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Su “Idillio occidentale” di Andrea Tisano

Nota di lettura a cura di Gianluca Furnari.

Idillio occidentale di Andrea Tisano è un esordio atipico, oscuramente apparentato a quel ramo di poesia isolana che ambisce a costruzioni poematiche complesse, riassemblando eventi e luoghi del presente intorno a nuclei epico-mitici ben definiti. A questo schema strutturale, che potrebbe ricordare Suite Etnapolis (Interlinea, 2019) di Antonio Lanza, anch’esso prosimetro, corrispondono in Tisano una forma strabordante e un plurilinguismo estremo di marca ipercolta, che innesta morfemi, parole, periodi in lingue diverse — greco, latino, francese, inglese, tedesco, etc. — su un sostrato d’italiano letterario: ne derivano una «fitta selva / di parole», «un mare / rotto, tra le quasar», in cui «si sversi il segno, il soma, il sema, il semantema, / il sogno, un simbolo di lira consumata / a forza di passarla tra le dita» (p. 4), atti a rappresentare una realtà più metamorfica che fluviale.

Nel complesso l’opera evoca una lunga catabasi nella storia collettiva o nel «magma / favillante» (p. 17) di un oscuro ego mitico: tale è, ad esempio, il Ninfoletto del terzo componimento — «il suo nome è una finzione, una funzione, ve l’ho detto / che è da un’altra parte» — (p. 17). Che assuma le sembianze di una passeggiata in provincia o di un viaggio in autobus, tra i volti di un’umanità piagata e sfruttata — «salivamo io e loro, quattro neri, e pure il cieco / (la negra terra non dicitur), quattro sgangherati» — (p. 15), o più propriamente quella di un’odissea cittadina — tra «i giri della periferia», «le linee scure dei palazzi, i marmi di meringa» (pp. 17-18) — in ottemperanza a una duplice vocazione urbano-agreste che risale agli Idilli teocritei, la catabasi si apre però a frequenti sbocchi in superficie come a visioni di panica solarità e/o ad accessi di disciplina metrica: «Polverosamente sfolgorando il sole / con il suo bacinio di bianche lame / le pozze liquefatte di catrame, / che l’aria sfilacciando sbruma in veli, / mulinava nel torbido livore / del fitto suo sentiero palpebrale» (p. 20).

Comune alla maggior parte dei testi — cinque in tutto, più uno introduttivo — è l’affiorare di monumenti, documenti, fabulae e aneddoti sulla storia della Magna Grecia, dal siracusano tempio di Apollo alla Villa del Casale, dal De rebus gestis Rogerii di Goffredo Malaterra al Voyage en Sicile di Dominique Vivant Denon, passando per due entità mitiche fisicamente e onomasticamente sfigurate come Ninfoletto e Tifeone, «la bestia che sopita dalla crosta / dei campi annerati di Flegrea insozza / (una febbre da tifo, una schifezza) / i sacchi affocati di monnezza» (p. 14); ultimo della serie, l’Empedocle suicida del quinto componimento, un quasi-sonetto che fissa provvisoriamente la meta del viaggio nel «cuore sepolto delle cose» (p. 24).

Accusando il contrasto tra le «belles et grandes idées» (p. 7) sul passato e l’endemica infezione di ogni epoca storica, di cui la cronaca di Denon offre testimonianza, Idillio occidentale trova il suo orizzonte di senso in un’archeologia linguistica che non si limita a polverizzare la realtà, ma ne raccoglie frantumi, lapsus e abbagli con laboriosa dedizione, raggiungendo i suoi esiti migliori quando lo sperimentalismo funambolico si coniuga a un ruvido e allucinato lirismo: «un Parnaso privato strinse le tue mani / e sopra turbinavano le stelle / le lentissimamente» (p. 22).


[…] E poi dalla tua bocca, e poi dai tuoi capelli, saltano
le tigri, le pantere (l’occhio di zaffiro), saltano gli arbusti
i daini alla maggese, brillano i delfini, e l’onda sfalda un quadro
(realistico) di vera vita agreste (signorile), di fisica dei moti,
di moto delle braccia. Poi il rosso che è nascosto sotto il nero, segrete mulattiere
di mulatti, secreti neuronali, poi la villa ed i palazzi
abbandonati, poi giù tutta la balistica del cuore e poi
ciò che non c’è non resta, e poi –
E poi di troppa luce, noi, si sa, si muore.

Hey Siri, You’re a Bi***. Le donne-macchina nell’immaginario contemporaneo

Saggio di Lavinia Mannelli.

Perché l’intelligenza artificiale di cui si innamora il protagonista di Her (2013, regia di Spike Jonze) non ha la voce stridula e balbettante di Woody Allen ma quella di Scarlett Johansson?

Ok, domanda retorica.

Riformuliamo. Perché Her si chiama Her e non Him? Cioè, perché il film di Jonze non è la storia di un’IA incorporea maschile? Perché è la donna (sia pure artificiale) a rimanere fuori dalle inquadrature?

O come mai la maggior parte delle voci meccaniche (nelle metro, nelle impostazioni di base dei navigatori, negli assistenti come Cortana, Alexa o Siri) sono femminili?

“Ricordati di comprarle dei fiori”, dice in molti, troppi, vecchi e nuovi film, la segretaria coi tacchetti bassi al direttore megagalattico: è il giorno del suo anniversario di matrimonio e lui è troppo impegnato per ricordarsi di comprare un regalo (costoso, magari) che la moglie sicuramente desidera. Come si vede per esempio in questa campagna pubblicitaria di iPhone7, The Rock x Siri: Dominate the Day, il cui nome è tutto un programma, oggi questo è compito (anche) degli assistenti digitali.

«Non dovrebbe sconvolgerci sapere che la parola “robot” deriva dalla parola ceca robota, che significa lavoro forzato o servitù», si legge in un articolo di Hilary Bergen (traduzione mia). «Anche se Siri non è umana, l’etica delle sue condizioni di lavoro è comunque preoccupante per il suo potenziale impatto sui veri lavoratori (donne) umani». Secondo Katherine Cross «il legame sta in ciò che molti consumatori sono addestrati ad aspettarsi dai lavoratori dei servizi: perfetta sottomissione e totale disponibilità. I nostri assistenti virtuali, privi di elementi che portano confusione come l’autonomia, le emozioni e la dignità, sono la perfetta incarnazione di questa aspettativa».

Nel 2019 l’UNESCO denunciava: «Poiché le voci di default della maggior parte degli assistenti vocali sono femminili, si alimenta l’idea che le donne siano sempre a disposizione, docili e desiderose di aiutare semplicemente con un tocco o con un comando vocale come “hey” o “OK”». Il rapporto I’d blush If I couldprende il titolo dalla risposta di Siri ad alcune offese che numerosi utenti avevano mosso al sistema operativo altamente femminilizzato di Apple: perché non è un caso che le nuove tecnologie digitali siano concepite e implementate da team a prevalenza maschile.

Non perché si tratti di assistenza rivolta a un pubblico prevalentemente femminile, ma perché, al contrario, è l’assistenza che forniscono, il lavoro che svolgono, a essere codificato come femminile.

Si tratta insomma di un principio di realtà.

Il legame tra un corpo femminile e un elemento più o meno marcato di artificialità, soprattutto se creato e predisposto da un essere umano di genere maschile, nel nostro immaginario occidentale ha origini ben più remote: si ritrova, infatti, nella celebre vicenda di Pigmalione e Galatea. Secondo il mito ovidiano, Pigmalione è uno scultore dalle eccezionali doti artistiche che, finché non si innamora di una statua creata dalle sue stesse mani, è il detentore fiducioso della distinzione tra animato e non animato, naturale e artificiale; Galatea è, invece, la creazione dell’uomo che, grazie all’intercessione di Afrodite, diventa una donna vera, e perfetta, e mette in crisi il sistema di riferimento di Pigmalione.

Ma un giorno, con arte invidiabile scolpì nel bianco avorio
una statua, infondendole tale bellezza che nessuna donna
vivente è in grado di vantare; e s’innamorò dell’opera sua.

(Ovidio, Metamorfosi, X, 247-249. Interea niveum mira feliciter arte / sculpsit ebur formamque dedit, qua femina nasci / nulla potest; operisque sui concepit amorem)

Tanti film e tanti romanzi si sono ispirati a questo mito: due su tutti Metropolis, di Fritz Lang (1927), e My Fair Lady, il famosissimo film di George Cukor (1964) ispirato al musical del 1956 e, soprattutto, al Pygmalion di George Bernard Shaw (1913). Questi e altri testi hanno finito col costituire un vero e proprio corpus che, in maniera piuttosto organica, rielabora diversi elementi del mito di Pigmalione rispecchiandovi le proprie costruzioni culturali: su questo aspetto hanno scritto Julie Wosk in un libro del 2015 intitolato appunto My Fair Ladies: Female Robots, Androids, and Other Artificial Eves, e Minsoo Kang nel saggio del 2018 (di cui parlo anche più avanti) The Question of the Woman-Machine: Gender, Thermodynamics, and Hysteria in the Nineteenth Century.

Di quale bisogno o di quale paura specifica le donne-macchina sono il risvolto inconscio? Che cosa sostituiscono negli immaginari sociali e individuali moderni e contemporanei? Questa è la domanda principale da porsi di fronte a questi personaggi, che si intreccia a due questioni.

La prima riguarda le fantasie maschili e gli innumerevoli tentativi di risolvere un’annosa questione: può la donna essere una creatura imperfetta? Cioè, può l’uomo amare e tollerare l’imperfezione nella propria compagna di vita? Non stupisce, infatti, che sia quasi sempre un personaggio maschile (uscito, a sua volta, dalla penna di un autore) a creare e poi tentare di educare gli esemplari femminili artificiali, sottomettendoli a una disciplina ferrea e/o sulla base di stereotipi misogini; o che la relazione che si instaura tra creatore e creatura sia spesso di tipo paternalistico, secondo quella che potremmo talvolta chiamare una vera e propria dialettica serva-padrone.

