avambraccio circondata da un livido viola e giallo.
Le sembrava di aver visto il segno di un morso. Lo disse alzando la voce.
Le sembrava che quel segno di un morso fosse esattamente dove aveva morso l’intruso sabato sera” (pag. 716) – lo scenario nel quale The Trawler possa in realtà essere lo stesso Bret.

La casa abbandonata su Benedict Canyon – casa appartenente alla famiglia di Mallory nella quale Bret entra abusivamente in cerca di un collegamento fra Robert Mallory e The Trawler – a me sembra funzionare come un corpo, il corpo che contiene la psiche di Ellis: il proprietario è Mallory, al suo interno vediamo muoversi esclusivamente Bret, ma sul finale si scopre che è il luogo nel quale, in effetti, è stata rinvenuta la quarta vittima di The Trawler: “Il suo corpo era stato «decorato»: la bocca riempita di pesci, la testa e il collo di un gatto cuciti sulla fronte, il resto del corpo dell’animale che fuoriusciva dalla vagina, mentre le gambe erano state ripiegate e divaricate come se Audrey stesse partorendo. La testa era adorna di corpi così che una sorta di parrucca le coprisse il cranio. I seni mancavano – erano stati rimossi, e nelle cavità erano state posizionate le teste di due gatti. L’ano era stato forzato col muso di un cane decapitato a cui era stato cucito il collo strappato a un altro cane. Come ho detto, solo mesi dopo venimmo a conoscenza di tali dettagli, e solo di alcuni: ci volle un anno perché l’orrore di ciò che il Pescatore aveva «realizzato» venisse reso noto nella sua interezza. Anche se il corpo della quarta vittima del Pescatore era stato ritrovato nella casa sulla Benedict Canyon, Robert Mallory non era mai apparso come il sospettato numero uno nei giorni successivi – appresi in seguito che si trattava di una teoria «allettante» ma che certi dati semplicemente non combaciavano.” (pag. 709-710). Una lunga sequenza per stomaci forti, la descrizione di un corpo smembrato che sembra quasi essere la sublimazione orrorifica del lavoro di selezione, correzione e montaggio di uno scrittore.

So che non è per forza così, mi rendo conto che attraverso gli strumenti della critica ufficiale l’analisi potrebbe dare risultati diversi, però io non sono un critico, e questa idea casa-corpo rafforza in me l’ipotesi che mi ha suggestionato, che mi ha portato a pensare: ma è possibile che per Bret Easton Ellis Bret, Mallory e The Trawler siano in effetti saldati, indissolubili, inscindibili? A me pare di sì. Mi pare che essi possano essere interpretati come la rappresentazione freudiana della psiche umana di Ellis nella quale Bret ha la funzione di IO (il giovane ragazzo ricco consapevole della propria omosessualità, pronto a sperimentarla ma non ancora ad accettarla), Robert Mallory quella di SUPER IO (Mallory è reduce da un ricovero psichiatrico, d’accordo, rappresenta comunque tutto ciò che Bret non è ma forse vorrebbe essere: bello e eterosessuale al punto da riuscire a sedurre Susan, la ragazza che Bret avrebbe voluto per sé, fosse stato eterosessuale) e The Trawler quella di ES (ciò che Bret sarebbe potuto diventare se avesse dato diverso sfogo assoluto alla sua parte oscura, se non fosse arrivata la scrittura a sublimare gli istinti più indicibili e violenti).

Se poi volessi andare oltre o di lato, e mi prendessi la libertà di immaginare un BEE ebbro di Cristianesimo, di immaginare un autore più europeo e meno americano, cosa che assolutamente Ellis non è – o almeno non mi pare proprio che sia – potrei arrivare ad affermare che Le Schegge potrebbe essere un tentativo di messa in scena di Dio più che di Io, la messa in scena di uno scrittore, demiurgo e trino, nella quale Bret è Padre, Mallory è figlio e The Trawler è Spirito Santo. Le Schegge è un romanzo che si presta a molte letture e molti lettori. Può essere letto come un thriller, la tensione è altissima e non cala mai; ci si può fermare a un secondo livello di lettura e leggervi la storia che segna la fine traumatica di una giovinezza e la nascita di uno scrittore; ci si può trovare molto altro: quello che ci ho trovato io – senza alcuna pretesa di univocità – è la sofferta ricomposizione di una trinità umana disgregata e sottomessa al trionfo dell’ego autoriale.

Rimanere “ancorati alle stelle” in un mondo di soprusi: quattro poesie di Fady Joudah

Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Flavia Zerbini, vincitrice della Call for Translators “Poesia e Violenza”.

Fady Joudah è un poeta, traduttore e medico statunitense, figlio di rifugiati palestinesi. Nato nel 1971 a Austin, Texas, ha vissuto in Libia e in Arabia Saudita; ha poi frequentato la facoltà di medicina presso l’Università della Georgia e oggi lavora come medico d’urgenza a Houston, Texas. È membro di Medici Senza Frontiere dal 2001, e in quanto tale ha preso parte alle loro missioni umanitarie in giro per il mondo.

Secondo Joudah, «all life is an act of translation»: dalla capacità di dare corpo al reale attraverso il linguaggio, alla semplificazione necessaria nella comunicazione coi pazienti, al lavoro di traduzione dei poeti in lingua araba, tutte le attività della sua vita girano attorno a questo sforzo di trasmissione, di costruzione di legami nel rapporto con l’Altro. È un’apertura verso l’esterno di tipo cosmico, dal momento che l’autore fa sì che la sua poesia non rimanga incastrata nell’interpretazione tipica della poesia palestinese, legata alle vicissitudini di questo popolo e quindi di valore limitato alla contingenza, ma includa in sé il passato e il presente, l’Occidente e l’Oriente, rivolgendosi all’umanità intera nel racconto di esperienze e memorie universali.

A questo scopo, Joudah mette in opera nelle sue poesie un’elaborata ricerca linguistica che riguarda in particolare l’uso di vocaboli ad alto grado di specializzazione provenienti dall’ambito medico e naturale: l’autore crea così nel dettato poetico delle isole metaforiche sulle quali il lettore è spinto a soffermarsi e che contengono il significato ultimo del testo. Come nel linguaggio post-grammaticale di Pascoli, Joudah cerca la precisione per creare effetti di straniamento e significazione. La forte attenzione verso gli elementi fisici, naturali e corporali, viene dalla volontà dell’autore di mettere in scena la realtà come fatta di carne e sangue, universalmente segnata dalla malattia, dall’infermità e dai cicli di vita-morte. Il lavoro di Joudah si impernia quindi sul tema della sofferenza come luogo fisico e mentale che unisce i popoli, i generi, le specie e le persone; la storia di sradicamento, esilio e morte del popolo palestinese diventa il punto di partenza di un’interrogazione sulle modalità in cui la violenza, percepita come fatalità ineluttabile, si dispiega su tutte le creature terrestri, dalla natura martoriata dall’uomo ai popoli oppressi da guerre e sopraffazioni e costretti alla migrazione. Tutto questo avviene in prospettiva dialettica, in cui l’autore rifiuta la fissità delle risposte e decide di porsi tra «sfumatura e semplificazione» confrontandosi direttamente con il lettore, il “noi” che è il fine ultimo di queste liriche. Qui presentiamo alcune poesie del suo terzo e quarto libro di poesie, Footnotes in the order of disappearance (2018), e Tethered to stars (2021), scritto a cavallo della pandemia di Covid-19.


Da Tethered to stars, 2021

Gemini

After yoga, I took my car to the shop.

Coils, spark plugs, computer chips, and a two-mile walk

home, our fossilized public transportation, elementary

school recess hour, kids whirling joy, the all-familiar

neighborhood. And then another newly demolished house.

How long since I’ve been out walking? A message appeared

on my phone: an American literary magazine

calling for a special issue on Jerusalem, deadline approaching,

art and the ashes of light. At the construction site

the live oak that appeared my age when I became a father

was now being dismembered. The machinery and its men:

almost always men, poor or cheap labor, colored

with American dreams. The permit to snuff the tree

was legally obtained. The new house is likely destined

for a nice couple with children. Their children

won’t know there was a tree. I paused to watch

the live oak brutalized limb by limb until its trunk stood

hanged, and the wind couldn’t bear the place:

who loves the smell of fresh sap in the morning,

the waft of SOS the tree’s been sending

to other trees? How many feathers will relocate

since nearby can absorb the birds?

Farewell for days on end. They were digging a hole

around the tree’s base to uproot and chop it

then repurpose its life.

Gemelli

Dopo lo yoga, portai la macchina al negozio.

Bobine, candele d’accensione, chip di computer, e due miglia a piedi

per tornare a casa, i nostri trasporti pubblici fossilizzati, l’intervallo

delle scuole elementari, i bambini in un turbinio di gioia, il quartiere

così familiare. E poi un’altra casa demolita da poco.

Da quant’è che camminavo? Sul mio telefono

comparve un messaggio: una rivista letteraria americana

cercava contributi per un’edizione speciale su Gerusalemme, e la scadenza era vicina,

arte e le ceneri della luce. Nel cantiere

la quercia viva che sembrava avere la mia età quando divenni padre

veniva ora smembrata. La macchina e i suoi uomini:

quasi sempre uomini, manodopera a basso costo, povera, del colore

del sogno americano. Il permesso di estirpare l’albero dal suolo

era stato legalmente ottenuto. La nuova casa sarà probabilmente assegnata

a una cordiale coppia con figli. I loro bambini

non sapranno che lì c’era un albero. Mi fermai a guardare

la quercia viva brutalizzata ramo per ramo finché il tronco non rimase

esposto, e il vento non poté più tollerare il luogo:

chi ama l’odore di linfa fresca al mattino,

un SOS esalato che l’albero stava inviando

agli altri alberi? Quante piume si trasferiranno

potendo le vicinanze farsi carico degli uccelli?

Addio per giorni e giorni. Stavano scavando un buco

attorno alla base dell’albero per sradicarlo e tagliarlo a pezzi

poi rivenderne la vita.


House of Mercury

The storm funneled through town with destructive intent.

Fractured tree limbs, toppled fences, ripped shingles

like tufts of hair. Dad woke up to snaps and creaks,

the two live oaks in the front yard,

but in the backyard the nearly uprooted fig tree

brought him to tears. In the morning

two neighbors, one Black, one White

came over to bandage the oaks after debridement.

A third, an Indian, stabilized the fig tree,

pitched it like a tent with rope and stake.

On the second day, I cut up the rest of the branches,

deepened the earth for the fig, enjoyed a long lazy

lunch with my parents, and on the way home heard

a radio report on whether the sky is bluer

during a pandemic. The third day

I took my son and daughter back,

we bundled up the heaps, nursed the flower beds,

delighted in another languid lunch,

hummus, falafel, shakshuka

followed by tea and stories about fear

that comes to nothing. The kids said it was the best falafel

they’d ever had. And Mom said that going forward

her morning glories will get the light they deserve.

Casa di Mercurio

La tempesta attraversò la città con l’intenzione di distruggere.

Arti di albero fratturati, steccati abbattuti, tegole strappate

come ciocche di capelli. Papà si sveglio al suono di schiocchi e crepitii,

le due querce vive in cortile,

ma nel giardino dietro casa l’albero di fico quasi sradicato

lo fece piangere. In mattinata

due vicini, uno Nero, uno Bianco

vennero a fasciare le querce dopo lo sbrigliamento.

Un terzo, un indiano, stabilizzò le condizioni del fico,

lo piantò come una tenda con corda e pali.

Il secondo giorno, tagliai il resto dei rami,

sprofondai il fico nella terra, godetti di un lungo pranzo

pigro con i miei genitori, e sulla strada di casa sentii

un servizio radio sulla possibilità di un cielo più blu

durante una pandemia. Il terzo giorno

riportai a casa mio figlio e mia figlia,

legammo insieme i sacchi, badammo alle aiuole,

ci deliziammo con un altro languido pranzo,

hummus, falafel, shakshuka

seguiti da tè e storie sulla paura

che si dilegua. I bambini dissero che era il miglior falafel

che avessero mai mangiato. E mamma disse che d’ora in poi

le sue campanule avrebbero avuto la luce che meritavano.


Sandra Bland, Texas

On the highway home last night

you reappeared to me opposite where I was headed,

so tell me, was it

a cigarette that bothered your jailer so?

(They let me go the one time I blew smoke

into a trooper’s face.) In the footage

your final revolt. I stood before you

more than once, more than sex

and color separated us, and why

should you call a doctor kin. Sandra Bland,

we broke you down,

I say your name, how broke. You died

on the day the Hollywood sign

was dedicated. For you I name

this town, and after every woman

the police killed, a town.

*

Dear Sandra,

I just got done with hours

of Civil War documentaries. “Useless,

useless,” John Wilkes Booth said

of his hands as his final words. An echo

of Kurtz’s “horror.” The Civil War, it turns out,

set a standard for modern wars,

one century into another.

And as the Confederate commander

of Andersonville prison camp felt the noose

around his neck, he, too, said

he was merely obeying orders.

Armies said. The police said.

The doctor, triaging collaterals, said.

The historian, wanting us to be the greatest,

said. The Civil War is a pointer to

future liberation for all kinds of folk, a milestone

in which no clear victor emerges,

since time is the master to whom

even literature submits.

*

We have schools,

counties, forts, clinics,

and at one point a hospital

named after Jefferson

Davis in Texas.

We have nothing

named after you.

Will you excuse me,

Sandra, for naming a poem

an imaginary place that,

as with any home,

one doesn’t inhabit

all alone, even if

in a coffin one is

all that there is?

And one, not even,

and far more.

*

Which “we” is it I speak of? Those of us

who didn’t play a part in your disintegration know

that we play a part. Not all players even

the field. We’re a catalog that goes on like hypha.

If it is resuscitation I seek

through your citation

it isn’t resuscitation I seek. Your mother called you

Sandy and with countless others loved your smile

beyond my arithmetic of commemoration.

Sioux City, Tucson, Tuskegee, Seattle.

*

To persuade me that war is retribution

for unspeakable sins, a comeuppance, a bit

theological for me all this. But to think

of war as entropy’s work, order

and disorder in a waltz that sees

not the identities we historicize into chains

of absolute ghosts? How is it that

women (to mention one example) have always

suffered greater injustice, endured

more pain than men have,

what entropy is this

that singles out?

*

History has rendered this kind of math incalculable.

History manufactured out of and against our biology,

seduced as a dog is lured with a treat.

Between nuance and essentialization, I sing myself.

Between cost-benefit ratio and the unattainable

I see freedom in amendments I further amend.

Between my trauma and another’s passage,

speaking and the spoken for.

*

It’s clear you’re my pretext, Sandra, you were

an Aquarius (my dad’s as well). But do zodiacs exist

for birth into the underworld? If so, then on the date

your breath no longer tethered your body, you became

a Cancer, proliferative, this nation’s sign.

*

Under that sign, ten years before your murder,

I asked myself in Darfur, What is the threshold

for suffering to create us equal? It’s low

enough for anyone to dance the limbo

and stay on their feet the whole

song through, if we choose. I fear our twin

consciousness cannot hold. Our voodoo

and epigenetics, our quantum and wizards,

snakes and ladders. Yet my weakest faith

(when I remember it) is that I don’t visit

my grief upon those whose pain is more acute

than mine, or is chronic with more frequent flares.

Is there an equation to help me exempt

others from my loyalty oath to taxonomy,

a step in my deliverance from woe?

*

Nuance, too, competes with generality

for erasure, a visibility each mode can perform

well: where is that threshold?

So that prudent justice isn’t laundered

against the baler angels of our nature, Sandra,

I rise up from my apoptosis under

a cherry tree into an olive. What crimes

won’t I pardon or dissipate into energy

if suffering is folded in space-time?

Is our empathy’s nebula pacifist

or a ruse of the tongue sat in dentition?

I reckon the ten words in which Honest Abe

counted “the people” a trinity at Gettysburg

are what the Black Panthers heard.

*

Ms. Bland,

I also learned

that singularity

is achieved only

when one is torn

to irreconcilable

pieces, decomposed

six fathoms up,

down, lateral,

unflagged, indivisible,

undertow for all.

Ms Bland,

how much

of me is you

and you is we?

Sandra Bland, Texas

Sulla strada di casa la scorsa notte

mi sei riapparsa di fronte a dov’ero diretto,

allora dimmi, è stata

una sigaretta a far dare di matto il tuo carceriere?

(Avevano lasciato perdere quella volta che ho soffiato il fumo

in faccia a un soldato). Nel filmato

la tua ultima protesta. Siamo stati faccia a faccia

più di una volta, più di quanto il sesso

e il colore ci separassero, e perché

dovresti chiamare fratello un dottore. Sandra Bland,

ti abbiamo spezzato,

io dico il tuo nome, così spezzato. Sei morta

il giorno in cui il cartello di Hollywood

è stato inaugurato. Col tuo nome battezzo

questa città, e col nome di ogni donna

che la polizia ha ucciso, una città.

*

Cara Sandra,

vengo da ore di documentari

sulla Guerra civile. «Inutili,

inutili», John Wilkes Booth disse

delle sue mani come ultime parole. Un’eco

dell’«orrore» di Kurtz. La Guerra civile

ha definito lo standard per le guerre moderne,

un secolo dopo l’altro.

E mentre il comandante confederato

del campo di prigionia di Andersonville sentiva il cappio

attorno al collo, anche lui disse

che stava solo eseguendo gli ordini.

Gli eserciti dissero. La polizia disse.

Il dottore, diagnosticando garanzie, disse.

Lo storico sognando che siamo la più grande potenza

disse. La Guerra civile è un avviso

per la futura liberazione di ogni tipo di popolo, una pietra miliare

in cui non emerge un chiaro vincitore,

perché il tempo è il padrone a cui

anche la letteratura si sottomette.

*

Abbiamo scuole,

contee, basi militari, cliniche,

e a un certo punto un ospedale

che si chiama Jefferson

Davis in Texas.

Non abbiamo dato

il tuo nome a nulla.

Mi scuserai

per aver intitolato una poesia

a un luogo immaginario in cui,

come in qualunque altra casa,

uno non abita

tutto solo, anche se

in una bara uno è

tutto ciò che c’è?

E uno, neppure,

e uno, molto di più.

*

Di quale “noi” sto parlando? Quelli di noi

che non giocarono una parte nella tua disintegrazione sanno

che giochiamo una parte. Non siamo tutti giocatori ma anche

campo. Siamo un catalogo che si espande come un’ifa.

Se è la rianimazione che cerco

attraverso la tua citazione

non è la rianimazione che cerco. Tua madre ti ha chiamato

Sandy e con innumerevoli altri ha amato il tuo sorriso

al di là della mia matematica della commemorazione.

Sioux City, Tucson, Tuskegee, Seattle.

*

Persuadermi che la guerra sia retribuzione

per peccati ineffabili, un giusto castigo, un po’

teologico per me tutto questo. Ma pensare

della guerra come lavoro dell’entropia, ordine

e disordine in un valzer che non

vede le identità che storicizziamo in catene

di fantasmi assoluti? Com’è che

le donne (per dirne una) hanno

sofferto un’ingiustizia più grande, sopportato

più dolore degli uomini, che entropia è questa

che seleziona?

*

La storia ha reso questo tipo di matematica incalcolabile.

La storia fabbricata fuori da e contro la nostra biologia,

sedotta come un cane è attirato con un premio.

Tra sfumatura e semplificazione mi canto.

Tra il rapporto costi-benefici e l’irraggiungibile

vedo libertà in emendamenti che ulteriormente emendo.

Tra il mio trauma e il passaggio di un altro,

colui che parla e colui a nome del quale si parla.

*

È chiaro che sei il mio pretesto, Sandra, eri

un Aquario (come lo è mio padre), ma esistono gli zodiaci

per la nascita nell’aldilà? Se fosse così, allora nel giorno

in cui il tuo respiro non ha più legato insieme il tuo corpo, sei diventata

Cancro, proliferante, segno di questa nazione.

*

Sotto quel segno, dieci anni prima del tuo omicidio,

mi sono chiesto a Darfur, qual è la soglia

della sofferenza che ci fa uguali? È bassa

abbastanza per chiunque per ballare il limbo

e restare in piedi fino alla fine della

canzone se lo scegliamo. Temo che le nostre coscienze

gemelle non possano resistere. Il nostro voodoo

e l’epigenetica, il nostro quanto e i maghi,

gioco dell’oca. Eppure il mio dogma più debole

(quando me ne ricordo) è che non visito

il mio dolore presso coloro il cui dolore è più acuto

del mio, o è cronico con più frequenti fitte.

C’è un’equazione che mi aiuti a esentare

gli altri dal mio giuramento di lealtà alla tassonomia,

un passo in avanti nella mia liberazione dalla pena?

*

La sfumatura, pure, fa a gara con la genericità

per cancellare, una visibilità che entrambi i modi sanno performare

bene: dov’è quella soglia?

Perché la giustizia prudente non sia lavata e stirata

contro gli angeli-pressa della nostra natura, Sandra,

riemergo dalla mia apoptosi sotto

un ciliegio in un’oliva. Quali crimini

non condonerò o dissiperò in energia

se la sofferenza è ripiegata nello spazio-tempo?

È la nebulosa della nostra empatia pacifista

o uno stratagemma della lingua chiusa nei denti?

Immagino che le dieci parole con cui Honest Abe

contò «the people» in una trinità a Gettysburg

siano quello che le Black Panthers sentirono.

*

Ms. Bland,

ho anche imparato che l’eccezionalità si raggiunge solo

quando uno è lacerato

in pezzi irreconciliabili, decomposto

sei braccia verso l’alto,

verso il basso, di lato,

instancabile, indivisibile,

corrente di ritorno per tutti.

Ms. Bland,

quanto

di me sei tu

e tu sei noi?


Da Footnotes in the order of disappearance, 2018

Beanstalk

I was twelve when I asked my older brother about the clitoris. He told me it was a structure on the outside of a woman’s vagina that was the size of a chickpea. If you hold it between your fingers, he said, a woman instantly melts, and he made a soft gesture of rubbing his index finger and thumb together, as if he were dusting off flour after eating a piece of bread, or stroking the wing of a moth. He’d never seen one, I was sure of it, but I could sense he wasn’t lying. He’d felt one maybe in the stairwell of some building that wasn’t fully housed on the campus where we lived in Riyadh. He had a reputation for being a Don Juan, which got him in trouble with the local boys. But the size of a chickpea? When I went to medical school the dimension never left my mind. If his fingers were accurate, objective, not subject to the delirium of pleasure at fourteen, then there’s only one explanation: he must have encountered a girl with clitoromegaly. A cadaver had a large penis in our anatomy lab the first year of medical school. The tiniest woman in class, who went on to become a pathologist, could not get over the size of it. She kept saying, “Look at the size of it! How can that fit?” Two years earlier, while taking premed anatomy, when it was penis time, and the cloth was removed, I don’t know why I uttered these words under my breath: “So small yet so many troubles.” A classmate who was standing right behind me approached me after class to tell me she was moved by my remark. She had been a victim of rape. I was stunned. She wanted to talk. She told me she lived in a house in the middle of Nowhere Road, in Athens, Georgia.

Pianta di fagioli

Avevo dodici anni quando chiesi a mio fratello maggiore cos’era il clitoride. Mi disse che era una struttura all’esterno della vagina di una donna grande come un cece. Se lo tieni tra le dita, disse, una donna si scioglie all’istante, e delicatamente sfregò insieme l’ indice e il pollice, come se si stesse togliendo dalle mani la farina dopo aver mangiato un pezzo di pane, o accarezzando le ali di una falena. Lui non ne aveva mai visto uno, ne ero sicuro, ma capii che non stava mentendo. Ne aveva sfiorato uno forse nella tromba delle scale di qualche edificio sfitto nel campus dove vivevamo a Riyadh. Aveva la reputazione di essere un Don Giovanni, cosa che lo aveva messo nei guai con i ragazzi locali. Ma un cece? Mentre frequentavo la facoltà di medicina queste dimensioni non lasciarono mai la mia mente. Se le sue dita erano precise, obiettive, non soggette al delirio del piacere di un quattordicenne , allora c’era una sola spiegazione: aveva incontrato una ragazza con clitoromegalia. Il primo anno della facoltà di medicina, nel nostro laboratorio di anatomia c’era un cadavere con un pene molto grande. La donna più minuta della classe, che divenne poi una patologa, non riusciva ad accettarne la misura. Continuava a dire, «Guarda quant’è grande! Come fa a entrare?». Due anni prima, mentre seguivo anatomia in premed, quando arrivò il momento del pene, e fu rimosso il telo, non so perché dissi queste parole sottovoce: «Così piccolo eppure così tanti guai». Una compagna di classe che era dietro di me mi si avvicinò dopo lezione per dirmi che si era commossa per la mia osservazione. Era stata vittima di uno stupro. Rimasi sbalordito. Lei voleva parlare. Mi disse che viveva in una casa nel bel mezzo di Nowhere Road, a Athens, Georgia.

“Agarrate bien, que vienen curvas”. La katana di Gata Cattana contro la violenza sistemica

Introduzione e traduzioni dallo spagnolo a cura di Kamelia Sofia El Ghaddar, vincitrice della call for translators “Poesia e Violenza”.

“Una punky che cantava Flamenco ad Adamuz” La Gata, Ana Sforza, Ana tout court, sono solo alcuni degli appellativi di Gata Cattana, ciascuno a evidenziare una brillante sfaccettatura delle sue doti artistiche e della sua poliedrica personalità creativa. Poetessa, cantante, rapper, politologa e femminista andalusa, Ana Isabel Garcia Llorente nasce ad Adamuz, comune di circa 4500 abitanti a Cordoba, in Andalusia, nel giorno 11 maggio 1991.

Andalusista convinta, fa della sua breve, ma intensa produzione poetica e musicale uno strumento di critica feroce, sovversione e rivendicazione contro ogni tipo di violenza poiché l’oppressione sistemica che Gata Cattana subisce, come donna del Sud immersa in una realtà capitalista, antimeridionalista e etero-patriarcale, la costringe in una condizione subalterna. La poesia di Ana si fa attraversare da un’esperienza del mondo ed una conoscenza fortemente situate, veemente e carnale è il prodotto di una forte connessione con la terra di provenienza. Quella terra retrograda e sottosviluppata che è l’Andalusia agli occhi del Nord, che si manifesta nei testi della poetessa nel grande uso di variazioni linguistiche e di registro. Ana non ha paura di essere considerata una malhablá (malparlante), sfoggia con fierezza i suoni di una lingua che si discosta dal castigliano, ovvero lo spagnolo standard e scambia, smonta, accorcia, tronca, ribalta sillabe e parole come fa con la violenza dei pregiudizi nei confronti del Sud della Spagna e del mondo.

La passione che ribolle negli scritti di Ana, recitati in tanti luoghi pubblici, privati, politicamente connotati e non, è quella di una figura che sceglie di guardare l’ingiustizia negli occhi e combatterla con violenta grazia. Sono molti i riferimenti a figure femminili emblematiche della storia greca, romana, egizia. A partire dal passato e sempre orientata verso Sud, Ana si impegna a delineare una genealogia di donne dal carattere sovversivo e anticonformista rispetto ai costumi dell’epoca. Nonostante gli elementi che compongono l’immaginario della poetessa siano carne che si disfa, corpo, mani, terra, pane, sangue, dissanguarsi, l’intento politico dell’autrice è quello di trascendere i confini del verbo e del corpo per combattere l’universalità della violenza. Ana Sforza era il suo io più introspettivo, ma Gata Cattana, come afferma lei stessa, “è la guerra”. I riferimenti alla violenza sono molteplici, come quella incarnata da Salomè, l’energia erotica di Satine, Femme Fatale, come la bellicosità di Atena. La vita del capitalismo occidentale è la moderna schiavitù di “Como Amana Los Pobres”, dove i sogni sono frustrati dai padroni. Si tratta sempre di violenza, come nell’esclusione delle donne dallo spazio pubblico, nella sessualizzazione e nella colonizzazione operata nell’imperialismo che Ana vuole vedere crollare, dopo aver sparso sangue in “Teodora, Agripina, Satine, Medusa, Salomè”. La parola, la poesia che costringe ad investigare nell’Io e a condensare l’universo in poche righe sono (anch’esse) violente.

L’eredità che Ana Isabel ci lascia il 2 marzo 2017 a Madrid quando muore di shock anafilattico all’età di 26 anni è quella di un’agitatrice culturale, appassionata di mitologia greca il cui impegno contro la violenza patriarcale, razzista, capitalista è stato sferrato a colpi di rime a penna, la sua katana. Il messaggio imperituro di Gata Cattana nei tre album musicali autoprodotti di cui l’ultimo postumo, una raccolta di poesie autoprodotta La Escala de Mohs (2016) in seguito ripubblicata da Aguilar nel 2019, un’opera postuma No Vine a Ser Carne (2020) la rende eterna. Il carattere intertestuale dei testi di Ana accende la sua lotta contro la violenza ancora attiva. Ana Isabel non c’è più, ma Gata è qui con noi che siamo armate di Cattana.

Un ringraziamento di cuore ad Ana Llorente, madre dell’autrice e Mónica Adán, editrice per la fiducia e la disponibilità.


Da La Escala de Mohs (Aguilar, 2019)

CON LAS MANOS

No aman de igual forma
los ricos y los pobres.

Los pobres aman con las manos
Los pobres aman en la carne y con gula,
en las peores estampas,
en condiciones famélicas
y con todo en su contra.

Los pobres aman sin bonitos decorados.
Entienden de lunes y de tedios domingueros
y de gastos imprevistos de facturas
y de angustias que embisten, mes a mes, a quemarropa.

El amor de los pobres no sale por la ventana
aunque el dinero entre por la puerta
(que nunca entra)
(aunque no haya ventanas).

Los pobres han aprendido
a amarse a oscuras por eso mismo.
Han aprendido a amarse malalimentados,
malvestidos, malqueridos,
porque el hambre agudiza el ingenio
y en sus jardines también crecen las flores
(aunque no haya jardines).

Los pobres han aprendido a aprovechar los vis a vis
entre jornada y jornada de trabajo
(aunque no haya trabajo)
y saben darse placeres nunca tasados,
de valor incalculable,
y han aprendido a disfrutar las circunstancias
y la sopa de sobre,
el viejo colchón y la cuesta de enero.

Y parece que su amor se yergue
indestructible a pesar de;
a pesar de las miles de plagas,
de los sueños frustrados
y fracasos andantes,
de las crisis cíclicas
y de hambrunas
y de guerras,
más valiente que Heracles,
más Odiseo que Odiseo.
Y parece que su amor se extiende
y se multiplica
al ritmo que se multiplican los pobres,
al ritmo que se multiplican los infortunios
y los desastres naturales que golpean siempre
en las casas de los pobres.

Y ese amor está a la altura de Urano,
a la altura de Urano y de Gea juntos,
y es la única arma que tienen los pobres
para defenderse.