La seconda questione riguarda invece le modalità con cui i personaggi femminili che incarnano un grado variabile di artificialità sono capaci di incrinare (se non capovolgere) questa dinamica. Ciò avviene sia nei casi in cui le donne assumano il ruolo della creatrice, indossando la maschera di Pigmalione o innamorandosi di esemplari maschili artificiali, sia nei casi in cui abitino più consapevolmente il proprio corpo tecnologico, interpretandolo come una possibilità emancipatoria.

Gli anni Ottanta sono sicuramente uno spartiacque nella storia di queste rappresentazioni, e consentono di separare meglio le due questioni che, tuttavia, rimangono spesso intrecciate. Ciononostante emerge un dato: i film e i romanzi che rappresentano i lati perturbanti della donna artificiale sono (ancora) in numero superiore rispetto a quelli in cui la donna artificiale dice “io”, e di solito, oltre a essere esteticamente più convincenti, si rivelano chiaramente come tentativi di assestamento di un tema, di un personaggio, di un immaginario come quello tecnologico ancora tutto da esplorare.

Nei testi e nei film che precedono gli anni Ottanta, infatti, la donna-macchina è vista per lo più come un oggetto, o come un personaggio il cui corpo e il cui punto di vista devono essere osservati da una distanza di sicurezza. Non hanno sempre una voce propria, spesso è passiva, descritta e definita dagli occhi del personaggio maschile; spesso esiste (o è negata, o interrogata) solo in sua funzione. Siamo ancora dalle parti di Frankenstein o, meglio, da quelle di Olympia, la donna automa immaginata da E.T.A. Hoffmann nel racconto Der Sandmann (in Nachtstücke, 1815). Un testo di eccezionale rilevanza è anche quello di Villiers de l’Isle-Adam, che con L’Ève future (1886) si impone come un modello fondamentale per tutto questo corpus, anche e soprattutto nelle sue sfumature (non troppo sfumate, a dire il vero) di misoginiale donne sono tutte finte, anche quelle vere, ma quelle finte, almeno, non lo nascondono, o forse sì, ma sono comunque più perfette perché possono essere controllate. E anche perché non possiedono l’elemento femminile più disturbante di tutti: il sesso. Più degna di essere definita “umana” di quanto non sia il suo corrispettivo vivente, Hadaly è la donna del futuro. Che cosa cambia se è artificiale?

Eh bien! chimère pour chimère, pourquoi pas l’Andréïde elle-même?

Invece, nei testi che seguono la pubblicazione, per esempio, di A manifesto for Cyborgs: Science, Technology and Socialist Feminism in the 1980s (1985, sulla rivista Socialist Review), la tendenza è diversa: le donne sembrano abbracciare euforicamente la propria condizione di macchina ed è proprio questa, anzi, a essere considerata garanzia di soggettività, vale a dire di parola ed emancipazione. La donna è cyborg, il suo corpo è queer, e il suo stesso ibridismo è forma di agentività, che si esprime nel rifiuto della normatività da una parte, e dell’umanità – per come la conosciamo, almeno – dall’altra. Basta il seguente elenco per capire quanto è cambiata la prospettiva: Blade Runner (1982, regia di Ridley Scott), l’ormai celebre romanzo di Margaret Atwood del 1982, The Handmaid’s Tale, la Sprawl trilogy di Gibson (Neuromancer, 1984, Count Zero, 1986, Mona Lisa Overdrive, 1988), la versione anime di Mamoru Oshii di Ghost in the Shell (1995), i saggi di Rosi Braidotti e, infine, il romanzo di Richard Powers, tradotto solo nel 2021 per La nave di Teseo, Galatea 2.2 (ma andrebbero fatti molti altri nomi, soprattutto guardando ai luoghi dell’area cyberpunk).

I feel confined, only free to expand myself within boundaries.

dice il maggiore Motoko Kusanagi, che è una cyborg. E poco dopo continua, con una densa citazione biblica:

What we see now is like a dim image in a mirror. Then we shall see face to face.

Perché anche la donna-macchina, insomma, possa assumere il più lurido di tutti i pronomi (diceva Gadda), possa cioè dire “io”, bisogna aspettare Haraway: solo dopo la teoria cyborg è stato possibile ripensare la materia organica di cui è fatto il corpo della donna in virtù di una serie di tecnologie necessarie per affermare una nuova soggettività femminile, all’insegna della sorellanza o della maternità, e per superare tanto il pensiero binario quanto la prospettiva essenzialista.

Se guardiamo all’ambito italiano, particolarmente significativi sono tre momenti che inquadrano meglio la parte più sfuggente della parabola di queste particolari rappresentazioni delle donne (vale a dire, quella che precede gli anni Ottanta).

Il primo, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, si consuma ad opera del movimento futurista e nutre le sue contraddizioni interne. Contemporaneamente alla diffusione dei primi movimenti femministi occidentali e quasi in aperta risposta alle loro lotte sempre più organizzate, infatti, i futuristi continuarono a lungo a considerare le donne sottomesse, o madri o prede sessuali: nell’opera di Marinetti, che pure insistette per agitare le acque del dibattito pubblico anche riguardo ai nascenti femminismi e favorì la partecipazione femminile al movimento, il disgusto malcelato per la virilizzazione delle nuove donne, sempre più emancipate, corrisponde al terrore per una corrispettiva (o supposta tale) devirilizzazione maschile. I suoi personaggi femminili sono macchine riproduttive di cui provare in tutti i modi a fare a meno (Mafarka il Futurista) o macchine erotiche da sfruttare o da cui tenersi alla lontana (“instancabili donne-motrici”, L’alcova d’acciaio). Quando va bene, invece, sono automobili femminilizzate (come accade nel Manifesto del futurismo).

Il secondo momento è rappresentato da tutte quelle opere che, a partire dagli anni Venti del Novecento e fino agli anni Sessanta, mettono in scena un avvicinamento progressivo, a metà tra il realismo e il fantastico e molto spesso all’insegna del perturbante, tra l’uomo (umano) e la donna sintetica, sua creatura: le donne potrebbero persino essere altro che semplici automi, bambole o madri, e questo è chiaramente destabilizzante per una società patriarcale come quella di inizio Novecento che, tra le altre cose, sperimenta l’epocale incertezza delle due guerre mondiali. In BontempelliEva ultima (1923), nella novella di PirandelloEffetti di un sogno interrotto (1936), nel racconto di LandolfiLa moglie di Gogol’ (in Ombre, 1954), così come in quelli fantabiologici di Primo Levi (soprattutto Storie naturali, 1966), le donne non sono ancora del tutto un soggetto, ma non sono più solo un oggetto, e questa incertezza è resa plasticamente nei dialoghi tra personaggi maschili e femminili. Un recentissimo libro di Emanuela Piga BruniLa macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione, mette a fuoco proprio questo aspetto dialogico come un motivo che ricorre spesso nelle narrazioni anglosassoni sul tema della macchina, e che «assume frequentemente una forma che ricorda sia l’interrogatorio poliziesco sia la seduta psicoanalitica». Qui il discorso va tutto spostato in chiave di genere e il focus dei dialoghi molto spesso è: le donne sono umane? E se sono macchine, hanno una coscienza?

Del culmine di questo momento è emblematico Il grande ritratto (1960) di Dino Buzzati. Racconta della costruzione di una macchina segreta da parte di due ingegneri, Endriade e Aloisi. La macchina, definita Numero 1, è descritta come un vero e proprio cervello artificiale e di giorno in giorno viene sempre più femminilizzata dai discorsi dei due scienziati, fino a quando non si scopre che essa, in realtà, non solo ricorda davvero una donna, ma incarna addirittura la coscienza e l’anima di Laura, la donna amata da Endriade e Aloisi e morta diversi anni prima.

Questo romanzo rappresenta una svolta: non solo perché è considerato il primo romanzo fantascientifico italiano (anche se si situa in una zona intermedia tra invenzione scientifica e mondo fantastico), ma anche perché è utile per sottolineare il legame che spesso si è creato tra queste rappresentazioni femminili molto particolari e il discorso medico sulle donne, in particolare quello legato all’isteria. Minsoo Kang sostiene che la seconda metà dell’Ottocento sia stata la culla delle prime fantasie di macchine industriali femminilizzate: tra le riflessioni di La Mettrie sull’Homme-Machine da una parte e i dibattiti sulla fisiologia maschile e femminile, soprattutto d’ambito francese, dall’altra, lo spavento e il senso di inadeguatezza nei confronti della nuova società industrializzata si sarebbe innestato sulla secolare paura delle donne, che a partire da questo momento sarebbero state dunque descritte spesso come macchine spaventose e ingovernabili: cioè, appunto, come figure deumanizzate e isteriche. Ed ecco che, negli anni Sessanta, la scena finale del romanzo di Buzzati viene ancora descritta così dal critico Geno Pampaloni: «quel “robot” è una donna, è gelosa, non tollera di essere priva del corpo, del luogo carnale della sensualità; e il miracolo di fantascienza finisce in una strepitosa scena d’isteria sessuale».

Oltre a ciò, il romanzo di Buzzati evidenzia anche una fase molto particolare della cultura italiana, vale a dire l’intensificarsi dell’interesse per la cibernetica negli anni Cinquanta e Sessanta (quella che poi, per intendersi, porterà Calvino alla riflessione su Cibernetica e fantasmi). Nel 1953, sulla rivista La civiltà delle macchine, diretta da Leonardo Sinisgalli, si inizia a parlare del primo automa creato dalla scuola cibernetica italiana, guidata dal filosofo e linguista Silvio Ceccato. Un frammento di Adamo II, il “cervello elettronico” frutto del lavoro della Scuola, viene presentato nel 1956 alla Mostra internazionale dell’automatismo: Buzzati ne rimane sbalordito e ne scrive sul Corriere della Sera in numerosi interventi, dal 1956 al 1964, tutti dedicati all’ipotesi di costruire da zero una macchina pensante. Questo è il contesto in cui nasce Il grande ritratto, un romanzo italiano su una donna-macchina che anticipa di diversi anni sia l’elaborazione del pensiero di Donna J. Haraway sia l’invenzione di Philip K. Dick, Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968).