Por eso han aprendido a cultivar flores
y a cantar bien sus penas,
y han inventado las mejores obras
y los mejores instrumentos.
Por eso entienden de arte
y saben encontrarlo donde lo haya,
aunque no lo haya,
(que siempre lo hay).

Y han aprendido a aprovechar el carisma
y la jerga,
y a escribir poemas inmortales
sobre amores complicados,
y saben de cosquillas,
y saben de boleros,
y saben de desnudos
y de darlo todo,
que no es más que lo puesto:
las manos y la lengua,
la forma de otear al horizonte
y los cánticos en contra del patrón.

Yo siempre he amado de esta manera.

Yo te amo como aman los pobres,
y me temo
que durante mucho, mucho tiempo
esto seguirá siendo así.


CON LE MANI

Non amano allo stesso modo
i ricchi ed i poveri.

I poveri amano con le mani
I poveri amano nella carne e con ingordigia,
negli scenari peggiori,
in condizioni fameliche e con tutto contro.

I poveri amano senza bei fronzoli.
Ne sanno di lunedì e di accolli domenicali
Di spese improvvise di fatture
e di angoscia che si infrange, mese dopo mese, a bruciapelo.

L’amore dei poveri non esce dalla finestra
nonostante il denaro entri dalla porta
(che poi non entra mai)
(anche quando le finestre non ci sono).

I poveri hanno imparato
ad amarsi al buio proprio per questo.
Hanno imparato ad amarsi malnutriti,
malvestiti, mal amati,
poiché la fame acutizza l’ingegno
e anche nei loro giardini crescono i fiori
(anche quando i giardini non ci sono).

I poveri hanno imparato a sfruttare gli incontri di sfuggita
tra una giornata e l’altra di lavoro
(anche quando non c’è il lavoro)
E sanno darsi piaceri mai tassati,
dal valore incalcolabile,
e hanno imparato a godere delle circostanze
della zuppa avanzata,
il vecchio materasso e il rincaro a gennaio.

E pare che il loro amore si erga
indistruttibile nonostante;
nonostante le migliaia di piaghe,
i sogni frustrati
i continui fallimenti,
le crisi cicliche
le carestie
le guerre,
più coraggiosi di Eracle,
più Odisseo che Odisseo.

E pare che il loro amore si estenda
e si moltiplichi
nella misura in cui si moltiplicano i poveri,
Nella misura in cui si moltiplicano gli infortuni
ed i disastri naturali che colpiscono sempre
le case dei poveri.

E quell’amore è all’altezza di Urano,
all’altezza di Urano e Gea insieme,
ed è l’unica arma che i poveri abbiano
per difendersi.

Perciò hanno imparato a coltivare fiori,
e a canticchiare bene le proprie pene
e inventarono le migliori opere,
i migliori strumenti.
Perciò ne sanno di arte
e sanno scovarla ovunque sia,
anche quando non c’è
(che poi c’è sempre).

Ed hanno imparato a sfruttare il carisma,
il gergo,
scrivere poesie immortali
di amori complicati,
e ne sanno di solletico
e di canti popolari
di nudità
e di cedere tutto,
che non è niente più di ciò che hanno addosso:
le mani e la lingua,
il modo di scrutare l’orizzonte
ed i cori contro il padrone.

Io ho sempre amato così.

Io ti amo come amano i poveri,
e temo
che per molto, molto tempo
continuerò ad amarti così.


DESAPARICIONES

Escribo desapariciones
Me deshago
me deshilacho por todas
las extremidades.

Me desprendo de la carne,
me miro de lejos,
me desato de la gravitas
y sacrifico la lengua y la voz,
el olfato;
me mato el nervio.

Sólo es una forma de descoserse,
de desencontrarse,
de desangrarse.
Tal vez la mejor forma de desangrarse,
pero no más.
Fue un desastre aprenderlo,
un des-lastre.

¡Qué desilusión! ¡Qué desidia!
¡Qué desamparo absoluto!

Si yo sólo gobernaba la palabra;
si mi templo, la palabra,
y más epístolas que San Pablo,
si yo purita oratoria y huesos,
si sólo discurso y polémica,
y de tanta retórica
y tanta dialéctica se volvió inocua,
perdió el sentido y el significado,
y yo misma asistí a su entierro
sin sentirme una pizca culpable.

Entre todos la matamos
y ella sola se murió.

Sólo se escribe lo que no está,
lo que ya no queda,
lo que es necesario apuntar
porque se olvida.

Yo solía utilizarla para inventar rutas y puertos,
de mensajes en botellas de ornamento y armamento,
de batallas y manuscritos para mis nietos.

Ahora sólo me deshago.
Escribo desapariciones.
La utilizo como si fuera Krökodil.
Me utiliza, me disuelve,
me desvincula,
pero sólo es un remedio paliativo,
como la religión.

Lamentablemente,
sólo es otra forma de descoserse,
de desangrarse.
Tal vez la mejor.


SCOMPARSE

Scrivo scomparse
Mi disfo
Mi sfilaccio da ogni
Estremità

Mi disfo della carne
Mi guardo da lontano
Mi sgancio dalla gravità
E sacrifico lingua e voce,
l’olfatto
mi ammazzo il nervo.

È solo un modo di scucirsi,
Disconoscersi,
dissanguarsi.
Forse il modo
Migliore di dissanguarsi
Ma nulla più.
Capirlo fu un disastro
Sgretolarsi un peso di dosso.

Che disillusione! Che disincanto!
Che disperazione assoluta!

(Ed) io che dominavo solo la parola,
il mio tempio, la parola,
e più lettere che San Paolo
io che ero solo pura orazione
e ossa
che ero solo discorso e polemica
a causa di tanta retorica
e tanta dialettica diventò innocua
perse il senso e il significato
e io stessa assistetti alla sua sepoltura
senza sentirmi un briciolo colpevole.

Insieme la ammazzammo
Lei sola morì

Si scrive solo di ciò che non c’è
Ciò che non rimane,
ciò che è necessario segnare
perché si dimentica.

Io la usavo di solito per inventare percorsi e porti
Messaggi in bottiglia di ornamento e armamento,
di battaglie e manoscritti per i miei nipoti.

Ora solo mi dissolvo
Scrivo scomparse
La uso come se fosse Krokodil,
Mi usa, mi dissolve
Mi svincola,
ma è solo un rimedio palliativo
come la religione

Sfortunatamente
È solo un modo come un altro di scucirsi,
di dissanguarsi.
Forse il migliore.


TEODORA, AGRIPPINA, SATINE, MEDUSA, SALOME

Yo hubiera sido la puta suprema,
la Satine,
la Agripina,
nunca Penélope, esa no.
Yo no mato bajito
ni tengo tanta paciencia.
No me quedo esperando.
Yo hubiera sido Teodora de Bizancio,
Olimpia de Epiro, la madre de Alejandro,
la neurótica, la loca Juana
y la violenta Salomé.
Hubiera corrido la sangre, carajo,
habrían caído los imperios.
Que se joda Agamenón.
Que se calle el César cuando hable Cleopatra,
igual que calla Tutmosis cuando habla Hatshepsut;
la primera de las nobles damas,
la faraona de las dos tierras
por designios de Amor.
Yo hubiera sido Evita,
no por la sonrisa abierta y diplomática,
no por la apariencia sofisticada y elegante,
sino por el pico de oro, la estrategia,
la estrategia Robin Hood y espontánea.
Yo hubiera sido Atenea,
por los ojos garzos
y la prepotencia;
por la beligerancia.

TEODORA, AGRIPPINA, SATINE, MEDUSA, SALOME

Io sarei stata la puttana suprema,
Satine,
Agrippina,
Penelope mai, quella no.
Io non mi muovo nell’ombra
E non ho quella pazienza.
Non rimango ad aspettare.
Io sarei stata Teodora di Bisanzio
Olimpia di Epiro, la madre di Alessandro
La nevrotica, Giovanna La Pazza,
la violenta Salomè.
Avrei versato sangue, diamine
Sarebbero crollati gli imperi.
Che si fotta Agamennone.
Che stia zitto Cesare quando parla Cleopatra
Come tace Tutmosis quando parla Hatsheput
La prima delle nobildonne
La faraona delle due terre
Per volere di Amore.
Io sarei stata Evita,
non per il sorriso aperto e diplomatico,
né per il portamento sofisticato ed elegante,
bensì per la lingua di velluto, la strategia
la strategia spontanea alla Robin Hood.
Io sarei stata Atena,
per gli occhi celesti
e la prepotenza;
per la belligeranza.


ENGAÑO

Podría bañarte ahora mismo
De palabras pantanosas y cínicas
Y conducirte a mi tela de araña,
pasito a pasito, haciendo que
disfrutes del cebo y que relamas
el jugo que rezuma
la herida
que ha de matarte.


INGANNO

Potrei cospargerti proprio ora
Di parole paludose e ciniche
E attirarti nella mia ragnatela
Passo dopo passo, lasciando che
ti goda l’esca, che assapori
Il nettare espulso
Dalla ferita
Che ti sarà mortale.

Copertina de La Escala de Mohs di Gata Cattana (Aguilar, 2019)
La Escala de Mohs di Gata Cattana (Aguilar, 2019)

Le radici della violenza sulla punta della lingua: Eva Maria Leuenberger

Introduzione e traduzioni dal tedesco a cura di Dafne Graziano, vincitrice della call for translators “Poesia e Violenza”.

Eva Maria Leuenberger (1991) è nata a Berna e attualmente vive a Bienne. È stata finalista al concorso «open mike» di Berlino nelle edizioni 2014 e 2017 e vincitrice del premio «Weiterschreiben» della città di Berna nel 2016. Nel 2019 ha pubblicato per la casa editrice Droschl dekarnation, la sua prima raccolta di poesie, che le è valso, tra i vari premi, il «Basler Lyrikpreis». Nel 2021 è uscita, sempre per Droschl, la sua seconda raccolta, kyung.

Ciò che colpisce dei versi di Leuenberger è l’uso di una lingua scarna e al contempo vivida, che attinge all’essenza della parola per scandagliare la realtà e rivelarne l’essenza più autentica, anche tramite la scelta di temi non convenzionali. Nonostante kyung sia solamente il secondo lavoro della poeta, nella raccolta si nota già uno stile ben definito, che viene qui portato a un ipotetico punto di non ritorno rispetto all’opera precedente. Infatti, se in dekarnation l’autrice mette in luce la brutalità di una natura personificata e senza bellezza, il cui corpo simbolico viene progressivamente scarnificato e ricondotto a una forma primordiale tramite il bisturi della lingua, in kyung la dissezione della parola opera su un corpo umano, quello dell’artista e scrittrice Theresa Hak Kyung Cha, violentata e uccisa a New York negli anni Ottanta a pochi giorni dalla pubblicazione del suo primo e unico romanzo, Dictée (1982). Ripartendo dall’attimo in cui si consuma la tragedia, Leuenberger recupera i capi di quel filo spezzato prematuramente, mettendo in luce «la chiarezza della violenza» e rievocando nei suoi versi «una voce morta da anni» attraverso immagini ricorrenti nella poesia di Leuenberger e già consolidate dall’uso (corpi che cadono a terra, mani attorno al collo, ali che spuntano dalle scapole) che le conferiscono un’atmosfera a tratti onirica e perturbante. In sottofondo, va e viene l’eco dei brani tratti da Dictée, opera multilingue e innovativa con cui l’autrice traccia un toccante parallelismo.

Definita dalla Berliner Zeitung «(una voce) unica nel suo genere», quella di Leuenberger è a tutti gli effetti una poesia non convenzionale, che, se anche non si illude di poter cancellare la violenza che pervade la realtà, sceglie però di metterla a nudo, di sezionarne i vari strati, fino a estrarne il cuore pulsante. Con la stessa precisione chirurgica, i suoi versi si incidono nella mente di chi legge e lasciano ferite destinate a cicatrizzarsi senza mai scomparire del tutto.


Da kyung (Droschl, 2021)

die stimme

stößt löcher in die zeit

die grenzen verwischen

die pronomen verwischen

gesichter in der nacht

die toten körper im parkhaus

            eine frau verschwindet

            in den pixeln eines bildschirmes

als wäre die zeit

ein klarer fluss

            der rückwärts fliesst

als wäre die zeit

als wäre der schnee

als wüsste der körper

die eigene zukunft


la voce

pianta buchi nel tempo

spariscono i confini

spariscono i pronomi

volti nella notte

i corpi morti nel parcheggio

            una donna scompare

            nei pixel di uno schermo

come se il tempo fosse

un fiume limpido

            che scorre all’indietro

come se il tempo fosse

come se la neve fosse

come se il corpo conoscesse il proprio futuro


hier ist dein körper – dein pfund aus fleisch

                               my love, regarde-moi –

du beneidest die klarheit der gewalt.

here it is. der tiefste punkt der nacht.

du beneidest den klaren grund,

die wurzel, aus der den tod in den bauch wächst

klarheit und kasualität.

es tut dir leid.

es tut mir leid.

                        die haut

                                       sehnt sich nach feuer


ecco il tuo corpo – la tua libbra di carne

                               my love, regarde-moi –

invidi la chiarezza della violenza.

here it is. il punto più profondo della notte.

invidi il motivo chiaro,

la radice da cui nel tuo ventre cresci la morte

chiarezza e casualità.

ti dispiace.

mi dispiace.

                         la pelle

                                        si strugge

                                     di desiderio per il fuoco


die frau beobachtet ihren körper

das publikum schaut sie an

während ihr körper

sich öffnet, zu etwas altem, oder neuem

                                   interdiffusion der zeit

du beobachtest das publikum

beobachtest das publikum, das dich anschaut

während dein körper sich öffnet

aus dem schultern wachsen flügel

im mund klingt ein neuer ton

eine parade aus schönen toten mädchen

mit glocken im mund

klingelnd wie farrähder

die füße zerschnitten

aus den knöcheln

wachsen räder

und die flügel

aus den schulterblattern


la donna osserva il proprio corpo

il pubblico la guarda

mentre il suo corpo

si apre, a qualcosa di vecchio, o di nuovo

                        interdiffusione del tempo

osservi il pubblico

osservi il pubblico che ti guarda

mentre il tuo corpo si apre

dalle spalle spuntano ali

in bocca un suono nuovo

una parata di belle ragazze morte

con campane in bocca

suonano come biciclette

i piedi tagliuzzati

dalle caviglie

spuntano ruote

e le ali

dalle scapole


theresa hak kyung cha hatte schwarze haare.

meine haare sind rot.

ich suche einen körper

und finde ihn unter einer decke

aus schwarzem haar

er ist spröde

bricht wie die zweige im unterholz

splittert unter dem gewicht einer hand

eine hand

rau wie rinde

ich suche einen körper

und sehe die hände um den hals

die haare auf dem asphalt

blaugelb

purpur

und schwarz

deine haare

               sind schwarz


theresa hak kyung cha aveva i capelli neri.

i miei sono rossi.

cerco un corpo

e lo trovo sotto una coperta

di capelli neri

è fragile

si spezza come i rami nel sottobosco

si frantuma sotto il peso di una mano

una mano

ruvida come corteccia

cerco un corpo

e vedo le mani attorno al collo

i capelli sull’asfalto

giallo-blu

porpora

e nero

i tuoi capelli

                 sono neri


die gesichter legen sich übereinander

ein vielzahl von körpern

schaut hinter ihren augen hervor

und dort ist die neue zeit

die glocken klingeln

die zahnrähder drehen

ein körper fällt

am boden eines parkhauses

schwebend

mit beiden füβen fest in der erde

luft 

oder wort


i volti si sovrappongono gli uni sugli altri

una moltitudine di corpi

sbuca da dietro i loro occhi

e là c’è il tempo nuovo

le campane suonano

gli ingranaggi girano

un corpo cade

a terra in un parcheggio

mentre fluttua

con entrambi i piedi saldi a terra

aria

o parola


die haare einer frau    sind rot

                                               oder schwarz

eine frau                     ist ein schwarzes loch

eine leerstelle             gefüllt mit rotem haar

die haare sind rot

            flimmernd im nebel

                                   ohne haut und körper


i capelli di una donna   sono rossi

                                                   o neri

una donna                   è un buco nero

uno spazio vuoto        farcito di capelli rossi

i capelli sono rossi

            tremolanti nella nebbia

                            senza pelle né corpo

Copertina di Kyung di Eva Maria Leuenberger

“Si ergono (…) devastati i figli dell’amore”. La salvezza non è la destinazione: amore e distruzione nelle poesie di Marina Maggi

Introduzione e traduzioni dallo spagnolo a cura di Virginia Ciampi.

Quindi presa la fanciulla per mano, le disse: «Talitha cumi»; che tradotto vuol dire: «Fanciulla, ti dico: Alzati!». – Marco 5:4

«Talitha cumi», il verso biblico all’inizio di Toda belleza amante que colapsa di Marina Maggi, è una duplice esortazione. Per l’autrice significa, prima di tutto, risorgere da una peste fatale: l’amore. Dall’amore ci si cura amando: il verso ordina anche di amare ancora.

Nel racconto biblico si compie un miracolo, la fanciulla si alza e cammina. Nell’opera ciò non avviene, ma il miracolo si compie lo stesso, non portando, tuttavia, alla salvezza. Seguendo questa interpretazione, i titoli delle tre sezioni appaiono significativi; La nausea del presagio, Salvezza e Il peso del miracolo raccontano il percorso che la febbre d’amore traccia, ovvero quello suggerito dalla citazione di Dylan Thomas nella prima parte: From love´s first fever to her plague… . In questo percorso ciò che importa non è la salvezza: questa è qualcosa che si attraversa, non la destinazione definitiva. Così, la salvezza è l’amore e insieme la distruzione che esso comporta:

il sogno
chino su di sé, perfetto
nella sua menzogna inconfutabile
è un pozzo
dove sentir morire il palpito sacro
con tutta la salvezza della luce
dove affondare nell’ora della gioia.

Il sogno è ciò che conta, e non viene contemplata una esistenza senza amore: vi si preferisce l’annullamento dell’esistenza, l’amare senza esistere. E Marina sembrerebbe essere cosciente di ciò da sempre: ha una voce amorosa potente, che si rifà alla poesia di Lorca, di Dylan Thomas e, infine, alla tradizione biblica, ed ha come risultato una lirica mistica, tragica ma estremamente sensuale.

La sensualità è data anche dai riferimenti naturali, evocativi e alcune volte particolari della natura argentina, come il jacaranda di Noviembre II, gli alami del Salmo descarriado. La natura dei sensi è centrale: si parla spesso di fiori, di usignoli feriti, spezzati, di vento, acqua, fuoco, luce e, soprattutto, sangue. Il sangue scorre dalle vene tagliate ed è il sintomo di una malattia, la peste amorosa, che devasta chi ne è affetto. È un elemento molto utilizzato nella seconda sezione dell’opera, in cui avviene la morte del malato, ovvero dell’innamorato: è anche il simbolo del sacrificio di chi ama; la salvezza è morte che porta al sacro. Nella terza sezione il miracolo non porta alla resurrezione o alla creazione di qualcosa, ma alla redenzione, completa affermazione della sacralità. Il peso del miracolo è il sacrificio che genera il sacro.

La sacralità avvolge chi è stato ucciso o devastato dall’amore e anche la gioventù, perché l’amore provato in gioventù è l’unico in grado di uccidere l’innamorato, di incidere la storia di ognuno (la citazione di Dylan Thomas all’inizio della seconda sezione del libro è: Who kills my history?). La gioventù, dunque, è sacra in virtù della sua fragilità e della potenza delle sue pulsioni ed emozioni, ma anche per la sua finitezza e per la sua condizione effimera. Come il sogno, essa è febbre, alterazione e delirio e determina la nostra esistenza. Ci muoviamo, nei momenti cruciali e più autentici della nostra vita, in uno stato di disperazione che, allo stesso tempo, riesce a farci librare sopra tutto e a toccare altezze impensabili, come scrive l’autrice in Febbre:

Potete vedere che mi immergo,
felice, sotto le acque,
mentre sento che cammino sopra di esse.

Il miracolo della nostra distruzione si compie. È l’amore che ci fa morire, ma è l’amore che conta. Marina esprime ciò con una lingua immaginifica, incisiva e mai banale, che ricorda la potenza dei versi biblici ma fluisce con leggerezza.


Noviembre II

Ya ves, jacarandá, la misa la dio el viento.
Es como si enterrase para siempre la risa,
no sé a dónde volver para encontrar mi sangre.

En lo perdido hallo, inexistente y fijo,
bellísimo tu rostro, como un puñal de sueño:
qué poderosa es la memoria de la carne.

Noviembre sin amor noviembre para nadie,
cayendo sin derrumbe, eterna colapsada
ácida, amanecida, enferma de paciencia;

el cáncer de la espera, perro negro sin alba,
y yo nombrando el aire, colmada de limosnas,
cándida en el ocaso, oscura mariposa,
cadáver incendiado que resucita y canta.

Novembre II

Vedi, jacaranda, la messa l’ha detta il vento.
È come se sotterrasse per sempre il riso,
non so dove tornare per trovare il mio sangue.

Nelle cose perdute scopro, inesistente e fisso,
bellissimo il tuo volto, come un pugnale di sogno:
ché potente è la memoria della carne.

Novembre senza amore novembre per nessuno,
che io cado senza dirupo, eterna collassata
acida, insonne, ammalata di pazienza;

il cancro dell’attesa, cane nero senza alba,
ed io che nomino l’aria, colma di elemosine,
candida nel tramonto, oscura farfalla,
cadavere incendiato che resuscita e canta.

Salmo descarriado

Atraviesan
desnudos en su visión
los campos arruinados.
Descalzos, desalados,
salvados para siempre
del golpe imperdonable de la juventud.

El sueño
inclinado sobre sí, perfecto
en su mentira irrefutable
es un pozo
donde sentir morir el pálpito sagrado
con todo lo salvaje de la luz
hundiéndose en la hora de la dicha.

Se yerguen
como álamos ausentes calcinados
los estragados hijos del amor

Salmo dannato

Attraversano
nudi nella loro visione
i campi in rovina.

scalzi, smaniosi
salvi per sempre
dal golpe imperdonabile della gioventù

il sogno
chino su di sé, perfetto
nella sua menzogna inconfutabile
è un pozzo
dove sentir morire il palpito sacro
con tutta la salvezza della luce
dove affondare nell’ora della gioia

Si ergono
come alami assenti bruciati
devastati i figli dell’amore.

Fiebre

Pueden ver que me hundo
feliz, bajo las aguas,
sintiendo que camino sobre ellas

Febbre

Potete vedere che mi immergo,
felice, sotto le acque,
mentre sento che cammino sopra di esse.

Nostalgia del retorno

Cuando te vayas
se abrirán los párpados de la sangre y el agua,
se precipitará el pulso hasta quebrar el alba
y los huesos desnudos florecerán sin miedo.

Cuando te vayas
vendrá mi cruel infancia a torturar los muertos,
las heridas sedientas delirarán su fuego
y Eva será mordida por ingenuas manzanas.

Cuando te vayas
volverán los aniquiladores secretos,
las estatuas de viento bailarán con tu ausencia
hasta marearla.

Cuando te vayas
el corazón tomado por el cáncer del verbo
hará versos hambrientos,
rimas sucias y heladas.

Cuando te vayas
mendigaré veneno
para no tener que ver volver la primavera,
y soñaré suicidios de alturas colapsadas.

Sé qué sucederá cuando te vayas
porque partiste ya, lejos:
yo fui la que robó la costilla del tiempo
para que regresaras.

Nostalgia del ritorno

Quando te ne andrai,
si apriranno le palpebre del sangue e dell’acqua,
si precipiterà il battito fino a spaccare l’alba,
e le ossa nude fioriranno senza paura.

Quando te ne andrai,
verrà la mia crudele infanzia a torturare i morti,
le ferite assetate delireranno il loro fuoco,
ed Eva sarà morsa da mele ingenue.

Quando te ne andrai
torneranno i segreti distruttori,
le statue del vento balleranno con la tua assenza
fino a nausearla.

Quando te ne andrai
Il cuore preso dal cancro del verbo
scriverà versi famelici,
rime sporche e gelate.

Quando te ne andrai
mendicherò veleno
per non dover vedere tornare la primavera,
e sognerò suicidi da altezze collassate.

So cosa succederà quando te ne andrai,
perché sei già partito, lontano;
sono stata quella che ha rubato la costola del tempo
perché tornassi.

Toda belleza amante que colapsa

El cauce desangrado de la luz
soñó la adolescencia de tu nombre.
Tu ausencia iba clamando ya en los ojos
la golondrina herida de mi sangre.

Y si tuve otra edad,
aquélla fue tu infancia;
tu infancia, un claroscuro que en mi boca
se presagiaba flor apabullante.

Fui fantasma extasiado bajo el cielo perenne
y galería exacta y puñal desterrado
y eterna duermevela de los labios errantes.

Noches de estío azul, sin pronunciarme ángel
le prometí a mi muerte la sombra de tus manos.
El aliento esculpí del viento nacarado,
forjé tu forma indemne desgarrándome el aire.

Verano nuestro, pájaro por siempre herido,
sobrevolá lo inútil del aliento saciado;
vienen hasta nosotros los días implorantes,
los últimos espasmos de juventud sagrada.

Tutta la bellezza amante che collassa

Il canale dissanguato della luce
sognò l’adolescenza del tuo nome.
La tua assenza già richiamava negli occhi
la rondine ferita del mio sangue.

E se mai ho avuto un’altra età,
quella fu la tua infanzia;
la tua infanzia, un chiaroscuro che nella mia bocca
si presagiva fiore travolgente.

Fui fantasma estasiato sotto il cielo perenne
e galleria esatta e pugnale bandito
ed eterno dormiveglia delle labbra erranti.

Notti di azzurra estate, senza annunciarmi angelo
promisi alla mia morte l’ombra delle tue mani.
Il respiro scolpì dal vento perlaceo,
forgiò la tua forma indenne strappandomi l’aria.

Nostra estate, usignolo ferito per sempre,
sorvola l’inutilità dell’alito sazio;
si avvicinano a noi i giorni imploranti,
gli ultimi spasmi della gioventù sacra.

Rasoterra nella realtà e nella lingua: alcune poesie di Mosab Abu Toha

Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Camilla Marchisotti

Ci si accorge subito, leggendo Mosab Abu Toha, che le cose nelle sue poesie sono davvero cose: gli alberi sono davvero alberi, non token bucolici su cui proiettare significati altri; le case sono davvero case e i bambini davvero bambini, non personaggi o simboli dell’infanzia; le bombe, soprattutto, sono davvero bombe, non metafore. Che nel suo Things you may find hidden in my ear (City Lights, 2022) le cose siano proprio così come appaiono non è il segno di un’ingenuità poetica da libro d’esordio, ma una scelta formale ben precisa, una modalità di enunciazione e posizionamento che è la regola aurea e terribile della sua scrittura. Dico terribile, perché dal punto della mappa in cui l’autore si colloca e scrive, e cioè da quella Gaza in cui è nato, i bambini sono spesso morti, feriti o menomati (come in “Seven fingers” o “We deserve a better death”); le case sventrate e il paesaggio deformato dalle bombe, dagli aerei, dai droni, dai proiettili e dalle schegge di granata che, realissimi, coprono e gareggiano con il rumore di vento, alberi e uccelli. L’una e l’altra dimensione, naturale e guerresca, convivono nel vocabolario poetico di Abu Toha e nel soundscape del suo cielo palestinese, fino a confondersi e sovrapporsi con effetti a volte stranianti. Tenere insieme questi elementi apparentemente inconciliabili è quello che fa tutti i giorni l’irreale realtà di Gaza, e che di conseguenza deve fare il poeta sulla pagina. Così, Mosab è l’occhio che ha visto e che vede; il corpo che ha patito e la memoria che registra, elenca le date dei massacri e i nomi delle vittime, ricordando anche per gli altri, come per i nonni morti con la speranza di poter tornare un giorno a Yaffa nella casa abbandonata a forza nel 1948, di cui si racconta in “My grandfather and home”. Mosab è anche l’orecchio che ha sentito e che sente: fortissima la dimensione sonora, una sorta di aurality da guerra permanente che infatti ritorna anche nel titolo del libro e nel componimento omonimo (“Things you may find hidden in my ear”); così come frequente, tra gli oggetti, è la radio. Questa attenzione al reale non vuol dire che al libro manchi una dimensione immaginifica, onirica o surreale, anzi (si vedano per esempio, qui, “The wall and the clock” e “Notebooks”); o che non ci si permetta, a volte, di allargarsi o salire liricamente (in “A litany for “one land””), ma è sempre un dire che evita i rischi della retorica, della pornografia del dolore e della banalizzazione.

Ed è tanto più sorprendente, questa capacità di stare rasoterra nella realtà e nella lingua, se si pensa che il poeta sceglie, per le sue poesie, non l’arabo (madrelingua spesso definita “sick”, malata come il popolo che la parla), ma l’inglese, a cui mancano le lettere necessarie per pronunciare correttamente il suo nome (come ci viene spiegato in “Mosab”), e che marca anche linguisticamente una situazione fisica, una condition ormai cronicizzata di displacement (uno dei numi tutelari del libro è Edward Said, a cui è dedicata “Displaced”). Mosab Abu Toha si è laureato in lingua e letteratura inglese, ha insegnato inglese nelle scuole della UNRWA (United Nations Relief and Works Agency) dal 2016 al 2019, ha studiato in America come visiting fellow e visiting librarian, ha fondato la Edward Said Library, la prima biblioteca di lingua inglese a Gaza. Questa lingua seconda gli permette di trovare e di tenere, lungo tutti i testi, la corretta misura enunciativa. Si tratta di una lingua su cui il poeta spesso ragiona mentre scrive, ma le riflessioni metaletterarie nel libro sono estranee alla freddezza dell’esercizio di stile: anche le parole sono cose, e le poesie mattoni con cui si costruiscono le case; soltanto con la penna in mano si è umani e non spettri.