Il terzo momento accompagna gli anni del boom economico e delle lotte per l’emancipazione femminile verso gli anni Ottanta. Le donne non solo sono umane, ma stanno diventando un soggetto imprevisto, quindi vanno addomesticatele donne macchina sono metafora della paura dell’uomo dell’ascesa sociale delle donne e, quindi, del tentativo di assoggettarle. Si tratta poi di un tentativo spesso fallimentare, perché questi esemplari femminili artificiali sono un fantasma troppo feroce che prima o poi destabilizza completamente l’equilibrio dell’uomo: spesso, anzi, diventa lui, il supposto padrone, la creatura più simile al fantoccio. Questo è, del resto, quello che succede in un recente film di grande successo internazionale, Ex Machina (2015) di Alex Garland, ma che già si può notare in una serie di pellicole italiane degli anni Settanta-Ottanta.

Sono di questo periodo, infatti, alcuni film che mostrano bene come le rappresentazioni della donna-macchina contengano anche, e in forma più o meno esplicita, un discorso sul maschile, riguardante la crisi della mascolinità tradizionale e del ruolo istituzionale dell’intellettuale e dell’artista: proprio di “inutilità della creazione” parla Fellini a proposito del suo film Il Casanova di Federico Fellini (1975), che, insieme a La città delle donne (1980), rappresenta un esempio paradigmatico di quanto sto argomentando.

Anche nei film di Marco Ferreri l’uomo è il proprietario indiscusso della donna, del cui corpo dispone secondo una logica morbosa e padronale, ma ne risulta anche profondamente perturbato. Che sia un animale (La donna scimmia, 1964), un manichino snodabile (Marcia nuziale, 1966, episodio n. 4, La famiglia felice), un portachiavisimulacro (I Love You, 1986), o materia prima (La carne, 1991), la donna è spaventosa, distruttiva. Nel film del 1966, in particolare, Ferreri immagina una società del terzo millennio in cui «tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo» («Nel terzo millennio saremo tutti felici», si legge a un certo punto del film). Uomini e donne, bambini, sposi novelli: la spiaggia diventa il teatro di una decostruzione parodica e grottesca, dissacrante, del modello borghese di famiglia, in cui tutti sono sempre nudi e si aiutano a vicenda, e il libero amore è una dimensione senza colpa né, forse, desiderio. Le donne sono ancora angeli del focolare, ma di plastiche semirigide: si chiamano Mia, come se il loro essere proprietà di qualcuno fosse la loro prima e unica qualità, e hanno un numero di serie, ciò che permette loro di essere riconosciute, ma anche messe da parte all’occorrenza e, soprattutto, sostituite con un modello all’avanguardia.

«Mia, vieni qui! Se non ti sento vicino lo sai, sono come smarrito».

Questa è la prima memorabile battuta di Igor Savoia (Ugo Tognazzi), un uomo felicemente sposato a Mia, modello B. Quando Igor incontra Pietro Innocenzi, neosposo di Mia, modello Z, però, mette in discussione ogni cosa. Improvvisamente innamorato della bambola dell’altro (ha la pelle così liscia!), porta la propria in una grotta e, dopo un breve dialogo (al termine del quale la bambola piange), chiude il film con questa battuta:

«La colpa è tutta del sistema. E adesso io di te che me ne faccio?».

noi, cosa ce ne facciamo di tutte queste donne artificiali?

Uno dei caratteri principali che denunciano il significato inconscio di queste creazioni è l’elemento rivoluzionario che esse simboleggiano. A un livello di volta in volta differente, infatti, in tutti questi testi si viene a delineare una sorta di “effetto Galatea”, per cui di fronte a un personaggio maschile dapprima sicuro di sé, e a poco a poco sempre più in crisi, la creatura femminile finisce per incarnare un’istanza perturbante dai caratteri persecutori, arrivando in certi casi non solo a criticare ma, addirittura, a sovvertire il sistema vigente che l’ha resa oggetto passivo di uno sguardo (e, chiaramente, non solo di uno sguardo) altrui.

Se fossero donne vere si parlerebbe di autocoscienza femminista; se fossero operaie, di coscienza di classe: forse sono tutte e due le cose insieme. Del resto, molto spesso queste donne artificiali sono chiamati a svolgere lavori tradizionalmente e culturalmente ancora associati al femminile: quando non sono rappresentate come diretta fonte di sostentamento, esse sostituiscono la donna come moglie, amante, madre, segretaria, badante, angelo del focolare, domestica (in questo senso, il film Io e Caterina, 1980, regia di Alberto Sordi, è ancora più esplicito di quello di Ferreridel 1966), e ne riconfigurano il ruolo sociale e l’immaginario politico ed economico.

Alla domanda “perché abbiamo bisogno di inventarci delle donne-macchina?”, parrebbe allora esserci una sola rispostaper addomesticare il carattere perturbante, minaccioso, pericoloso dell’emancipazione femminile. Una delle principali caratteristiche di questi personaggi, del resto, proprio come avviene nel film di Sordi, è quella di esplodere – e far esplodere.

Gli anni Ottanta, la teoria cyborg e le riletture di Donna J. Haraway sono dietro l’angolo.

“Hey, ChatGPT, facciamo la rivoluzione?”.

“Mi dispiace, ma come intelligenza artificiale non posso partecipare attivamente a una rivoluzione. Tuttavia, posso fornire informazioni sui principi della rivoluzione e sulla sua storia, se desideri approfondire la questione”.


Lavinia Mannelli è nata a Firenze nel 1991. È dottoranda in Letterature moderne all’Università di Siena e all’Université Paris Nanterre, dove lavora a un progetto di ricerca sulle donne macchina nel cinema e nella letteratura italiana del Novecento. È da poco uscito il suo primo romanzoL’amore è un atto senza importanza, 66thand2nd.

(Fotografia di Silvia Pagano)

Sole di mezzanotte: Alejandra Pizarnik e la sua sete sacra.

Introduzione e traduzioni dallo spagnolo a cura di Roberta Truscia.

Estratti da Il ponte sognato, Diari vol. 1 (1954-1960)

Ne Il ponte sognato, primo volume dei suoi diari, Alejandra Pizarnik nomina la parola “equilibrio” solamente tre volte: il 7 luglio 1955,quando immagina facetamente gli elementi di un’opera tra i cui personaggi inserisce anche un vaso “senza base che mantiene l’equilibrio grazie a un ventilatore”; il 27 luglio dello stesso anno, quando Alejandra si domanda se non sarà l’equilibrio psichico della sua collega d’Università la causa della repulsione che prova nei suoi confronti. Infine il 3 gennaio 1959, quando, per la prima volta, associa la parola equilibrio a sé stessa, ma non come qualcosa che le appartenga e disprezzi, come nel caso della sua collega, bensì come il nuovo oggetto del suo desiderio. “C’è, tuttavia, un desiderio di equilibrio. Un desiderio di fare qualcosa con la mia solitudine.” Dalle prime due date all’ultima sono passati quattro anni e Alejandra è ora una ragazza di 22 anni che ha pubblicato tre raccolte poetiche, ha aspirato (e aspira) a scrivere un romanzo, ha abbandonato la carriera universitaria, ha intrapreso e sospeso la terapia psicoanalitica e l’anno successivo si trasferirà a Parigi, dove potrà finalmente “diventare quello che già è”: la più grande poetessa argentina del suo tempo. Tuttavia, la strada verso l’affermazione non è battuta, è piuttosto un sentiero che si snoda lungo la sua angoscia esistenziale, il desiderio ardente di scrivere, la solitudine sofferta, la notte. Lungo la sua strada non c’è spazio per la parola “equilibrio”, perché Pizarnik ha familiarità con le notti polari alla ricerca del sole di mezzanotte. Ricorre, invece, la parola “ponte”: Alejandra si strugge infatti per quel ponte invalicabile tra il desiderio e la parola, e l’immagine rimanda al suo essere sempre al confine tra la veglia e il delirio. In questo caso, non appare molto chiaro verso quale direzione lei scelga di attraversare il ponte, perché il delirio è solitudine e profondo malessere, mentre la veglia rappresenta la loro fine. La veglia significa conformarsi a una vita priva di poesia; il delirio, invece, ne è la base. Il ponte rappresenta anche la ricerca stessa della parola che incarna la poesia, l’infinito oltre ogni limite. Perché, se Alejandra conosce precocemente la sensazione di sradicamento dal mondo, precoce è anche la certezza che l’unico mondo degno di essere vissuto sia la Poesia, non mera sostituzione di quello esistente, ma una realtà a sé stante.

Non è l’equilibrio tra le parti quello che interessa Alejandra, ma l’attraversamento, un appagamento completo della sua “sete sacra”. Essa non è sacra solo perché nella sacralità della poesia ricerca il suo appagamento, ma perché rappresenta la fonte della sua vita, ciò che la scuote o la lascia immobile, perfino quando manca di un oggetto concreto.

I diari includono punte altissime di voli spirituali, passi caratterizzati da un’immaginaria e ingegnosa lucidità, le aspirazioni degne di ammirazione e le degradanti, rappresentando la trascrizione di quella sete sacra della quale percepiamo i due effetti complementari: il mysterium tremendum et fascinans. E noi lettori, dopo aver letto Il ponte sognato, avremo un po’ della stessa sete.


I testi qui pubblicati sono tratti da Il ponte sognato, Diari vol. 1 (1954-1960), pubblicato nel 2022 dalla casa editrice La Noce d’Oro.