Da Things you may find hidden in my year (2022)

My grandfather and home

i
my grandfather used to count the days for return with his fingers
he then used stones to count
not enough
he used the clouds birds people

absence turned out to be too long
thirty-six years until he died
for us now it is over seventy years

my grandpa lost his memory
he forgot the numbers the people
he forgot home

ii
i wish i were with you grandpa
i would have taught myself to write you
poems volumes of them and paint our home for you
i would have sewn you from soil
a garment decorated with plants
and trees you had grown
i would have made you
perfume from the oranges
and soap from the skys tears of joy
couldnt think of something purer

iii
i go to the cemetery every day
i look for your grave but in vain
are they sure they buried you
or did you turn into a tree
or perhaps you flew with a bird to the nowhere

iv
i place your photo in an earthenware pot
i water it every monday and thursday at sunset
i was told you used to fast those days
on ramadan i water it every day
for thirty days
or less or more

v
how big do you want our home to be
i can continue to write poems until you are satisfied
if you wish i can annex a neighboring planet or two

vi
for this home i shall not draw boundaries
no punctuation marks

Mio nonno e casa

i
mio nonno contava i giorni del ritorno con le dita
poi usò le pietre per contare
non bastava
usò le nuvole uccelli persone

l’assenza si rivelò troppo lunga
trentasei anni finché non morì
ora per noi oltre settanta

mio nonno perse la memoria
dimenticò i numeri le persone
dimenticò casa

ii
nonno vorrei essere con te
avrei insegnato a me stesso come scriverti
poesie interi volumi e avrei dipinto casa nostra per te
ti avrei cucito dalla terra
un vestito decorato con piante
e alberi che avevi fatto crescere
ti avrei confezionato
profumo dalle arance
e sapone dalle lacrime di gioia dei cieli
impossibile pensare a qualcosa di più puro

iii
vado al cimitero ogni giorno
cerco invano la tua tomba
sono sicuri di averti seppellito
o sei diventato un albero
o forse sei volato via con un uccello verso il nulla

iv
metto la tua foto in un vaso di terracotta
la innaffio ogni lunedì e giovedì al tramonto
mi hanno detto che in quei giorni digiunavi
durante il ramadan la innaffio ogni giorno
per trenta giorni
o di meno o di più

v
quanto la vuoi grande questa nostra casa
posso continuare a scrivere poesie finché non sarai soddisfatto
se vuoi posso aggiungere uno o due pianeti vicini

vi
per questa casa non traccerò confini
nessun segno di punteggiatura

The wall and the clock

There is always that clock on the wall.
Every time I step into my room, I feel
curious, want to take it down, see
what’s behind its face.
I want to see how old it has become.
My father bought it when I was a child.
I want to count its teeth
to know its age.

But the clock doesn’t get old.
The numbers never change,
Only I do.

And then there’s the rocking chair,
and I am sitting in it, just me
in the room, rocking back and forth
doing nothing but
imagining the wall shouting to the clock,
“Stop ticking! You’re hurting my ears.”

I look at the cracks in the paint on the wall.
It’s more than just the sound of the clock.
Shrapnel holes stare at me
whenever I enter the room.

(The clock wasn’t harmed in that attack.)

I hurry to pull the batteries out of the clock.
I whisper to it:
I’ll take you to the doctor,
even though it’s not only you who’s sick.

The paint stops peeling.
I take the clock to the clockmaker,
ask him to make it soundless.
He removes the clock’s vocal cords,
patches its mouth shut.
I didn’t see the teeth,
didn’t ask the doctor.

At home, I put the batteries back.
The clock works silently.
It adds to the silence in the room.

I settle back into my chair, read some poems aloud
to break off the threads of silence that dangle
from the ceiling.

A cold night breeze seeps through the holes in the wall.
I tear out some pages I’ve finished reading,
stuff them into the small, shapeless non-closable windows.

I am two hours late for work the next day.

The clock wasn’t set right after its “treatment”.
Surely it would’ve alerted me
if it were capable of speech.

Number 4 falls from the clock’s face
when I try to adjust the time.

As if a front tooth has fallen out.

Four days later,
my brother Hudayfah
passes away.

L’orologio e il muro

C’è sempre quell’orologio sul muro.
Ogni volta che entro in camera, mi
incuriosisco, vorrei tirarlo giù, vedere
cos’ha dietro alla faccia.
Voglio vedere com’è invecchiato.
Mio padre l’ha comprato che io ero un bambino.
Voglio contargli i denti
conoscere i suoi anni.

Ma l’orologio non invecchia.
I numeri non cambiano.
Soltanto io.

E poi c’è la sedia a dondolo,
e io sono seduto qui, soltanto io
nella stanza, dondolo avanti e indietro
non faccio nulla, se non immaginare
il muro che grida all’orologio,
“Smettila di ticchettare! Mi fai male alle orecchie”.

Guardo le crepe nell’intonaco sul muro.
Non è solo il suono dell’orologio.
Buchi di granata mi fissano
ogni volta che entro in camera.

(L’orologio non è rimasto ferito in quell’attacco.)

Veloce, tiro fuori le pile dall’orologio.
Gli sussurro:
ti porto dal dottore,
anche se non sei solo tu a essere malato.

L’intonaco smette di creparsi.
Porto l’orologio dall’orologiaio
gli chiedo di renderlo silenzioso.
Rimuove le corde vocali all’orologio,
gli chiude la bocca.
Non ho visto i denti,
non ho chiesto al dottore.

A casa, rimetto dentro le pile.
L’orologio funziona in silenzio.
Che si aggiunge al silenzio della stanza.

Torno alla mia sedia, leggo poesie ad alta voce
per rompere i fili di silenzio che pendono
dal soffitto.

Una brezza serale e fredda filtra dai buchi sul muro.
Strappo delle pagine già lette,
le infilo in quelle piccole finestre senza forma, impossibili da chiudere.

Il giorno dopo vado a lavoro con due ore di ritardo.

L’orologio non era stato riprogrammato bene dopo la “cura”.
Sicuramente mi avrebbe avvertito
se avesse potuto parlare.

Il numero 4 cade dalla faccia dell’orologio,
quando provo ad aggiustare il tempo.

Come se gli fosse caduto un incisivo.

Quattro giorni dopo,
mio fratello Hudayfah
muore.

A litany for “one land”

After Audre Lorde

For those living on the other side,
we can see you, we can see the rain
when it pours down on your (our) fields, on your (our) valleys,
and when it slides down the roofs of your “modern” houses
(built atop our homes).

Can you take off your sunglasses and look at us here,
see how the rain has flooded our streets,
how the children’s umbrellas have been pierced
by a prickly downpour on their way to school?

The trees you see have been watered with our tears.
They bear no fruit.
The red roses take their color from our blood.
They smell of death.

The river that separates us from you is just
a mirage you created when you expelled us.

IT IS ONE LAND!

For those who are standing on the other side
shooting at us, spitting on us,
how long can you stand there, fenced by hate?
Are you going to keep your black glasses on until
you’re unable to put them down?

Soon, we won’t be here for you to watch.
It won’t matter if you blink your eyes or not,
if you can stand or not.
You won’t cross that river
to take more lands,
because you will vanish into your mirage.
You can’t build a new colony on our graves.

And when we die,
our bones will continue to grow,
to reach and intertwine with the roots of the olive
and the orange trees, to bathe in the sweet Yaffa sea.
One day, we will be born again when you’re not there.
Because this land knows us. She is our mother.
When we die, we’re just resting in her womb
until the darkness is cleared.

For those who are not here anymore,
We have been here forever.
We have been speaking but you
never cared to listen.

Litania per “un’unica terra”

Come Audre Lorde

Per quelli che vivono dall’altra parte,
possiamo vedervi, possiamo vedere la pioggia
quando cade sui vostri (nostri) campi, sulle vostre (nostre) valli,
quando scivola lungo i tetti dei vostri edifici “moderni”
(costruiti sulle nostre case).

Potreste togliervi gli occhiali da sole e guardare noi, qui,
come la pioggia ci ha invaso le strade
come gli ombrelli dei bambini sono stati perforati
da un acquazzone pungente sulla via di scuola?

Gli alberi che vedete le nostre lacrime li hanno innaffiati.
Non danno frutto.
Le rose rosse hanno il colore del nostro sangue.
Puzzano di morte.

Il fiume che ci separa è solo un miraggio
che avete creato quando ci avete espulso.

È UN’UNICA TERRA!

Per quelli che stanno dall’altra parte
e ci sparano, ci sputano,
per quanto tempo ancora ve ne starete là, recintati dall’odio?
Continuerete a indossare i vostri occhiali neri finché
non potrete più toglierli?

Presto, non saremo più qui per farci guardare da voi.
Non importerà se sbatterete o no le palpebre
se potrete stare o meno in piedi.
Non attraverserete quel fiume
per prendere altre terre
perché svanirete nel vostro miraggio.
Non potete costruire una nuova colonia sui nostri cimiteri.

E da morti,
le nostre ossa continueranno a crescere
per raggiungere e allacciarsi alle radici dell’ulivo
degli aranci, e bagnarsi nel dolce mare di Yaffa.
Un giorno, quando non sarete qui, noi di nuovo nasceremo.
Perché questa terra ci conosce. È nostra madre.
E da morti, stiamo soltanto riposando nel suo ventre
finché farà più chiaro.

Per quelli che NON sono più qui,
noi siamo qui da sempre.
Da sempre noi parliamo ma voi
non avete mai voluto ascoltare.

We deserve a better death

We deserve a better death.
Our bodies are disfigured and twisted,
embroidered with bullets and shrapnel.
Our names are pronounced incorrectly
on the radio and TV.
Our photos, plastered onto the walls of our buildings,
fade and grow pale.
The inscriptions on our gravestones disappear,
covered in the feces of birds and reptiles.
No one waters the trees that give shade
to our graves.
The blazing sun has overwhelmed
our rotting bodies.

Meritiamo una morte migliore

Meritiamo una morte migliore.
I nostri corpi sfigurati e storti,
ricamati con proiettili e schegge.
I nostri nomi pronunciati male
alla radio e alla televisione.
Le nostre foto, sui muri dei palazzi,
sbiadiscono e diventano pallide.
Le iscrizioni sulle nostre lapidi scompaiono,
coperte da feci di uccelli e rettili.
Nessuno innaffia gli alberi che ombreggiano
le nostre tombe.
Il sole rovente ha sopraffatto
i nostri corpi marcescenti.

Seven fingers

Whenever she meets new people, she sinks
her small hands into the pockets of her jeans,
moves them
as if she’s counting
some coins. (She’s just lost seven
fingers in the war.) Then she
moves away,
back hunched,
tiny as a dwarf.

Sette dita

Ogni volta che incontra persone nuove, affonda
le sue piccole mani nelle tasche dei jeans
le muove
come se contasse
monete. (Ha appena perso sette
dita in guerra). Poi si
allontana,
la schiena curva,
piccola come un nano.

Displaced

In memory of Edward Said

I am neither in nor out.
I am in between.
I am not part of anything.
I am a shadow of something.
At best,
I am a thing that
does not really
exist.
I am weightless,
a speck of time
in Gaza.
But I will remain
where I am.

Dislocato

In memoria di Edward Said

Non sono né dentro né fuori.
Sono in mezzo.
Non sono parte di niente.
Sono l’ombra di qualcosa.
Alla meglio,
sono una cosa che
non esiste
davvero.
Sono senza peso,
un bruscolo di tempo
a Gaza.
Ma rimarrò
dove sono.

Notebooks

I walk carefully on the beach, look to
see if a child’s footsteps lie ahead,
a child who’s lost a leg, or two,
or can no longer hear the waves.


This angel of death just turned my body into pieces
and took my soul. It
left me lying there on the bloody ground,
my fingers resting on a neighbor’s broken window.
It didn’t look back to see if I was smiling or crying,
or if my mouth was even intact.
It just wanted my soul.
My family was out looking for my body.


During the night airstrikes, all of us turned
into stones.


When I hear the explosion, I can smell the sand, sand that blows through the still air
to gather on my windowsill.
I can hear the little dog that barks whenever the branches of an almond tree stir.
He thinks it’s a bird trying to scare him. Is it time to play?
The thick dust falling onto the tree and the dog, and blowing in through my window,
clears the confusion.


I turn off the lights at night so the F-16s
and their bombs don’t catch me,
so the dust doesn’t race in to cover my new clothes,
so the bullets don’t hit my shoulders
when they cut through the skinless air.


I walked down the road and saw a tree.
I wrote a poem about its slim branches and vivid leaves,
a robin in its nest, watching a baby
in a stroller, a mother rolling up her sleeves.

The next day, I walked down and found the tree not there.
I hurried to my room, looked for the poem in my notebook.
The page was torn out.

I return to that road.
No tree.
I go back to my room.
The notebook is not there.

I look into the mirror,
and see a specter of my younger self.
I squat to pick up my pen from the floor.
The mirror follows me,
and shatters on my head.
I wake up.


Raindrops slip into the frying pan
through a hole in a tin roof.


We left the house,
took two blankets,
a pillow, and the echo
of the radio with us.


Why is it when I dream of Palestine,
that I see it in black and white?


People say silence is a sign of consent.
What if I’m not allowed to speak,
my tongue severed, my mouth sewn shut?


Even the pens wanted to write about what they heard,
what shook them when they were napping
in the early afternoon.


The grave was brimming with sand
and prayers and stories that fell from visitors passing by.


It’s been noisy for a long time
and I’ve been looking for a recording
of silence to play on my old headphones.

Taccuini

Con cautela cammino sulla spiaggia, cerco
davanti a me l’impronta di un bambino,
un bambino che ha perso una gamba, o due
o che non può più sentire il suono delle onde.


Questo angelo della morte mi ha appena ridotto il corpo a pezzi
e si è preso la mia anima. Mi ha
lasciato lì disteso sul terreno sanguinoso,
le dita posate sulla finestra rotta di un vicino.
Non si è voltato per vedere se sorridevo o piangevo
o se la mia bocca fosse almeno intatta.
Voleva solo la mia anima.
La mia famiglia, fuori, cercava il mio corpo.


Durante i bombardamenti notturni, ci trasformammo tutti
in pietre.


Quando sento l’esplosione, annuso nell’aria ferma la sabbia, la sabbia che soffia
e si posa sul mio davanzale.
Posso sentire il piccolo cane che abbaia ogni volta che i rami di un mandorlo si muovono.
Pensa che sia un uccello che prova a spaventarlo. È tempo di giocare?
La polvere spessa che cade sull’albero e sul cane, e soffia dentro alla finestra,
chiarisce la confusione.


Di notte spengo le luci perché gli F-16
e le loro bombe non mi prendano,
perché la polvere non venga a ricoprire i miei vestiti nuovi,
perché i proiettili non mi colpiscano le spalle
quando tagliano l’aria senza pelle.


Camminavo per la strada e ho visto un albero.
Ho scritto una poesia sui suoi rami magri e le sue foglie brillanti,
con un pettirosso nel nido, che guardava un neonato
in un passeggino, una madre tirarsi su le maniche.
Il giorno dopo, sono ripassato e l’albero non c’era più,
sono corso in camera, cercavo la poesia nel mio taccuino.
La pagina era stata strappata.

Torno in quella strada.
Nessun albero.
Torno alla mia stanza.
Nessun taccuino.

Guardo nello specchio,
e vedo lo spettro di un me più giovane.
Mi piego per raccogliere la penna da terra.
Lo specchio mi segue,
mi si spacca sulla testa.
Mi sveglio.


Gocce scivolano nella padella
attraverso un buco in un tetto di latta.


Abbandonata la casa, abbiamo
preso due coperte,
un cuscino, e l’eco
della radio con noi.


Perché quando sogno la Palestina
la vedo in banco e nero?


La gente dice che il silenzio è assenso.
E se non mi permettono di parlare,
la lingua tagliata,
la bocca cucita?


Anche le penne volevano scrivere di ciò che hanno sentito,
di quel che le ha scosse mentre sonnecchiavano
nel primo pomeriggio.


Il cimitero brillava di sabbia
e preghiere e storie che cadevano dai visitatori di passaggio.


C’è rumore da così tanto tempo
e io sto cercando la registrazione
di un silenzio, da ascoltare nelle vecchie cuffie.

Things you may find hidden in my ear

For Alicia M. Quesnel, MD

I
When you open my ear, touch it
gently.
My mother’s voice lingers somewhere inside.
Her voice is the echo that helps me recover my equilibrium
when I feel dizzy during my attentiveness.

You may encounter songs in Arabic,
poems in English I recite to myself,
or a song I chant to the chirping birds in our backyard.

When you stitch the cut, don’t forget to put all these back in my ear.
Put them back in order as you would do with books on your shelf.

II
The drone’s buzzing sound,
the roar of an F-16,
the screams of bombs falling on houses,
on fields, and on bodies,
of rockets flying away –
rid my tiny ear canal of them all.