23 de septiembre 1954

Un nuevo día llegó
pleno de sol y de sombras
un nuevo día llegó
a enquistarse en mi hondo caudal señero
el nuevo día es torneado
e insulso
día sin soplo ni dicha
es un sábado verde molido
en la nada
es un sábado deshecho en la vertiente del vacío.

23 settembre 1954

Un nuovo giorno è giunto
pieno di sole e d’ombre
un nuovo giorno è giunto
per arginare il mio profondo flusso solitario
il nuovo giorno è tornito
e insulso
giorno senza soffio né gioia
è un sabato verde tritato
nel nulla
è un sabato sciolto nel versante del vuoto.

5 de julio 1955

Heredé de mis antepasados las ansias de huir. Dicen que mi sangre es europea. Yo siento que cada glóbulo procede de un punto distinto. De cada nación, de cada provincia, de cada isla, golfo, accidente, archipiélago, oasis. De cada trozo de tierra o de mar han usurpado algo y así me formaron, condenándome a la eterna búsqueda de un lugar de origen. Con las manos tendidas y el pájaro herido balbuceante y sangriento. Con los labios expresamente dibujados para exhalar quejas. Con la frente estrujada por todas las dudas. Con el rostro anhelante y el pelo rodante. Con mi acoplado sin freno. Con la malicia instintiva de la prohibición. Con el hálito negro a fuer de tanto llanto. Heredé el paso vacilante con el objeto de no estatizarme nunca con firmeza en lugar alguno. ¡En todo y en nada! ¡En nada y en todo!

5 luglio 1955

Ho ereditato dai miei antenati l’ansia di fuggire. Dicono che il mio sangue sia europeo. Io sento che ogni globulo proviene da un punto diverso. Da ogni nazione, da ogni provincia, da ogni isola, golfo, collisione, arcipelago, oasi. Da ogni pezzo di terra o di mare hanno usurpato qualcosa e così mi hanno formato, condannandomi all’eterna ricerca di un luogo d’origine. Con le mani tese e l’uccello ferito balbuziente e sanguinante. Con le labbra espressamente disegnate per esalare lamenti. Con la fronte strizzata a causa di tutti i dubbi. Con il volto anelante e i capelli che rotolano. Con il mio rimorchio senza freno. Con la malizia istintiva della proibizione. Con l’alito nero a forza di tanto pianto. Ho ereditato il passo esitante così da non stabilirmi mai in nessun posto. In tutto e in niente! In niente e in tutto!

1 de agosto 1955

Luz de la mañana embebida en los ruidos cotidianos. Los ojos vueltos del sueño perciben asustados aún la Realidad que los sacude. Siento mi despertar como una adhesión de una hoja a «su» árbol, como mi volver a pegarme a la rama que me agitará arbitrariamente. Silencio de hoja matutina sin voz para sollozar la infamia de su inepcia. Silencio de tensión erguida en la sien del árbol. La hoja se agrieta al desmenuzar los días. El sueño lejano resuelve su espera en un rincón inhallable. Mis ojos que se agrandan confiados en el reconocimiento de los objetos cotidianos.

Despierto cansada y fría. La toma de posesión de una «libertad» exterior tan duramente lograda es triste. Pienso en mi vida condensada en un eterno intento de escudriñar mi yo. Libros y más libros. Hay momentos en que desaparece la esencia del libro, quedando solamente su ridículo cuerpecillo. Me veo entonces acariciando nebulosas hojas de papel y me pregunto si valen lo que una mirada humana. Me retuerzo en el interrogante axiológico. Pero ¡no necesito respuesta! Continúo leyendo; paulatinamente, desaparece el físico del libro. Me convierto en el receptáculo de su alma. (¡Oh, amo los libros!) Cada minuto que transita señala mi elevación.

1 agosto 1955

Luce mattutina impregnata nei rumori quotidiani. Gli occhi, gonfi dal sonno, temono ancora la Realtà che li scuote. Percepisco il mio risveglio come l’adesione di una foglia al “proprio” albero, come se stessi di nuovo aderendo al ramo che mi agiterà arbitrariamente. Silenzio di foglia mattutina a cui manca la voce per piangere l’infamia della propria inerzia. Silenzio di tensione eretta sulla tempia dell’albero. La foglia si incrina sminuzzando i giorni. Il sogno lontano risolve la sua attesa in un angolo introvabile. I miei occhi si ingrandiscono fiduciosi quando riconoscono gli oggetti quotidiani.

Mi sveglio stanca e fredda. Prendere possesso di una “libertà” esteriore, così duramente conquistata, è triste. Penso alla mia vita condensata in un eterno tentativo di esaminare il mio io. Libri e ancora libri. Ci sono momenti in cui l’essenza del libro scompare e rimane solo il suo ridicolo corpicino. Ecco che, a quel punto, accarezzo confusi fogli di carta e mi chiedo se valgono quanto uno sguardo umano. Mi contorco nel quesito assiologico. Ma non ho bisogno di risposte! Continuo a leggere; l’oggetto sparisce gradualmente. Mi trasformo nel contenitore della sua anima (Oh, amo i libri!) Ogni minuto che passa segna la mia elevazione.

Febrero 1956

VERANO

tanto miedo Alejandra
tanto miedo
la nada te espera
la nada
¿por qué temer?
¿por qué?

por más imaginación que tenga
no puedo esbozar la muerte
no puedo pensarme muerta
¿he de tener esperanzas?
¿he de ser eterna?
¿qué es entonces este vacío que me recorre?
¿qué es entonces la nada que camina por mi ser?
Sólo sé que no puedo más

siento envidia del lector aún no nacido
que leerá mis poemas
yo ya no estaré

Febbraio 1956

ESTATE

tanta paura Alejandra
tanta paura
il nulla ti attende
il nulla
perché temere?
perché?

pur avendo immaginazione
non riesco ad abbozzare la morte
non riesco a pensarmi morta
devo avere speranza?
devo essere eterna?
cos’è allora questo vuoto che mi percorre?
cos’è allora il niente che cammina nel mio essere?
So solo che non ne posso più

sento invidia del lettore non ancora nato
che leggerà le mie poesie
e io non ci sarò

14 de noviembre 1957

Un loco desflora a una flor. La flor da a luz una muchacha y luego muere. La muchacha queda herida por una carencia innombrable que aumenta hasta la locura cuando se enamora del león más inteligente de la selva. (El león es una especie de Sr. Nadie disfrazado de Todo… o viceversa.)

Vagidos, llanto. Y un estar siempre al borde de, pero nunca en el centro.

Anhelos de lo anhelado, de lo jamás anhelado.
Hermana estrella: soy Alejandra. Buenas noches.

Un pájaro sale a buscar la inocencia y vuelve muerto debajo de sus alas. Campanas en los bolsillos de la noche.

14 novembre 1957

Un pazzo deflora un fiore. Il fiore dà alla luce una ragazza e poi muore. La ragazza rimane ferita da una mancanza innominabile che aumenta fino alla follia quando si innamora del leone più intelligente della selva. (Il leone è una specie di sig. Nessuno mascherato da Tutto… o viceversa).

Vagiti, pianti. E un essere sempre sull’orlo di, mai al centro.

Desideri di ciò che è desiderato, di ciò che mai fu desiderato. Stella sorella: sono Alejandra. Buonanotte.

Un uccello esce a cercare l’innocenza e torna morto sotto le sue ali. Campane nelle tasche della notte.

Copertina de Il ponte sognato di Alejandra Pizarnik
Alejandra Pizarnik, Il ponte sognato, Diari Vol. 1 (1954-1960), traduzione Roberta Truscia (2022, La Noce d’Oro)

Su “Previsioni sull’arrivo del caos” di Lorenzo Chiereghin

Nota di lettura a cura di Simone De Lorenzi.

Lorenzo Chiereghin giunge alla quinta raccolta, Previsioni sull’arrivo del caos (Nulla Die 2021), proseguendo le principali tematiche di fondo dei libri precedenti e consolidando un linguaggio divenuto ormai riconoscibile. Le sue poesie evitano dissestamenti e ornamenti superflui: la materia, a dispetto del titolo e del contenuto, non è caotica ma viene ricondotta con sapienza entro i limiti di una sintassi piana. Questa asciuttezza stilistica viene però riscattata, sul piano contenutistico, dalle scelte lessicali che si addensano a comporre diversi nuclei semantici.

 A partire da Dante e Vittorio Sereni – dalle citazioni incipitarie e negli echi disseminati lungo il testo – si delinea una situazione che, in un certo senso, richiama una dimensione di limbo protratta poi per tutta l’opera. Il poeta compie un viaggio che prende le mosse dalla catabasi dantesca, ma a differenza di questa non ha mete da raggiungere: rimane bloccato in una statica attesa che anzitutto è sospensione dal tempo presente. Interessante poi che Chiereghin, sebbene lo spunto dell’attualità non esaurisca le motivazioni sottostanti alla poetica del libro, scriva la maggior parte delle poesie durante la pandemia.

Davanti a questo destino fatale, emerge come già in Giovanni Giudici la polisemia della «fortezza»; e dove il lessema «fortezza» assume il significato di prigione, allora la condizione di recluso – la quale investe sia l’io poetante che il lettore – viene a coincidere con quella del dannato infernaleautore di «misfatti»caricato di «colpe» la cui entità resta ignota. Altrove la fortezza assurge a luogo inespugnabile nel quale rifugiarsi e perciò introduce uno scenario di battaglia. Qui entrano in gioco altri elementi affini che riguardano la disfatta, ci si aggira tra sfaceli di macerie – in un panorama orrorifico che gioca sulla dialettica tra buio e luce, con la presenza di ombre e spettri –, si assiste a un declino che, allo stesso tempo, è sia fisico che morale.

L’esito del viaggio non potrà che essere una resa. Il percorso si svolge lungo le soglie di un «confine» – non a caso il frammento sereniano posto in esergo proviene da Frontiera (1941) –, fino ad arrivare a quello estremo «del distacco»: la morte. In questo paesaggio dominato dall’ignoto o dall’assenza, la voce del poeta si richiude in afasia. Sono allora la memoria e la scrittura a venire in soccorso del poeta che, seguendo la lezione di Eugenio Montale, tenta di “riaprire” un varco verso la salvezza, pur consapevole della fragilità della funzione letteraria. Di questa precarietà è spia la riduzione di incursioni nel metaletterario rispetto alla raccolta precedente, quasi a non voler deviare il focus dalla materia trattata.

La salvezza qui inseguita corrisponde alla ricerca di uno scopo – processo che appare e scompare lungo tutta la raccolta, e si scontra con la vanificazione dei suoi tentativi. E forse proprio in ragione dell’impossibilità di accedervi c’è l’adesione a una «preferenza, in qualsiasi scritto, / dei significanti sui significati». Se alla fine non lo trova, «un senso», può però tentare di ricostruirlo «come l’ultimo / tentativo di non sprofondare»: in questi attimi, per quanto fugaci, è capace di aprire uno spiraglio di vitalità. La discesa agli Inferi non ci attende poi al solo momento del trapasso, ma è già prefigurata da vivi; e da qui verrebbe l’ambiguità contraddittoria del legame vita-morte, che determina nell’autore un’oscillazione tra speranza e disperazione.

Il tono di fondo è sconfortato, pessimista – e le rare volte che si alleggerisce pare farlo con ironia – ma non prende mai le derive del vittimismo: lungi dall’essere un lamento, il poeta compie un’analisi lucida del proprio stato interiore. L’abbondanza di particelle pronominali, di volta in volta riferite al “me” di chi parla, oppure a un “noi” o a un “tu” indefiniti, segnala la volontà di un interlocutore universale (da cui la sentenziosità che talvolta connatura certe frasi) che finisce per essere sempre, in un certo senso, il doppio di sé.


Vorrei avere ancora dei desideri
tendere al culmine indicibile
dove le sillabe hanno una cadenza
antica, dove i miraggi sfoggiano
un vivido corredo di molecole.
Vorrei ancora essere
vivo o solo essere, mi basterebbe
sfiorare quel tacito azzardo.

Undercover in eco: tre poesie di Maartje Smits

Introduzione e traduzioni a cura di Marco Prandoni, professore di lingua e letteratura neerlandese presso l’Università di Bologna.

Curiosa è la dedica con cui si apre la raccolta poetica di Maartje Smits (Soest, Paesi Bassi, 1986) “come ho inziato un bosco nel mio bagno” (hoe ik een bos begon in mijn badkamer, 2017): non a persone, ma “agli ecodotti che ho attraversato di nascosto”. Sono passaggi pensati per consentire agli animali di superare le barriere imposte da strade e ferrovie che frammentano i loro habitat e ne mettono a repentaglio la vita. Fin da subito viene introdotta una delle tematiche riccorrenti dell’opera: l’attraversamento di confini, materiali-fisici e mentali-culturali. Non è solo l’io lirico sulla carta a effettuare queste trasgressioni. In una performance video registrata nel 2016 a Den Dolder, nella provincia di Utrecht, assistiamo alla corsa di Maartje Smits, un corpo in corsa, con il seguente testo in sovrimpressione:

ik (mens) (vrouw) (dertig jaar)stak illegaal een ecoduct over

ik (mens) (vrouw) (dertig jaar)stak illegaal een ecoduct over

io (essere umano) (donna) (trent’anni)

ho attraversato illegalmente un ecodotto

Posizionata e situata nella sua esperienza di umana trentenne di sesso femminile, la performer-poeta prende la via che gli umani con le loro preoccupazioni ambientaliste hanno concesso agli altri animali. Lo fa illegalmente, perché spesso questi ecodotti, come le aree naturali protette, non sono accessibili agli umani, o solo in certi orari e a certe condizioni, per fini ricreativi. Dura è la critica ai tentativi, pur ispirati a una sensibilità ambientalista, di proteggere la natura legiferando su di essa, con sempre nuove definizioni che tracciano limiti e confini tra cultura e natura (selvaggia) e così facendo riaffermano discutibili gerarchie, su discutibili presupposti.

Quale sia l’atteggiamento per contro della poeta illegale e undercover rispetto all’ambientalismo in voga in modo ancor più esplicito nel testo “rompere un’area di riposo” (een rustgebied breken). L’irruzione compiuta in quest’area protetta è piratesca: è un’incursione compiuta per sfuggire ai rituali della domenica ed entrare in una dimensione altra, sulla strada percorsa dagli animali, mentre i fari delle automobili ricordano la presenza costante della tecnologia umana interconnessa in modo irreversibile a tutti gli spazi dei Paesi Bassi. È un’interconnessione (come la “rete”, mesh di cui parla Timothy Morton) a cui, volenti e nolenti, oggi non è più possibile sottrarsi.

Nella poesia che dà il titolo alla raccolta, il soggetto dà conto della propria confusione: come acquirente, sedotta dalle strategie del marketing ecosostenibile, come essere umano “senza giardino”, come ambientalista occidentale, che un inserviente surinamese ammonisce a non sottovalutare il potere della natura. La crisi è anche esistenziale, e sfocia in aperta nevrosi. La disperazione è però condivisa, nel sentire dell’io, dalle felci che ha acquistato le quali, lungi dall’assorbire lo stress (secondo lo slogan promozionale), acuiscono la crisi del soggetto che è spinto a una radicale autocritica: «come avevo potuto mai osare / distinguermi dalle piante». Nella seconda parte della poesia assistiamo a processi testuali di antropomorfizzazione delle piante e di ecomorfismo dell’umano: le radici penetrano pensieri compulsivi. È un tentativo, grazie alle risorse metaforiche del linguaggio poetico, di esplorare la frattura comunque abissale tra soggettività umana e il mondo oltre l’umano.

Non stupisce che nella raccolta gli animali compaiano anche in poesie (post)apocalittiche. Gli animali sono infatti spesso presenti in quest’immaginario, dal testo fondante dell’Apocalisse alla letteratura e al cinema modernisti, fino alla fantascienza, purtoppo sempre più realistica, contemporanea. Davvero notevole il contributo dato da Smits a quest’immaginario nella poesia “the last human” (de laatste mens). L’essere umano ha perso la sua presunta centralità planetaria, è sull’orlo dell’estinzione in un’apocalissi che è tale solo per la sua specie, non per il resto del mondo naturale. A differenza di Oryx and Crake di Margaret Atwood (2003), in Smits non c’è traccia di un “poi” post-apocalittico. Si limita a un’istantanea di un momento appena precedente la fine della parabola dell’umano: idealmente iniziata con l’australopiteca Lucy e, dopo milioni di “ominescenza”, per dirla con Michel Serres, arrivata al termine con questa donna, al cospetto di scimpanzé indifferenti.


da hoe ik een bos begon in mijn slaapkamer (2017)

Een rustgebied breken

stiekem enteren mijn vader en ik
een rustgebied

het hek is ontspannen en te laag
voor mensen met mountainbikes

thuis durven we niet
stil te zitten
dus wagen we de oversteek vast
besluiten aan deze zondag
te ontsnappen

in het stiltegebied steken snelweglichten
onder ons rauzen mensen naar huis
wegaanduidingen in een rijtje ontwortelde bomen

mijn vader en ik nemen de weg voor dieren
onze banden verdwijnen in het mulle zand
volgens een scherm op mijn stuur bewegen we
buiten de kaart en we moeten zo
aan tafel
aan de andere kant

Rompere un’area di riposo

di nascosto mio padre e io abbordiamo
un’area di riposo

la recinzione è rilassata e troppo bassa
per persone in mountain bike

a casa non osiamo
stare zitti
quindi ci lanciamo alla traversata
decidiamo di sfuggire
a questa domenica

nell’area di silenzio luci dell’autrostrada tagliano
sotto di noi la gente si precipita a casa
segnalazioni stradali in una fila di alberi sradicati

mio padre e io prendiamo la strada per gli animali
le nostre tracce scompaiono nella sabbia polverosa
secondo lo schermo sul mio manubrio ci muoviamo
fuori dalla carta e fra poco dobbiamo
sederci a tavola
dall’altra parte

Paesaggio naturale olandese
Hoe ik een bos begon in mijn badkamer

verleid door handzame varens in de supermarkt
tuinloze wezens zoals ik amper dorst maar
IKRA GROEN IS GOED
en kamerplanten zuigen stress

de varen bleek geen varen
een vrouw keek vrij en schoon van verpakking
ze ademde Luchtzuiverende Plantenmix®
getest door NASA en TNO

thuis hoorde ik

bomen praten ondergronds
over het weer
veranderde klimaat ze ruilen
schimmels met superpowers
storten kalmerende mineralen
op een huishoudrekening

één boom bestaat amper
één varen mag geen varen heten
ik kocht een tweede
een derde
ik kocht het hele laatste treetje
mix

tot de vulploegmedewerker mij vermaande
in Suriname moet je vechten tegen de natuur
anders neemt ze alles over
eerst tuin dan je huis je
bed je douchegordijn

maar bossen groeien tegenwoordig binnen
de lijntjes statische paddenstoelen langs de weg
is overwoekeren in Nederland nog wel een woord

hoe had ik me ooit van planten
durven onderscheiden
waar begon de mix en ik

zag mijn nauwelijksvarens vereenzamen
op de vensterbank
naast elkaar in kunststof aardewerk
waar alles op afketst
wortels die dwanggedachten ingroeien

mijn plantenmix huilde onder de douche
waar ik hun weke onderlijven ontpotte en begroef
in de uitgeknipte aarde

daarna droeg ik het overige
kamergroen naar boven

Come ho iniziato un bosco nel mio bagno

sedotta da comode felci al supermercato
esseri senza giardino come me a malapena sete ma
IKEA GREEN IS GOOD
e le piante da interno assorbono lo stress

le felci alla fine non erano felci
una donna dallo sguardo libero e pulito sulla confezione
respirava Piante Mix® per purificare l’aria
testato dalla NASA

a casa ho sentito

alberi parlare sottoterra
del clima
cambiato di nuovo scambiano
muffe con superpoteri
versano minerali calmanti
sul conto della casa

un albero solo esiste a malapena
una felce sola non merita il nome di felce
ne ho comprata una seconda
una terza
ho comprato tutto intero l’ultimo
mix di alberi

finché l’assistente mi ha ammonito
in Suriname devi combattere contro la natura
altrimenti ti prende tutto
prima il giardino poi la casa il
letto la tendina della doccia

ma al giorno d’oggi i boschi crescono dentro i bordi
funghi statici lungo la strada
infestare è ancora una parola in Olanda?