Spray the perfume of your smiles on the incision.
Inject the song of life into my veins to wake me up.
Gently beat the drum so my mind may dance
with yours,
my doctor, day and night

Cose che potresti trovare nascoste nel mio orecchio

Per Alicia M. Quesnel, Dottoressa

I
Quando apri il mio orecchio, toccalo
con gentilezza.
La voce di mia madre è ancora sospesa lì, da qualche parte.
La sua voce è l’eco che mi aiuta a ritrovare l’equilibrio
quando, nello sforzo dell’attenzione, vengo meno.

Potresti trovare canzoni in arabo,
poesie in inglese che recito a me stesso
o un mio canto per gli uccelli che cinguettano nel nostro cortile.

Quando ricucirai il taglio, non dimenticare di rimettere tutte queste cose nell’orecchio.
Ordinate, come faresti con i libri sul tuo scaffale.

II
Il ronzio dei droni
il boato di un F-16
le urla delle bombe che cadono sulle case
sui campi, sui corpi,
dei razzi che sfrecciano –
queste toglile dall’orecchio, dal suo canale stretto.

Sull’incisione, spruzza il profumo dei tuoi sorrisi.
Iniettami nelle vene la canzone della vita per svegliarmi.
Batti con gentilezza il timpano, così che la mia mente possa
ballare con la tua,
mia dottoressa, giorno e notte.

Mosab

My father gave me a difficult name.
Inside it sit two letters that don’t exist in English.

My father didn’t know I would
have English-speaking friends,
always asking how to pronounce my name,
or trying to avoid saying it.

But Dad, I like to hear others address me by name,
especially friends.

Even my name’s root means difficult.
A camel that is described as Mosab
is one that’s difficult to mount and ride.

But I’m not difficult in any way.
I will undress myself and show you
my shoulders, how dust has come to rest on them,
my chest, how tears have wet its thin skin,
my back, how sweat has made it pale,
my belly, how hair has covered my navel,
the spot where my mother fed me before birth.

The same spot, they say, the angel of death
will pierce to take away my soul.

And now, at night, my son’s head hurts
when he rests it on my belly.

And my clothes, I feel them loose,
while others see them tight on me.

When someone from the life insurance company calls
and pronounces my name in English,
I see the angel of death in the mirror,
with eyes that watch me
crumbling onto this foreign ground.

Mosab

Mio padre mi ha dato un nome difficile.
Dentro, siedono due lettere che non esistono in inglese.

Mio padre non poteva sapere
dei miei amici anglofoni
che chiedono sempre come pronunciarlo
o evitano di dirlo.

Ma papà, a me piace che gli altri mi chiamino per nome,
soprattutto gli amici.

Anche la radice del mio nome significa difficile.
Si dice che un cammello è Mosab
quando è faticoso da montare e cavalcare.

Ma io non sono per niente difficile.
Mi spoglierò e ti mostrerò
le mie spalle, come la polvere ci si è posata sopra,
il mio petto, come le lacrime hanno inumidito la pelle sottile,
la mia schiena, come il sudore l’ha resa pallida,
la mia pancia, come i peli hanno coperto l’ombelico,
il punto da cui mia madre mi nutriva prima di nascere.

Proprio il punto, dicono, che l’angelo della morte
bucherà per portarsi via la mia anima.

E ora, di notte, a mio figlio fa male la testa
quando la posa sulla mia pancia.

E i miei vestiti, li sento larghi,
mentre gli altri li vedono stretti su di me.

Quando qualcuno dell’assicurazione sulla vita chiama
e pronuncia il mio nome in inglese,
vedo l’angelo della morte nello specchio,
i suoi occhi che mi guardano
mentre crollo su questo suolo straniero.

A rose shoulders up

Don’t ever be surprised
to see a rose shoulder up
among the ruins of the house:
this is how we survived.

Spunta una rosa

Se dalle rovine della casa
vedi spuntare una rosa
tu non sorprenderti:
così siamo sopravvissuti.


Credit: Poetry from Things You May Find Hidden In My Ear. Copyright © 2022 by Mosab Abu Toha. Reprinted with the permission of City Lights Books. www.citylights.com

Si ringrazia Elaine Katzenberger di City Lights per la gentilezza e la disponibilità

Penelope se ne va: estratti da un poema di José Gardeazabal

Introduzione e traduzioni dal portoghese a cura di Vassilina (Vasiliki) Avramidi.

 «Penélope, con su bolso de piel marrón y sus zapatos de tacón y su vestido de domingo» cantava Joan Manuel Serrat già nel 1969, e questa precisa immagine viene ripresa nella copertina di un’altra versione iberica dell’eroina omerica, quella di Penélope Está de Partida (2022) di José Gardeazabal (Prémios Autores SPA, 2023). Pubblicata presso Relógio d’Água in contemporanea con Da Luz Para Dentro, i due libri-gemelli di lirica, entrambi nella ricerca del come si parli del corpo desiderante, del cosa si intraveda nel buio. Mentre però in Da Luz Para Dentro l’io, il tu e il noi rimangono generali, astratti, in Penélope Está de Partida gli interlocutori sono ben chiari: Penelope, stanca ormai di aspettare, sta per cominciare il suo viaggio e lascia questo bigliettino in versi a Ulisse.

Ma l’antica veste dell’epica non è adatta a questo personaggio, cui la maggior parte della trama si sviluppa all’interno di una sola stanza, la sua camera da letto. Lei opta per un viaggio lirico e si sbarazza degli aggettivi imposti dalla tradizione. Lo stesso vale per il noto stratagemma della tela che qui non porta a nulla («tecia tecia e nada acontecia»). L’attenzione si sposta invece sulla difficile creazione del soggetto femminile: attraverso un gioco continuo con i verbi riflessivi, in questo long poem Penelope cerca di stabilire la propria identità e di mettere in atto la propria volontà pur vivendo nella perenne mancanza di un dialogo. Infatti, questa riscrittura non propone una rottura (come fanno, per esempio, Meadowlands di Louise Glück o Penelope’s Confession di Gail Holst-Warhaft): le parentesi lasciano a Ulisse la porta aperta, senza però garantire che dentro casa ci sarà la donna che lo aspetta.


Da Penélope Está de Partida (2022)

ainda tenho um pé na epopeia
por pouco tempo
duas malas na mão
ou seja   estou de mãos livres
até aqui tecia   tecia   e nada acontecia
agora aqui   em breve desapareço
sem raiva nem ruído
por ti não espero mais   nem em literatura
(deixo a porta aberta para entrares)
já recebi todos os presentes
fui todos os adjetivos
viajaste-me por muito tempo
acho-me demasiado cheia das coisas de dentro
já conversei tudo com a mobília
tecida e entretida   tornei-me pouco a pouco uma história
odisseia   se vista de fora
é bom que fábulas assim cheguem ao fim

sto ancora con un piede nell’epopea
per poco 
due valigie in mano
cioè   ho le mani libere
fin qui tessevo    tessevo    e nulla accadeva
adesso qui   tra poco sparisco
senza rabbia né rumore
non ti aspetto più   nemmeno in letteratura 
(lascio la porta aperta così entri)
ho già ricevuto tutti i presenti
sono stata tutti gli aggettivi
mi hai viaggiata a lungo
mi trovo troppo piena di cose da dentro
ho già discusso di tutto con i mobili
intessuta e intrattenuta   diventai a poco a poco una storia
odissea   se vista da fuori
favole così fanno bene a finire


desapareceste-me em todas as direções
só te via no escuro
e de olhos fechados
o quarto tão negro
eu tão imóvel
que todas as manhãs acordava feita fotografia a preto-e-branco

mi dileguasti in tutte le direzioni
ti vedevo solo nel buio
e a occhi chiusi
la stanza tanto nera
io tanto immobile
che tutte le mattine mi svegliavo fatta fotografia in bianco e nero


de longe tornaste-te voyeur
em viagem    a vista é a melhor amiga de imaginação
chamo-te      distante   apequenas-te
de pé num navio       as mãos nas orelhas
não me ofereces a atenção das sereias
és enorme e erras
o teu mapa é o meu calendario
sozinha        pareço-me demasiado comigo
sonhei com o anonimato
a literatura oral agarrou-se a mim
com ambições de epopeia

da lontano diventasti voyeur
in viaggio     la vista è la migliore amica dell’imaginazione
ti chiamo      distante   rimpicciolisci
in piedi su una nave   le mani alle orecchie
non mi presti attenzione da sirena
sei enorme e erri
la tua mappa è il mio calendario
sola              rassomiglio troppo a me
ho sognato dell’anonimato
la letteratura orale si è aggrappata a me
con ambizioni di epopea


tornei-me substantivo
desejo adjetivos como quem escapa à noite de um palácio
olha     cansei-me de me elogiarem o olhar e os joelhos
olhar é coisa de velhos
e eu envelheço
sou o avesso de uma viagem
a minha vida foi o contrário de uma paisagem
conheço demasiado o meu corpo
e cansei-me de saudade
(as duas coisas)
a minha autobiografia é um quarto só para mim
tenho a aparência de filme mudo
aquele silêncio de legenda
sinto-o
fantasmas acariciam-me a testa
sem coragem para a pele do resto do corpo
sinto-o

diventai sostantivo
desidero aggettivi come chi scappa di notte da un palazzo
guarda   sono stanca degli elogi del mio sguardo, dei ginocchi
guardare è cosa da vecchi
e io invecchio
sono l’inverso di un viaggio
la mia vita è stata il contrario di un paesaggio
conosco troppo il mio corpo
e sono stanca di saudade
(entrambe le cose)
la mia autobiografia è una stanza tutta per me
il mio aspetto è di film muto
quel silenzio da sottotitolo
lo sento
fantasmi mi accarezzano la testa
senza coraggio per la pelle del resto del corpo
lo sento

Copertina di Penélope Está de Partida di José Gardeazabal
José Gardeazabal, Penélope Está de Partida, Relógio D’Água, 2022

“Et je n’avais aucun mot pour décrire la lumière”: alcune poesie di Milène Tournier

Introduzione e traduzioni dal francese a cura di Raphael Louvet.

“J’écris comme
Hurlent les singes face à la montagne et la montagne
Leur rend leur cri”

“Scrivo come
le scimmie urlano davanti alla montagna e la montagna
restituisce loro il grido”

In questo modo e in quel giorno, nei suoi Poèmes en Dieu, Milène Tournier descrive il suo lavoro di scrittura. Dico ‘in quel giorno’, perché si tratta di una scrittura plastica, mutevole, che si gonfia di tutto ciò che, giorno per giorno, incontra sul suo cammino. 

Milène Tournier è nata nel 1988 a Nizza, dov’è cresciuta. Ha studiato teatro e discusso, nel 2017, una tesi intitolata Figures de l’impudeur: dire, écrire, jouer l’intime 1970-2016. Da allora, si dedica tra le altre cose alla scrittura poetica e teatrale. Ad oggi, è una delle voci più peculiari del panorama poetico francese, in ragione tanto della sua scrittura incarnata quanto della costanza con cui questa si manifesta. Ha pubblicato infatti tre raccolte in tre anni (L’autre jour, 2020; Je t’aime comme, 2021; Se coltiner grandir, 2022), tutte per l’editore Lurlure. Tournier è molto presente anche ‘fuori’, sui palchi e negli spazi dove la poesia si dice e si vive collettivamente. Il suo lavoro procede in varie direzioni. I testi che qui presentiamo tendono a volte verso la prosa autobiografica, evocando l’affetto familiare, l’età adulta, e l’ingresso nei trent’anni, altre volte si concentrano sull’erotismo, l’amore o l’esperienza della sua fine. 

Si tratta, soprattutto, di una poesia fatta per essere detta. Quotidianamente, Tournier scrive e pubblica su Youtube anche delle videopoesie, che trovano la loro materia grezza nelle lunghe passeggiate urbane e nei vagabondaggi; nelle immagini raccolte casualmente, con cui la voce si mette a dialogare (Ce que m’a soufflé la ville, 2023, éditions Castor Astral). Ne sale un canto caratterizzato da una leggera malinconia e radicato nella quotidianità, attento alla sua straordinaria banalità e al mormorio delle creature e delle cose che la popolano. Sono testi attraversati da istanti che non sarebbero stati percepiti né percepibili, se non passando attraverso quell’ascolto e quello sguardo attenti, tipici della vita poetica, cioè della vita ordinaria trasformata, se non addirittura orientata, dall’azione di vigilanza della poetessa.


Da L’autre jour (2021)

Poèmes de famille

On m’enterrera sous une autre époque que celle sur laquelle tout à l’heure je suis née. Mes mains ont cherché le visage de ma mère, le trou sur la vitre. Sur les tables à langer officielles ou de fortune, aire d’autoroute, lit d’invité, et pour que ne criât plus ma bouche qui criait, son nez a lu mon front de droite à gauche, de gauche à droite, comme une langue s’indécise. Trente ans durèrent trente ans. Mes bras prennent des bras dans leurs bras le soir, quand la lune prend le ciel. Il y a quelqu’un, précis comme un miracle, entre la lourde vitre du monde et le long trou du moi. Ma mort aura bientôt étalé et rapproché mes dizaines. Les mondes sont de très grands prématurés. J’attends ensemble la fin de la fin du monde.

Poesie di famiglia

Mi seppelliranno sotto un’epoca diversa da quella in cui poco fa sono nata. Le mie mani hanno cercato il viso di mia madre, il buco sulla finestra. Su fasciatoi ufficiali o di fortuna, aree di servizio, letti per gli ospiti, perché la mia bocca urlante non urlasse più, ha letto con il naso la mia fronte da destra a sinistra, da sinistra a destra, come una lingua s’indecide. Trent’anni durarono trent’anni. Le mie braccia prendono delle braccia tra le braccia la sera, quando la luna prende il cielo. C’è qualcuno, preciso come un miracolo, tra il pesante vetro del mondo e il lungo buco dell’io. La mia morte avrà presto disposto e avvicinato le mie decine. I mondi sono dei grandi prematuri. Aspetto insieme la fine della fine del mondo.

Poèmes urbains

On est loin à la fois de la mort et de la naissance
On survole en RER des cimetières
La nuit vient dans le ciel tout doucement
Pareille chaque soir
Les gamines couchent les Barbies par terre et parlent de château
Les nez coulent
Il faut trouver résolutions à tous les problèmes.

C’était la fin de journée dans le bus
Et je n’avais aucun mot pour décrire la lumière
Le précisement du ciel et les roues des nuages
Comme on suppose que le paradis existe
On suppose que le réel existe
Les nuages sur le début des montagnes
Les montagnes étaient pleines d’arbres
Et pas du tout vides comme je les aurais dessinées si on m’avait demandé
Dessine une montagne
Une lumière entre ciel et nuages et montagnes
Une lumière de Jurassique
Une lumière comme ce genre d’images-là
De cinéma et dinosaures
Le cou diplodocus de la lumière
Le ciel son squelette d’absolu.

C’était l’un de ces soleils de grande verrière de gare, en fin de journée l’été. Un soleil provincial. Avec son tout ciel un peu plus loin. Les peaux nues en bout de valises. C’était l’été encore et la petite France. D’aller et venir sud et nord comme on plie son coude – parce qu’on ne peut pas plier son cœur. C’était l’été long des trains. L’été bourdon des Flixbus qu’on pick up à l’aéroport, kiss and longtemps roule. Je voudrais Dieu faire une sortie d’été l’été, comme sortie de corps quand le ciel raccourci de chaque conscience consent enfin à grand ouvrir ses bras immenses.

Poemi urbani

Siamo lontani sia dalla morte che dalla nascita
Sorvoliamo cimiteri sulla RER
La notte arriva dolcemente nel cielo
Uguale ogni sera
Le bambine coricano le Barbie per terra e parlano di castelli
I nasi colano
Bisogna trovare soluzioni a tutti i problemi.

Era la fine della giornata sul bus
E non avevo parole per descrivere la luce
Il precisamente del cielo e le ruote delle nuvole
Come si suppone che il paradiso esista
Si suppone che il reale esista
Le nuvole all’inizio delle montagne
Le montagne erano piene di alberi
E niente affatto vuote come le avrei disegnate se mi avessero chiesto
Disegna una montagna
Una luce tra cielo e nuvole e montagne
Una luce giurassica
Una luce come quel tipo di immagini
Di cinema e dinosauri
Il collo diplodoco della luce
Il cielo suo scheletro di assoluto.

Era uno di quei soli da grande vetrata di stazione, d’estate a fine giornata. Un sole provinciale. Con il suo tutto cielo un po’ più in là. Pelli nude in punta di valigia. Ancora era l’estate e la piccola Francia. Andare e venire a sud a nord come si piega il gomito – perchè non si può piegare il cuore. Era l’estate lunga dei treni. L’estate calabrone dei Flixbus che si pick up all’aeroporto, kiss and vai a lungo. Vorrei Dio una fuga estiva nell’estate, come fuga dal corpo quando il cielo corto di ogni coscienza acconsente finalmente a spalancare le sue braccia immense.

da Là où dansent les éphémères. Anthologie collective (2022)

Éphémère et père

[…]

Souvent le père disait
Qu’il aimerait se réincarner
En chat de village, sauvage mais nourri,
– J’avais moi, déjà, du mal
À finir cette vie-là
Comme venir à bout de son assiette

Le père fourrait en douce un T-shirt dans les petites cages
du baby-foot
Pour que le but compte sans la balle avalée
Et j’avais, comme ça, des défaites infinies.

Quand le père prenait sa guitare, c’était, il disait :
« Pour m’entraîner pour ma prochaine vie
Quand je serai musicien »
Et que « les vies ne se font pas en une seule vie »,
Mais moi je ne voulais comme vie
Que celle de la pièce avec dedans mon père.

La mère a dit
Qu’on est tous
Traversés par des espérances très profondes
Même ceux qu’on imagine pas, ils sont traversés par des
espérances très profondes.
Et j’ai regardé ma mère,
Et c’était effectivement, sur ou en elle,
Plutôt une espérance que de l’espoir
Comme y’a parfois pas besoin du soleil pour qu’y ait la
lumière, tant il a déjà brillé, et la mer suffit à faire le soleil,
J’ai regardé ma mère avec son espérance
Et comme elle était claire.
Et ma mère aussi me regardait.
Et ça se voyait
Qu’elle espérait pour deux
Et que moi, il suffisait de vivre.

Chapeau sur la tête, la mère analysait :
« En même temps il me protège du soleil
Mais aussi il me donne chaud. »

Avec ces chaussures légères,
Quand je marche sur les pierres
On fait connaissance à chaque pas –
A dit la mère avec sa façon très à elle
De mystère clair.

Mon père m’a demandé
Tu te souviendras de nous vieux
Ou de nous jeunes ?
Mais moi j’avais même oublié
Qu’un jour il faudrait
Faire l’effort de m’en souvenir.

Comment tu décrirais un coquelicot ?
Alors, pour rire, mon petit frère a répondu sérieusement :
Rouge.
Et, peut-être un peu plus grave, mon grand frère a rajouté :
Ils sont fragiles.

Effimera e padre

[…]

Spesso il padre diceva
Che avrebbe voluto reincarnarsi
In un gatto di paese, selvaggio ma nutrito
– Io invece, facevo già fatica
A finire questa vita
Come a venire a patti con il proprio piatto

Il padre nascondeva una maglietta nelle piccole porte
del calcetto
Perchè il goal contasse, senza che venisse inghiottita la palla
E così, avevo delle sconfitte infinite

Quando il padre prendeva la sua chitarra, era, diceva:
«Per allenarmi alla mia prossima vita
Quando sarò musicista»
Perché «le vite non si fanno in una sola vita»,
Ma io non volevo altra vita
che quella dello spettacolo dove c’è mio padre.

La madre ha detto
Che siamo tutti
Attraversati da speranze molto profonde
Anche quelli che non immaginiamo, sono attraversati da
speranze molto profonde.
E ho guardato mia madre
E c’era in effetti, sopra o dentro di lei,
Più che una fede una speranza
Come a volte non c’è bisogno del sole perché ci sia la
luce, perché ha già brillato tanto, e basta il mare a fare il sole,
Ho guardato mia madre con la sua speranza
E quanto era chiara.
E mia madre anche mi guardava.
E si capiva
Che sperava per due
E io, bastava che vivessi.

Cappello in testa, la madre analizzava :
«Mi protegge dal sole, ma allo stesso tempo
Mi tiene anche caldo.»

Con queste scarpe leggere,
Quando cammino sulle pietre
Ci conosciamo ad ogni passo
Ha detto la madre, con quel modo tutto suo
Di chiaro mistero.

Mio padre mi ha chiesto
Ti ricorderai di noi da vecchi
O di noi da giovani ?
Ma io mi ero pure scordata
Che un giorno avrei dovuto
Fare lo sforzo di ricordarmene.

Come descriveresti un papavero ?
Allora, per scherzare, mio fratello più piccolo ha risposto seriamente:
Rosso.
E, forse con più gravità, mio fratello più grande ha aggiunto:
Sono fragili.

Da se coltiner, grandir (2022)

Premier amour

Je t’emmènerai vers un petit village
Plein de cloches à midi
Qui n’en finissent pas
Comme si c’était midi
Le seul véritable événement.

Prends-moi toute et vivante,
Comme dans ton Counter-Strike, ramasser chaude
encore
L’arme du mort.

Et je m’avancerai vers toi, mon incompréhensible
amour,
Comme sur la dalle immense s’avance
Pour la première fois
Le traducteur en face de son poète.

Regarde-moi comme aux vitres teintées il faut
Coller nez et passer son propre reflet pour
Accéder, derrière, au paysage…

Colle ton ventre à mon dos
Et que commence dans le lit
La nuit d’un fruit de mer.

Sédentarise-toi dans mes bras
Comme un matin les hommes découvrent le feu
Et le soir les hommes s’assoient autour du feu.

Ta main, le ciel,
C’est simple
De mourir.

Et je regarde ton sexe et il est doux comme une oreille
d’âne.
Et je respire avec ton sexe, assoiffée comme pardon une
vieille dame qui ne veut plus que de l’eau sans dent.
Et je tiens ton sexe comme dans la rue deux hommes se
voient et se serrent la main.
Et après je rêve de ton sexe comme je le regarde et respire
avec lui et le tiens.

La dame dans l’église a remercié le mort
Pour tout ce qu’il avait fait de ses mains,
« Merci
Pour tout ce que tu as fait de tes mains. »
C’était je crois
La plus belle phrase trouvée.
Que les morts sont ceux
Qui ont fini de faire des choses de leurs mains,
Et qu’on peut remercier.

Primo amore

Ti porterò in un piccolo villaggio
Pieno di campane a mezzogiorno
Che non la smettono mai
Come se fosse mezzogiorno
L’unico vero evento.

Prendimi intera e viva
Come nel tuo Counter-Strike, raccogliere calda
ancora
L’arma del morto.

E ti verrò incontro, mio incomprensibile
amore,
Come sulla lastra immensa va incontro
Per la prima volta
Al suo poeta il traduttore.

Guardami come ai vetri oscurati bisogna
Incollare naso e passare per il proprio riflesso
Per accedere, dietro, al paesaggio…

Incolla la tua pancia alla mia schiena
E che nel letto inizi
La notte di un frutto di mare.

Sedentarizzati nelle mie braccia
Come un mattino gli uomini scoprono il fuoco
E la sera gli uomini si siedono intorno al fuoco.

La tua mano, il cielo
È semplice
Morire.

E guardo il tuo sesso ed è dolce come un orecchio
d’asino.
E respiro con il tuo sesso, assetata come, scusa, una
vecchia signora che non vuole altro che acqua senza denti.
E stringo il tuo sesso come due uomini per strada
si vedono e si stringono la mano.
E dopo sogno il tuo sesso, come lo guardo e respiro
con lui e lo stringo.

La signora nella chiesa ha ringraziato il morto
Per tutto quello che aveva fatto con le sue mani,
«Grazie
Per tutto quello che hai fatto con le tue mani».
È stata credo
La più bella frase trovata.
Che i morti sono coloro
Che hanno finito di fare delle cose con le mani,
E che possiamo ringraziarli.

Un cristallo di neve, un gatto morto – Intervista a Mircea Cărtărescu

Le parole dei vivi | Intervista a cura di Fausto Paolo Filograna. Traduzione dall’inglese di Chiara Ciarpelli. Foto di Juan Manuel Serrano Arce.

Pluricandidato al Premio Nobel, universalmente considerato uno dei più importanti scrittori contemporanei. Inoltre poeta, saggista rumeno, dotato di una poetica assimilabile all’opera di Joyce,  Kafka, Pavic e, soprattutto, Thomas Pynchon, Mircea Cărtărescu (Bucarest, 1956) è stato esponente di spicco della Blue Jeans Generation. Oggi è considerato il più importante autore romeno contemporaneo. In questa intervista l’autore racconta l’importanza dell’ultimo suo libro pubblicato in Italia: Melancolia.

Su Melancolia (La nave di Teseo, 2022)

1) L’infanzia appare spesso nei tuoi libri, penso soprattutto ai tuoi monumentali romanzi Abbacinante e Solenoide, ma non ne è mai stata protagonista. In questo libro è il tema principale. Ho trovato singolare che nel momento in cui parli di questo tema adotti la forma frammentaria del racconto. Ci puoi spiegare questo passaggio? 

Melancolia non è direttamente collegato a Orbitor (Abbacinante, N.d.T.) e Solenoid (Solenoide, N.d.T.), anzi, è un tentativo di sfuggire alle strutture molto complesse e intricate di quei grandi romanzi. È un libro neoromantico e surrealista, nel segno di Giorgio De Chirico e H. C. Andersen. I cinque racconti sono fiabe metafisiche, chiuse ermeticamente nel loro enigma. Melancolia” è il libro più puro finora. Lo amo per il suo stile, la stranezza e l’atmosfera di innocenza.

Ho scritto Melancolia quando avevo sessant’anni, come una sorta di richiamo e rielaborazione del mio primo libro di prosa, Nostalgia, scritto trent’anni prima. In entrambi l’infanzia e l’adolescenza sono il tema principale, entrambi sono scritti archetipici composti da cinque storie, la prima e l’ultima delle quali costituiscono un prologo e un epilogo dei libri veri e propri. I racconti non sono affatto brevi, alcuni sono piccoli romanzi, tra i migliori che abbia mai scritto: “REM” e “I gemelli” in Nostalgia, “Le pelli” in Melancolia. Sono uno scrittore della vita interiore, di quella notturna, e penso che viviamo circondati da enigmi. Quando siamo bambini, tutto ci appare strano, poetico e onirico. Ecco perché mi interessa tanto quell’età paradisiaca.

2) Che relazione c’è tra il tema dell’infanzia e la tua età attuale?

L’età ha poco a che fare con la nostra vita interiore. Un artista, così come ogni persona creativa, è colui che è in grado di conservare il bambino dentro di sé fino alla vecchiaia. Cioè, una persona capace di non lasciarsi coinvolgere dal denaro, dal potere, dal prestigio, dalla politica e dalla cronaca, dal giudizio sugli altri e condurre la sua vita all’insegna della bellezza, della creatività, dei miracoli quotidiani. Infanzia e poesia sono la stessa cosa: una propensione per la delicatezza che si può trovare in una goccia di rugiada, in un’equazione, in un concetto filosofico, in una teoria scientifica, in Dio, in una graffetta, in un cristallo di neve o in un gatto morto. Viviamo tutti non solo in un sottomarino giallo, ma anche in un’enorme poesia: ogni bambino lo sa bene, ma gli adulti fanno del loro meglio per dimenticarlo e vivere nella noia, nell’avidità e nella turpitudine.

3) Il titolo di questo libro, Melancolia, rimanda a un contesto clinico e scientifico da cui hai sempre attinto. Ci vuoi raccontare perché hai usato un nome con una così lunga tradizione e soprattutto il nome di una malattia per un libro incentrato sull’infanzia?

Inizialmente, durante il Medioevo, la malinconia era effettivamente un concetto medico, tradotto come “la bile nera” (“Il sole nero della malanconia”, scrisse nei secoli Gérard de Nerval). Ci si riferiva a sentimenti di depressione, tristezza, impotenza e mancanza di motivazione di alcuni pazienti nelle primitive istituzioni di salute mentale. Ma dopo che Robert Burton scrisse la sua immensa opera, Anatomy of Melancholy, divenne un concetto culturale con un’enorme influenza sullo sviluppo del pensiero e delle arti europee (la letteratura romantica, ad esempio, non è concepibile senza questo concetto). Uno scrittore che aspira a essere fondamentale o universale non può ignorare i suoni più profondi dell’animo umano, i suoni gravi della solitudine, della tristezza e della depressione. Tutti questi definiscono l’eterna malinconia.

I bambini non conoscono la malinconia (sebbene ci siano studi clinici sulla depressione nei bambini e negli adolescenti), perché vivono fuori dal tempo che corrompe ogni cosa. Ma l’infanzia è ancora molto legata a questo tema, perché ogni persona adulta che talvolta ha il coraggio di immergersi nella propria vita interiore percepisce la propria infanzia come un’enorme perdita, una patria perduta senza possibilità di ritorno. I ricordi d’infanzia scorrono come lava liquida dentro di noi, ma sono sepolti in profondità sotto la crosta della pelle adulta, del cervello adulto, della vita adulta, caotica e priva di senso. Sono sempre terribilmente malinconico quando sfoglio le foto sul mio computer: gli anni passano e non c’è modo di tornare indietro, e le poche foto in bianco e nero, sbiadite, di quando ero bambino sono ora come lame che mi trafiggono il cuore.

4) Proust appare nei meandri consci e inconsci della mente delle persone che leggono le tue opere. Addirittura il bambino del racconto “Le volpi” si chiama Marcel. Che relazione hai con la sua opera? Chi è Marcel?

Marcel in realtà sono io, Mircea, non Proust. Molti critici hanno oscillato tra due poli cercando di descrivere il mio lavoro e il mio metodo: Proust e Kafka. Ma mentre Kafka ha avuto, e tuttora ha, un’enorme influenza sulla mia vita quotidiana e artistica, non posso dire lo stesso di Proust. Ovviamente ho letto il suo libro diverse volte, a volte con piacere, altre volte con noia, e ammetto che è stato un grande scrittore, ma non sento una particolare affinità con il suo mondo. Non tutti gli autori che utilizzano frasi complesse ed elaborate sono proustiani, così come non lo sono tutti quelli che trattano della “memoria involontaria”. Nella letteratura rumena moderna degli anni ’30 e ’40 c’era un gruppo di scrittori che ammirava molto Proust e per questo venivano chiamati “il gruppo proustiano”. Ma leggendo i loro libri si scopre con sorpresa che nessuno di loro ha davvero compreso la novità del suo metodo e che nessuno ha seguito le sue orme. Orbitor (Abbacinante, N.d.T.), la mia opera più importante finora, può dare l’impressione di un libro “proustiano” perché è molto voluminoso e contiene frasi molto lunghe, ma il suo scopo non è quello di recuperare ricordi perduti, bensì di costruire un intero mondo dalla mia sostanza cerebrale, come il ragno che tesse la sua tela dai filamenti brillanti.