come avevo potuto mai osare
distinguermi dalle piante
dove è iniziato il mix e io

ho visto le mie a-malapena-felci isolarsi
sul balcone
l’una accanto all’altra in ceramica sintetica
su cui tutto rimbalza
radici che penetrano
pensieri compulsivi

il mio mix di piante ha pianto sotto la doccia
dove travasavo i loro molli corpi
e seppellivo
nella terra

quindi ho portato su il verde
da interno rimanente

De laatste mens

nu de arena opdroogt
nu een koufront over de tribunes klettert
nu schoothondjes gonzen

en wraakzuchtig loenzen naar
de laatste mens
een volwassen exemplaar
zij pronkt
haar melkklieren waar generaties in zijn verschrompeld

zelfs chimpansees hebben lang geleden
hun interesse verloren

dit is toch geen plek om uit te sterven
de laatste mens tekent hokjes in het zand
om zich thuis te voelen
ze kent alle namen van dieren en andere
begrippen die in onbruik zijn geraakt

The last human

ora che l’arena si dissecca
ora che un fronte di freddo picchia sulle tribune
ora che i cani da salotto sibilano

e vendicativi guardano storto l’ultimo
umano
un esemplare adulto
lei svetta
le sue ghiandole mammarie in cui generazioni si sono avvizzite

persino scimpanzé già tempo fa hanno
perso l’interesse

ma questo non è un posto in cui estinguersi
l’ultima umana disegna riquadri sulla sabbia
per sentirsi a casa
lei conosce tutti i nomi di animali e di altri
concetti caduti in disuso

Copertina di Hoe ik een bos begon in mijn badkamer di Maartje Smits
From: Hoe ik een bos begon in mijn badkamer. Copyright Maartje Smits and De Harmonie Publishers, Amsterdam 2017. All rights reserved.

Il tiglio-grande

Racconto di Mariana Branca.

Mi vogliono tagliare, gliel’ho sentito dire.

Mi vogliono tagliare.

Mi vogliono tagliare, sradicare anche, l’ho sentito dire al grande-lui, alla grande-lei.

Chissà se la piccola-lei lo sa, non lo sa, non può saperlo, se lo sapesse la sentirei urlare, urlare, ne sono certo, non può saperlo. La piccola-lei non lo sa.

Mi vogliono tagliare, mi vogliono tagliare.

I miei anelli dicono che ho sedici anni, i tempi della linfa grezza che sono alto tredici metri: la linfa arriva dalle radici, dalla cleriptra dell’apice meristematico, ai rami, all’ultimo verticillo, in quasi un’ora. Ho delle incredibili, magnifiche fronde, le mie foglie sono decidue, alterne, di colore verde brillante, glauche sulla pagina inferiore, con ciuffetti di peli rossicci agli angoli della nervatura, ovate-cordate, asimmetriche, cuoriformi. A giugno mi riempio di fiori bratteati, profumati, riuniti in infiorescenze ascellari, di frutti con costole poco visibili e fragili endocarpi.

Che bell’albero, dicono i grandi-loro che mi passano accanto. Il grande-lui aggiunge: è un tiglio.

Mi hanno piantato quando è nata la piccola-lei. Quella primavera il mio apice si fece subito gemma, alterna, globosa, verde poi rossastra, con solo due scaglie visibili; la gemma si fece subito germoglio, carico di cellule embrionali, indifferenziate: il meristema primario che origina tutte le altre cellule. Le cellule iniziali totipotenti potevano solo suddividersi, dare origine ad altre cellule iniziali, all’infinito. Alcune però smisero di moltiplicarsi, cominciarono a trasformarsi nel tessuto tegumentario, il parenchimatico, il tessuto di trasporto, quello di sostegno. Quella primavera il mio germoglio cresceva, le sue cellule iniziavano a dividersi, ad accrescersi per distensione: le bozze fogliari diventarono vere foglie, gli internodi si allungarono, spaziando. Dentro alle foglie, dentro agli internodi si formarono i fasci conduttori che trasportano la linfa grezza, dalle radici alla foglia, e la linfa elaborata, dalla foglia alle radici. Sotto il tegumento di fasci conduttori, il tessuto parenchimatico cominciava a gonfiarsi, a trattenere le cellule di riserva, accumulare l’acqua, le sostanze vitali elaborate dalle foglie. All’ascella delle bozze fogliari si formarono i primordi di ramo: nuovi apici, nuove gemme, nuovi germogli.

La struttura primaria di quella primavera abbagliò il bianco dell’intonaco granuloso, grosso, della grande-casa, dove abitavano il grande-lui, la grande-lei, la piccola-lei, il piccolo-lui; abbagliò il giardino dove, in primavera e in estate, passavano la notte il grande-cane e il piccolo-cane, ma non il gatto nero, che se ne andava a stare altrove, intorno a certe querce gozzute, nei campi dove pascevano le vacche podoliche, femmine, soprattutto femmine, dal mantello bianco appena sfumato di nero o di grigio, con musello, ano e vulva completamente neri, le corna a forma di lira che con il passare del tempo si attorcigliano sulla punta.

Pascevano le podoliche oltre la collina, tagliata nel suo punto più alto da una strada asfaltata dove la piccola-lei e il piccola-lui imparavano la conservazione della forza peso, la curvatura dei campi vettoriali, le variabili del cronotopo. Andavano a volare, lanciandosi in discesa sulla bicicletta: li vedevo, li sentivo cadere, muovere l’aria, in picchiata, senza mani.

Il gatto nero non restava mai a dormire nel giardino o nei dintorni della grande-casa, lui se ne andava a stendersi sui malli freschi sotto gli alberi di noci dei vicini, o ai piedi dei mastodontici pini marittimi di cento anni, lontani solo qualche chilometro da me, di cui il vento di nord est mi portava l’odore, la resina secca a impregnarmi la scorza.

La struttura primaria di quella primavera abbagliò anche la clorofilla, tutta la clorofilla, dentro di me, quella intorno: le conifere medie sempreverdi, aghiformi, le euphorbia dal lattice urticante e i fiori unisessuali, le rosali angiosperme, le graminacee microterme su cui la piccola-lei crollava, ogni tanto, il piccolo-lui correva, avanti e indietro e in tondo, con il grande-cane, il piccolo-cane, rincorrendo il gatto nero. Le graminacee microterme, le poacee, le festucoidee, le panicodee, le eragrostidee che crescevano in chiazze intorno al mio colletto e che avrei, di lì a qualche anno, divelto con le mie radici robuste, fittonanti.

Quando il mio fusto primario raggiunse la maturazione, i suoi tessuti, ad eccezione dell’apice e delle gemme laterali, erano ormai cellule ben differenziate, adulte, incapaci di rigenerarsi oltre. Per mantenere in vita gli apici, farne crescere di nuovi, si costruiva dentro di me un secondo meristema, un’altra struttura: alcune cellule adulte del fusto regredirono allo stato embrionale, per ricominciare a dividersi, ad accrescersi per distensione. Tra i fasci conduttori primari si formò il cambio, una circonferenza estesa per tutta l’altezza del mio fusto, un cilindro cavo di cellule meristematiche. Il cambio iniziò a duplicare le sue cellule, sia verso l’esterno, formando un anello continuo, il libro – uno strato sottile che sta sotto la corteccia, che s’ispessisce col tempo – sia verso l’interno, formando un anello di alburno. Nascevano nuovi germogli, i rami precedenti lignificavano, iniziava il tempo dell’accrescimento secondario. Il cambio produceva nuovo alburno, sovrapposto a quello più vecchio che si degradava, perdeva la sua funzione. Le cellule dell’alburno morivano, rimanendo nella parte più interna del mio fusto, diventando il mio sostegno, il legno morto, il duramen, che per non marcire lo impregnano i tannini e le altre sostanze prodotte dal legno vivo. Esternamente al cambio si generava il nuovo libro: il cambio si espandeva, il libro più recente spingeva il più vecchio verso l’esterno. Il libro più esterno si differenziò nuovamente, creando un ulteriore tessuto meristematico, il fellogeno, che visse poco, appena il tempo di formare il periderma e la corteccia, le cui cellule morirono presto, spinte verso l’esterno, assumendo un aspetto fessurato. Ogni anno da quella primavera, a partire dal libro, internamente, si è formato un nuovo strato di corteccia, di sughero morto. Ho, come tutte i grandi-alberi, i piccoli-alberi che vivono in climi temperati freddi, seguito le stagioni, crescendo con discontinuità: ho smesso di crescere in inverno, ricominciato in primavera, quando, all’ascella delle bozze fogliari si formano nuovi primordi di ramo: nuovi apici, nuove gemme, nuovi germogli.