5) In un’intervista su L’indiscreto, fatta da Vanni Santoni, racconti di scrivere le tue opere su grandi quaderni. Che differenza c’è tra il funzionamento della tua mente e ciò che scrivi su quella carta?

Ho sempre scritto a mano, mi piace molto. È più intimo, più umano e ti concede più tempo per pensare e immaginare. Scrivo a mano il mio diario ormai da 50 anni, quindi sono piuttosto abituato a scrivere con la penna stilografica. Mi piace che le mie pagine siano belle, quindi detesto cancellare le parole o strappare le pagine. I miei manoscritti sono puliti, sembrano copie di un originale inesistente. Orbitor (Abbacinante, N.d.T.), ad esempio, ha 1500 pagine, ma non c’è una pagina strappata, ci sono poche parole cancellate, anzi è stato pubblicato senza modifica alcuna. Tutti i miei libri, anche quelli più grandi, sono la prima stesura. Inoltre, non esiste un piano o una sinossi e non uso alcuna documentazione. È tutto nella mia mente: i miei libri sono in realtà mappe o ologrammi della mia mente. Per me, scrivere è come rimuovere una pellicola bianca dalle mie pagine per rivelare il testo già scritto.

È vero che solo alcuni dei miei libri, come Solenoid (Solenoide, N.d.T.), Orbitor (Abbacinante, N.d.T.) e il mio diario, sono scritti a mano. Altri, come Melancolia o Theodoros, il mio ultimo libro, sono scritti al computer. Questo perché dopo aver compiuto 60 anni ho perso la pazienza necessaria per scrivere a mano. Ma il resto – nessun editing, nessun piano, nessuna documentazione – è rimasto invariato. Forse perché sono uno dei pochissimi scrittori al mondo che ancora crede nell’ispirazione, nel senso più letterale del termine: la sensazione che qualcuno di molto più saggio e dotato di me mi detti effettivamente ciò che scrivo. Il vero scrittore non è mai solo, così come il fantino da solo non vince mai le corse: ha bisogno di un cavallo per farlo.

6) Qual è il tuo rapporto di scrittore con la Romania? 

“Nessuno è profeta nella propria patria”, dice il proverbio, ed è proprio così. Negli ultimi vent’anni mi sono ritrovato ad essere molto più apprezzato all’estero che nel mio paese e nella mia cultura. Tuttavia, vivo ancora in Romania nonostante le molte avversità e mi piace molto vivere tra i miei connazionali. C’è un sottile strato di persone ben istruite, che comprano ogni sorta di libro, partecipano a tutti gli eventi culturali, concerti, spettacoli teatrali e festival e sono veri cittadini del mondo. Tra loro ho dei buoni amici, che rendono la mia vita nel mio paese molto piacevole. Oltre a viaggiare molto all’estero, partecipo attivamente alla vita culturale e letteraria del mio paese, partecipo a molti eventi sul palcoscenico, a festival di poesia o narrativa, do letture delle mie opere in molte città. È bello risiedere nel proprio Paese, indipendentemente da quanto si viaggia e da quanto si è trattati male a casa propria. Senti di appartenere ad un posto, senti di essere tra le persone che ami.

7) Chi ti conosce tramite i social sa che hai una predilezione per un certo tipo di camicie, con un certo tipo di disegno. Lo stesso tipo di disegni si trova spesso, in varie forme – mentali, organiche, metafisiche – nei tuoi romanzi. Desideri avere quei disegni anche sul corpo, nella tua vita non letteraria di Mircea Cărtărescu?

Sono già impressi sul mio corpo, tatuati su ogni singolo centimetro della mia pelle. I miei simboli e disegni mentali avvolgono il mio corpo come una toga viola. Le persone che mi conoscono e mi amano li percepiscono come abiti reali, sottili, leggeri e pieni di colori cangianti.

8 Quali sono i tuoi autori viventi preferiti? Sembra che tra gli scrittori della tua generazione ci sia una certa preferenza per gli autori morti. Ci puoi dire cosa pensi di questo?

Gli autori morti sono solo quelli mediocri. Gli altri, a cominciare da Omero e Virgilio, sono ancora vivi dopo migliaia di anni. Non mi interessa se un autore è morto o vivo, cinese o etiope, donna o uomo, etero o gay. Discrimino solo tra autori che riesco a leggere e autori che non riesco a leggere.

Eppure, sono pieno di gioia al pensiero che sto ancora calpestando lo stesso suolo e respirando la stessa aria di alcuni degli déi del mio Pantheon interiore, come Mario Vargas Llosa, Thomas Pynchon, Paul Auster, Dacia Maraini, Bob Dylan o Salman Rushdie. Sono felice e grato di essere loro contemporaneo.


Melancolia è composto di Tre storie – incorniciate da due evocativi racconti brevi – che affrontano alcuni grandi temi come la paura del cambiamento, la solitudine, l’amore con l’immaginazione del ragazzo e lo stile del grande scrittore. I tre racconti riguardano altrettante fasi: l’infanzia, perché “è nell’infanzia che ha inizio la melancolia, quel sentimento che ci accompagna per tutta la vita, quella sensazione che nessuno ci tiene più per mano”, l’età della ragione e l’adolescenza. Quando la madre esce per fare la spesa, un bambino di cinque anni è convinto che non tornerà. Marcel, invece, ha otto anni e vive in simbiosi con l’adorata sorellina Isabel, in un mondo in cui gli adulti sembrano non essere altro che presenze fugaci. Ivan di anni ne ha quindici e si sente l’uomo più solo dell’universo. In un armadio conserva le pelli che, di anno in anno, crescendo, ha dovuto cambiare. Quando incontra Dora e se ne innamora inizia a chiedersi se anche le donne, come gli uomini, cambiano pelle.

Mircea Cărtărescu  ha vinto molti premi, tra cui l’Internationaler Literaturpreis a Berlino (2012), lo Spycher in Svizzera (2013), il premio di Stato per la Letteratura europea conferito dalla Repubblica austriaca (2015), il premio Gregor von Rezzori  Città di Firenze (2016) e il Prix Formentor (2018). È stato inoltre più volte segnalato per il premio Nobel. In Italia Voland ha pubblicato i romanzi Travesti (2000), la monumentale trilogia di Abbacinante, consistente in L’ala sinistra (2007), Il corpo (2015) L’ala destra (2016); Perché amiamo le donne (2009) e Nostalgia (2012, vincitore del Premio Acerbi). Nel 2021 Il Saggiatore pubblica Solenoide, da molti considerato il suo capolavoro, mentre nel 2022 esce per La nave di Teseo Melancolia. Altrettanto importante, sebbene in Italia poco considerata, è la sua produzione in poesia, rappresentata in italiano da Il poema dell’acquaio, edito per Nottetempo nel 2015. La sua produzione finora tradotta in Italia è opera interamente del traduttore Bruno Mazzoni, professore ordinario dell’Università di Pisa.

“La costruzione di una città comune” – Intervista ad Agustín Fernández Mallo

Le parole dei vivi | Intervista a cura di Federico Di Mauro.

Su Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus (Interno Poesia, 2023)

Copertina di Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus di Agustín Fernández Mallo

A giugno 2023 ho intervistato sul suo libro poetico d’esordio Agustín Fernández Mallo, uno dei più importanti scrittori contemporanei in lingua spagnola.

Yo regreso siempre a los pezones y al punto 7 del Tractatus è oggi disponibile allə lettorə italianə grazie ad Interno Poesia e al lavoro di ricerca della curatrice Lia Ogno, che ringrazio per avere reso possibile l’intervista e per il paziente lavoro di revisione.

Federico Di Mauro


D. Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus (Yo siempre regreso a los pezones y al punto 7 del Tractatus) è il suo libro d’esordio. Il libro, come ci informa Lia Ogno nella prefazione, risale al 2001 e viene pubblicato inizialmente a sue spese. Yo siempre regreso… mette in discussione molte delle convenzioni associate alla scrittura poetica, a partire dalla sua natura a metà strada tra narrativa, poesia e saggistica. Il libro è un canzoniere postmoderno composto da poesie in prosa, che si servono di una forma di versificazione molto particolare, costituita dall’interruzione della frase per via di incisi che si sovrappongono tra loro, creando una specie di movimento interno. Qual è stata l’accoglienza del libro in Spagna a quell’epoca? E come valuta questo libro a vent’anni di distanza?

R. Al tempo (2001) il libro ebbe un’eccellente ricezione, ma trattandosi di un’edizione indipendente la sua diffusione era limitata a piccoli circoli poetici spagnoli. Già allora i suoi lettori sostenevano che in quel libro vi fosse il germe di un nuovo modo di narrare e di far poesia rispetto a quelli noti. Solo anni dopo, quando fu ripubblicato da due case editrici importanti (Alfaguara e Seix Barral) fu possibile leggerlo in maniera più massiva, e la critica e il pubblico erano dello stesso parere. Da parte mia, posso solamente dire che io non scrivo ciò che voglio ma ciò che posso; io non potrei scrivere in un’altra forma, è la mia maniera di leggere e di scrivere il mondo, ed è chiaro che in quel libro di poesia erano già presenti molti dei punti chiave della mia letteratura successiva: la mescolanza di generi, l’unione senza pregiudizi estetici di alta e bassa cultura, un approccio a misticismi classici e contemporanei, la pubblicità di massa come materiale poetico, o l’inclusione delle scienze come metafora – non come argomento, non come trama. In breve, c’era già tutto ciò che ho poi continuato a fare in poesia, e che nei romanzi si è condensato in Nocilla dream e nella saggistica in Postpoesía (hacia un nuevo paradigma).

D. Se si trattasse di un romanzo, potremmo riassumerne così la trama del libro: dopo essere stato abbandonato dalla donna che amava, un uomo si rinchiude in una camera d’hotel di un’isola imprecisata, e osserva. L’uomo guarda con interesse e sospetto il mondo esterno, un paesaggio lunare alla De Chirico incomprensibile ed estraneo, osserva le fotografie in bianco e nero della donna, quasi una Milena kafkiana dai contorni di un’apparizione fantasmatica, oppure scruta dentro un’oscurità senza nome che si allarga sulla sua vita. Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus è un libro sulla solitudine, su quel che accade quando, esaurito l’eros, la vita diventa una perenne veglia, il legame amoroso un interminabile crepuscolo, l’amore una conversazione ininterrotta tra ombre. E tutto quel che resta da dire è quanto ammoniva Wittgenstein: «Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» (Wovon man nicht sprechen kann, darüber muß man schweigen). La mia domanda riguarda l’isola come immagine della solitudine. Com’è lo spazio, com’è il tempo di questo libro? Qual è il tempo dell’assenza e dell’abbandono?

R. È curioso che dica questo, perché nel mio ultimo romanzo, El libro de todos los amores, affronto il tema della rottura amorosa come “l’interminabile crepuscolo” a cui Lei fa riferimento. L’idea che avevo 23 anni fa, quando scrissi Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus, e quella che ho oggi è essenzialmente la stessa e ha a che vedere con la costruzione di una città comune, come sempre avviene tra due amanti, e mi riferisco a una città simbolica, visibile unicamente da loro due. E mi sembra in sé già una specie di miracolo che nel mondo esista una cosa che possano vedere solo due persone, e nessun altro. Vale a dire, le coppie edificano delle vere e proprie città fatte di materia e affetti, costumi e riti unici e irripetibili; un linguaggio proprio. La peculiarità di questa città creata da entrambi – e credo che in ciò risieda l’originalità poetica e antropologica della mia idea – è che essa non si distrugge se la coppia si spezza, ma passi semplicemente a uno stato di città abbandonata, delle rovine che da qualche parte dovranno necessariamente seguire il proprio corso, la propria vita, ma in solitudine. Non sappiamo esattamente in che modo continui a mutare questa città, né che forma assumerà, quel che è certo, però, è che, per sempre scollegata dal mondo conosciuto, è una destinazione sentimentale che nessuno potrà più visitare. Neanche coloro che l’hanno costruita – gli ex-amanti – potranno più ripercorrerne le strade. Così questa città diventa, letteralmente, un luogo utopico, l’unico luogo realmente utopico, perché la sua disconnessione dalla realtà è tale e, allo stesso tempo, così violenta è la sua presenza, che nemmeno la politica reale – che come sappiamo ambisce a utopie ma finisce sempre per creare distopie – ha il coraggio di misurarcisi. Ed è allora che con questa città abbandonata possiamo cominciare a fare poesia, a immaginarla, a trasformarla, mediante la parola scritta, in “qualcos’altro”. Questa è un’idea che ho successivamente ripreso nel romanzo Nocilla lab, anche se l’ho declinata in maniera differente. In definitiva: lo spazio e il tempo del libro Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus è una sorta di amalgama di tutto questo, il che trasforma lo spazio e il tempo in una materia duttile, flessibile e complessa.

D. In Italia oggi il suo nome è collegato a Trilogia della guerra, pubblicato l’anno scorso dalla promettente casa editrice milanese Utopia, e che ha riscosso un enorme successo di pubblico e di critica. In quel suo libro abbiamo trovato uno degli esiti più riusciti di ricerca sulla forma romanzesca contemporanea. Lei è un autore eclettico, un instancabile sperimentatore di forme. È ancora interessato a esplorare i territori limitrofi di poesia e narrazione?

R. Quel che ho chiaro è che tutto ciò che scrivo è poesia, anche quando assume il formato di romanzo o di saggio. E dico questo perché, indipendentemente da quello che scrivo, parto sempre da metafore e da idee che sono poetiche al cento per cento. Quindi, naturalmente, sono ancora interessato a esplorare quei mondi ibridi, mondi collegati da reti di concetti e metafore. Per esempio, il volume che ho appena pubblicato El libro de todos los amores, partecipa di questa mescolanza, così come il mio trattato Teoría general de la basura (che in qualche modo contiene e supera Postpoesía) o il mio ultimo saggio La forma de la multitud. In tutte queste opere ci sono alte dosi di “pensiero poetico”, sempre nel tentativo di andare oltre il già consolidato, di fare passi estetici. Per me, ogni nuovo libro è un salto nel vuoto fatto con metafore, la metafora è un sistema di ricerca e di creazione del mondo. Il mondo non è là fuori ad aspettarci, il mondo si crea attraverso il linguaggio.

D. All’inizio del libro lei fa riferimento a quella frase di María Zambrano, secondo cui «ogni bellezza tende alla sfericità». Quest’opera per vocazione discontinua, che combina sistematicamente gli opposti (poesia e prosa, eros e riflessione metalinguistica) aspira a una forma di perfezione, di compiutezza, di bellezza nel caos. Questo ha a che vedere con la sua visione dell’universo che le deriva dalla sua formazione di fisico?R. Non saprei. Quel che so è che questo libro, più che aspirare alla perfezione aspira a una sorta di Realismo Complesso, che è il tentativo di narrare e di fare poesia con la nostra contemporaneità (cioè essere realista), e di farlo nel modo in cui oggi leggiamo e comprendiamo il contemporaneo, che non è altro che il pensiero complesso (attenzione!, non complicato; complesso e complicato sono due concetti molto differenti, in molti casi persino opposti). Ed è questo che credo abbia a che fare con la fisica, il modo di assumere in modo naturale una struttura dinamica della realtà, che io chiamo Realismo Complesso (si veda Teoría general de la basura), in cui gli oggetti e i sentimenti sono trattati in modo attivo, creatori di una realtà attuale e aperta, connessi in rete con centinaia di altre realtà simultanee. Non si tratta di una modalità nostalgica o romantica.