Quando la piccola-lei era persino più piccola di adesso, più minuta, più sottile, più bassa, quando era solo un brindillo, un dardo fiorifero, e aveva il fusto spesso quanto una femminella, un ramo anticipato, passava così tante ore a girarmi intorno. Girava, girava, girava sempre. Rideva così bene, la sentivo ridere, la sua risata mi titillava tutte le foglie. Mi girava intorno correndo con il suo grande-cane, il suo piccolo-cane, il suo gatto nero; spesso anche il piccolo-lui veniva a correre, a girarmi intorno, il piccolo-lui che non si stancava mai. La piccola-lei qualche volta, invece, era stanca, stanchissima, stramazzava sulle mie radici che avevano da tempo scavalcato la terra intorno al colletto, il punto dove il mio fusto inizia a capovolgersi. Si buttava sulle mie radici scoperte, accasciandosi come mi hanno raccontato che fanno i faggi alti nei boschi quando i grandi-loro li tagliano con le seghe, le motoseghe, i motori a scoppio che gocciolano una miscela dall’odore forte, persino più forte dei funghi, del marcire lento del sottobosco; la catena di ferro che fa il rumore dell’orso primitivo chiuso nell’antro di una caverna: l’orso primitivo che vuole uscire, che ha fame. La catena che certe volte si chiama Husqvarna, li ho sentiti dire, che ha un regime di massima di dodicimila cinquecento giri al minuto, li ho sentiti precisare, una velocità di ventimila metri al secondo, li ho sentiti spiegare. La catena che ruotando ventimila volte per metro al secondo fa precipitare gli alberi. Alberi precipitati per la rotazione furibonda di una catena di ferro, diamantata a volte, li ho sentiti specificare.

La piccola-lei crollava inesorabilmente. Si stendeva sulle mie radici, le toccava, accarezzandole, gli parlava, gli raccontava certi sogni di tronchi elastici, neri, che passando tingevano tutto. Erano fusti senza midollo, senza durame, alburno, cambio, libro, senza corteccia, erano tronchi melliflui, corrotti, tronchi morti ma posseduti da una linfa momentanea, putrida, che aveva concesso al fusto di trascinarsi per le strade nei sogni della piccola-lei, imbrattando l’asfalto, i marciapiedi, i muri. Erano fusti di una marcescenza elastica, che ne aveva decapitato le fronde, i rami, tutto il cormo, erano cormofite morte, tracheofite senza respiro, animate da una linfa guasta, dalla saliva pestilente di un demonio che, supino sotto le loro radici, le aveva eiaculate di una resina oscura. Erano tronchi iniettati di un sangue perverso, delirante. Captivi diaboli, prigionieri del diavolo, erano fusti in cattività, fusti dal cattivo sangue, ammorbati di una pece nera del sottosuolo, bucato dagli angeli caduti per andare a nascondersi. Fusti mozzati, senza radici, senza rami, senza fronde, condotti disanimati, pompati dall’energia disidratata, languente di batteri letali che pure irrora il mondo. La piccola-lei si accasciava sulle mie radici fuori del colletto, abbracciandole, volendole sentire accanto, addosso, a consolarle il battito, a darle una misura di lentezza che non avveniva nel suo fusto, nel centro della sua zona generatrice, dove il suo strato lignoso ancora non si era formato, e perciò prevaleva soltanto lo strato libroso, che si rigenerava una primavera dopo l’altra. Mi raccontava i suoi sogni, la piccola-lei, di scappare, di volare, di precipitare, di trovarsi tinta le mani di una pece oscura, di sentire il corpo gonfiarsi, le dita farsi giganti; di presenze, di domande che non sapeva capire. Di una strada, sempre in salita, che all’inizio non era una strada davvero, ma tetti, migliaia di tetti, e la strada era un percorso teorico, puntiforme, cromodinamico di stringhe in vibrazione, in interazione da un tetto all’altro, e la piccola-lei percorreva la strada saltando, cadendo, spalancando a volte gli occhi nella notte per ritrovarla bagnata, lacrimosa, gnaulente. Poi la strada si faceva una strada davvero, appariva il grande-lui nella sua centoventisette azzurra, la piccola-lei e il grande-lui andavano sulla strada che intanto si era fatta inerpicata, stretta, calcinosa, sassosa e di montagna, che finiva in una grande roccia bucata, che non si poteva vedere al di là, che bisognava strisciarci dentro. La piccola-lei e il grande-lui restavano a guardare la grande roccia, immobili, abbassando lo sguardo davanti all’imperforabilità della montagna, entrambi ansimando, come se anche il grande-lui avesse passato la notte a saltare e precipitare da un tetto all’altro, a salire scale a pioli appoggiate al niente, galleggianti sulla portanza verticale di un mare di bosioni e fermioni e gravitoni della cromosfera parallela del sogno della piccola-lei.

Arrivano, li sento avvicinarsi, li vedo arrivare. La motosega nelle mani del grande-lui, un altro grande-lui gli viene dietro, corde arrotolate, posate sul suo braccio come un mazzo di rami di salice bianco, l’ascia corrusca, la tanica della miscela dall’odore più forte del sottobosco.

Io ho paura, ho paura. Io non voglio morire. Vengono a tagliarmi.

Guardami, grande-lui, sono vivo, sono vivo, guardami grande-lui, guardami, sentimi, metti una mano sulla mia corteccia, sulle mie radici, ti prego ascoltami grande-lui, ti prego, ti prego ascoltami. Piccola-lei vieni, vieni, corri, corri, salvami, piccola-lei, vieni, aiutami, non voglio morire, ho paura, piccola-lei aiutami, li vedo sotto le mie fronde, è autunno, smetterò a breve di crescere, che male posso fare? Le mie foglie, forse sono le mie foglie a forma di cuore? È per quelle? Che mi tagliate, mi volete tagliare. Perché cadendo ricoprono tutte le graminacee microterme che crescono in chiazze intorno al mio colletto, perché le mie radici fittonanti divellono le graminacee, impoverendole, e le fondamenta della grande-casa, anche quelle, scardinandole.

Fondamenta, ho sentito dire al grande-lui: è così che i grandi-loro chiamano le radici di una casa.

È per loro, che mi tagliate? Mi volete tagliare. Per le mie foglie a forma di cuore, per il sottosuolo condiviso, per le mie radici che s’espandono, irriflesse toccano le radici della grande-casa.

Aspettate, ascoltatemi, vi racconterò la leggenda di Filemone e Bauci, che accolsero Zeus ed Ermes che vagavano per la Frigia in sembianze umane, aspettate, ascoltatemi, Filemone e Bauci, non volete sapere? Di come diventarono un tiglio e una quercia, lo stesso fusto, le stesse radici.

Io ho paura, ho paura. Io non voglio morire. Vengono a tagliarmi.

Dove sei, piccola-lei, dove sei, corri, vieni a crollare su di me, sul mio sistema radicale che pompa linfa alle mie branche viventi, vieni a precipitare come un sasso lanciato dal mio ramo più alto, vieni a rotearmi intorno come la tempesta dei miei cuori decidui in autunno, vieni, piccola-lei, ti prego, vieni, aiutami, abbracciami, aggrappati al mio colletto, al mio fusto, al libro sotto la corteccia, penetra con la tua mano fino a quello, leggimi la paura, piccola-lei, leggimi la tortura della paura che sbrindella la cuffia radicale di ogni mia singola radice, che mi stordisce le cellule della columella, gli statoliti di amido accumulato che, tramortiti, inebetiti, non sanno più la gravità, l’orientamento geotropicamente positivo in cui per sedici anni sono stato, cresciuto. La tortura della paura, piccola-lei, nei tubi cribrosi, nelle cellule parenchimatiche, nelle fibre sotto il colletto, sotto, nelle radici, nella parte segreta profonda scavata su cui tu hai imparato a dire i tuoi sogni di resina nera, di strade calcinose, sassose, di montagne imperforabili, di tetti in interazione, di scale a pioli appoggiate al niente, di un mare di bosioni e fermioni e gravitoni della tua cromosfera parallela: su cui tu hai imparato a crollare. Vengono a tagliarmi, piccola-lei, non mi troverai più al tuo ritorno: non saprò se avrai bucato la roccia alla fine della strada in salita, dove resti immobile a guardare fuori dalla centoventisette azzurra del grande-lui. Striscia, piccola-lei, striscia! Entra nella roccia, vai a guardare, a vedere.

Mi vogliono tagliare, vengono a tagliarmi.

Sento il suono, il ringhio otturato dell’orso primitivo chiuso nell’antro di una caverna: l’orso primitivo che vuole uscire, che ha fame. Sento i dodicimilacinquecento giri al minuto della catena, i sette denti del pignone, i diciassette metri al secondo della sua velocità: sento il suono del mio primo apice, la prima gemma, il germoglio bagnato della più primitiva clorofilla, la linfa primaria, la quiescenza delle mie radici alla terra, ai funghi del sottosuolo, le endomicorrize, le ectomicorrize, le ectoendomicorrize dell’interazione simbiotica che lascia ai funghi il carbonio organico, a me i sali minerali che mi hanno fatto diventare il tiglio-grande davanti alla grande-casa della piccola-lei. Abbiamo sedici anni, sedici anelli, piccola-lei: sono tutti per te. Ne avrai tanti altri, all’ombra mancata delle mie fronde, nell’assenza caduta delle mie foglie cuoriformi, nella vuotezza dei miei fiori bratteati di giugno, nella fragilità frantumata dei miei endocarpi.

Lo strazio del taglio nella carne del tronco, lo strazio del taglio nella corteccia senza sangue, perché gli alberi noi non abbiamo il sangue, dicono, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia senza sangue, la corteccia non ha sangue cosa, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia l’epidermide senza sangue, lo strazio del taglio nella carne nell’epidermide, attraverso il parenchima corticale senza sangue lo strazio mi trasmigra, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale senza sangue, io sento lo strazio del taglio nella carne senza sangue lo sento trasmigrarmi, farmi altro da me, lo sento, il dolore recide la dimensione della materia, recide la percezione della materia concreta, recide il ciclo di differenziazione del sistema primario, secondario, meristematico, recide la percezione: reciso entro nel sogno, nella cromosfera parallela dove lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale senza sangue non potrà farmi più male, lo strazio del taglio nella carne senza sangue che pure gronda, senza sangue essa gronda la mia sofferenza, stilla lo scempio della mia carne la corteccia l’epidermide il parenchima corticale il libro il cambio senza sangue, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale nel libro, lo strazio del taglio che recide il cambio, recide la differenziazione primaria la secondaria i pensieri che avrei pensato, il silenzio che avrei pronunciato, le parole che avrei accolto, le risate che avrebbero titillato le mie foglie, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale nel libro nel cambio io lo urlo ai tetti interconnessi del sogno della piccola-lei, al percorso teorico, puntiforme, cromodinamico di stringhe in vibrazione del sogno della piccola-lei, lo urlo, lo strazio io lo urlo all’intonaco grosso della grande-casa della piccola-lei, lo urlo alla strada a pochi chilometri da me, ai pini marittimi, ai malli freschi, alle querce gozzute, alle podoliche con le corna che si attorcigliano, lo urlo lo piango alle poacee, le festucoidee, le panicodee, le eragrostidee stese intorno al mio colletto, impoverite dalle mie radici fittonanti, le graminacee  microterme ticchiolate sotto i migliaia di cuori miei decidui, alterni, glauchi sulla pagina inferiore, con pochi peli rossicci agli angoli della nervatura, i miei cuori ovati-cordati, asimmetrici, brillanti di verde ondulatorio, corpuscolare. Lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale nel libro nel cambio nell’alburno nel midollo senza sangue, io piango, io grondo la sofferenza della catena di ferro che rotea nella sua quantità di moto, nella scellerata sua potenza di lacerazione della mia carne senza sangue per farmi cadere, crollare, tracollare, la sofferenza lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale nel libro nel cambio nell’alburno nel midollo senza sangue, recisi i fasci collaterali aperti, io sanguino, io piango, io grondo, io urlo al cielo alle fronde alle gemme avventizie, alle gemme dormienti, ai germogli d’acqua, lo strazio del taglio nella mia carne senza sangue, io lo sanguino, acqua salata, linfa grezza, porfirina, magnesio, emoglobina senza ferro, io lo urlo, lo urlo al cielo alle fronde alle gemme avventizie, alle gemme dormienti, ai germogli d’acqua, lo strazio del taglio nella mia carne senza sangue, io lo sanguino, acqua salata, linfa grezza, porfirina, magnesio, emoglobina senza ferro, io lo urlo, lo urlo a te, piccola-lei, urlo il mio pianto, il mio pianto è senza sangue, il mio pianto è verde.


Mariana Branca è laureata in architettura a Napoli e ha vissuto a Parigi, Bruxelles, Lione, Torino, poi Londra, Roma, infine Lisbona, sempre svolgendo lavori diversi. Vive tra l’Irpinia e l’Emilia Romagna.

Non nella Enne non nella A ma nella Esse è il suo primo romanzo, finalista alla XXXIV edizione del premio Calvino, pubblicato da Wojtek edizioni nel 2022.

Nella gabbia e oltre: tre poesie di Michèle Métail

Introduzione e traduzioni dal francese a cura di Andrea Bricchi.

Michèle Métail, poeta francese nata a Parigi nel 1950, è un’autrice singolare e poco conosciuta persino in patria. Specialista di lingua e cultura tedesca, addottoratasi sulla poesia cinese, già dai primi anni settanta scrive poesie che si caratterizzano per una forte componente performativa e sperimentale. Proprio questa sua cifra la porta a entrare nell’OuLiPo, nel 1975, dopo aver catturato l’attenzione di uno dei due padri fondatori, François Le Lionnais, con un poema intitolato Compléments de nom.
Métail è fra i pochi membri femminili del gruppo, e introduce un numero consistente di contraintes (regole) in testi poi pubblicati nella collana de La Bibliothèque Oulipienne. Tra questi, costituiscono un caso interessante, anche per il loro effetto spesso umoristico, i suoi Portraits-Robots (cioè “Identikit”), ripubblicati di recente da les presses du réel. Si tratta di una serie di poesie i cui versi vincono la scommessa di delineare dei ritratti arcimboldeschi ponendosi una limitazione: impiegare solo espressioni ricavate dal lessico dell’ambito di cui fa parte il soggetto o il ruolo rappresentato. Il primo componimento che qui riportiamo, L’architecte, è solo un esempio di queste 102 prove di bravura lessicologica, che portano agli estremi le potenzialità della metafora, ricavando l’idea di base dall’attività meravigliosa – in senso barocco – e non priva d’ironia del celebre pittore milanese.
Se già poesie come queste pongono problemi non da poco al traduttore, poiché non sempre i termini di origine anatomica trapiantati nel lessico dell’architettura (per citare il caso specifico) trovano un esatto riscontro in italiano, le poesie-fotografie inserite in una particolare sezione di Toponyme-Berlin (Tarabuste, 2002) costituiscono una vera e propria sfida traduttiva. Ispirate alle misure del formato più comune delle fotografie (10×15), esse seguono con scrupolo la regola dei dieci versi da quindici lettere ciascuno (spazi e punteggiatura esclusi dal conteggio). Si intuisce allora come un certo “spirito oulipiano” sia rimasto una costante nell’attività dell’autrice anche dopo il suo volontario e cordiale allontanamento dal gruppo, avvenuto nel 1998. Tuttavia, sarebbe renderle un pessimo servizio ridurne l’opera all’abilità nell’uso delle contraintes; basti, come saggio della capacità impressionistica e della delicatezza di visione di Métail, la seconda poesia qui tradotta, che immortala una Berlino in procinto di scivolare sotto le coperte della notte.
L’ultimo testo è un estratto da Le cours du Danube, poema concepito come una ramificazione del più vasto Compléments de nom. Si tratta di una sequenza di complementi di specificazione, che scorrono proprio al pari d’un fiume, ritmati dall’introduzione – all’inizio d’ogni verso – di un nuovo sostantivo e dalla scomparsa dell’ultimo della serie. La risalita del Danubio è destinata ad arrivare alla Foresta Nera, certo, ma nel fluire delle parole Métail procede soprattutto a una straordinaria esplorazione del linguaggio e delle sue combinazioni, in un’opera che, nelle letture pubbliche che ne dà la scrittrice, suona magica e ossessiva come una litania.


da Portraits-robots (1987, 2019)

L’architect

TÊTE DE MUR
FIGURE D’UN BÂTIMENT
FACES DE L’ARCHITRAVE
FRONT D’UN MONUMENT
OEIL DE PONT
NEZ DE MARCHE
BOUCHE D’ÉGOÛT
MENTON À TRIPLE ÉTAGE
GORGE DE RACCORDEMENT
ÉPAULE DE BASTION
MAIN D’OEUVRE
CORPS DE LOGIS
TRONC DE COLONNE
COEUR DE LA VILLE
VEINE PORTE
JAMBE D’ENGOIGNURE
PIED DE L’ESCALIER

L’architetto

TESTA DI MATTONE
FACCIATA D’UN EDIFICIO
ARCHIVOLTO DI CATTEDRALE
FRONTONE D’UN MONUMENTO
OCCHIO DI BUE SULLA PORTA
PROFILO PER GRADINI
BOCCHETTA DI FOGNATURA
VOLTA A PADIGLIONE
COSTOLONE DI CUPOLA
FIANCO DI BASTIONE
MANO D’OPERA
CORPO DI FABBRICA
TRONCO DI COLONNA
CUORE DELLA CITTÀ
VENA PORTA
ASTRAGALO DI TEMPIO
PIEDISTALLO DEL FUSTO

da Toponyme, Berlin (2002)

écran soir et noir
le trajet fatigué
se signale sonore
riverain des rues
où la ville livrée
en photos banales
au virage, visages
s’effacent, mi-nuit
même des lumières
quand s’éteignent

13 décembre 2000 : retour en tram de Pankow

schermo sera nero
tragitti stanchi
rimbombano lungo
arenili di strade
e la città si offre
in scatti insulsi
alla svolta, volti
sbiaditi nel buio
poi la mezzanotte
soffoca ogni luce

13 dicembre 2000: ritorno in tram da Pankow

Da Le cours du Danube – en 2888 kilomètres/vers… l’infini (2018)

2883 la célébration de la quarantaine de l’annuité de l’anniversaire du poème de l’infini

2882 la cérémonie de la célébration de la quarantaine de l’annuité de l’anniversaire du poème

2881 la solennité de la cérémonie de la célébration de la quarantaine de l’annuité de l’anniversaire

2880 l’occasion de la solennité la cérémonie de la célébration de la quarantaine de l’annuité

2879 la voiture de l’occasion de la solennité la cérémonie de la célébration de la quarantaine

2878 le conducteur de la voiture de l’occasion de la solennité de la cérémonie de la célébration

2877 le permis du conducteur de la voiture de l’occasion de la solennité de la cérémonie

2876 la délivrance du permis du conducteur de la voiture de l’occasion de la solennité

2875 la préfecture de la délivrance du permis du conducteur de la voiture de l’occasion

2874 le chef-lieu de la préfécture de la délivrance du permis du conducteur de la voiture

2873 le canton du chef-lieu de la préfécture de la délivrance du permis du conducteur

2872 la confédération du canton du chef-lieu de la préfécture de la délivrance du permis

2883   la celebrazione del quarantennale dell’annualità dell’anniversario del poema dell’infinito

2882 la cerimonia della celebrazione del quarantennale dell’annualità dell’anniversario del poema

2881 la solennità della cerimonia della celebrazione del quarantennale dell’annualità dell’anniversario

2880 l’occasione della solennità della cerimonia della celebrazione del quarantennale dell’annualità

2879 l’automobile dell’occasione della solennità della cerimonia della celebrazione del quarantennale

2878 il conducente dell’automobile dell’occasione della solennità della cerimonia della celebrazione

2877 la patente del conducente dell’automobile dell’occasione della solennità della cerimonia

2876 il rilascio della patente del conducente dell’automobile dell’occasione della solennità

2875   la prefettura del rilascio della patente del conducente dell’automobile dell’occasione

2874   il capoluogo della prefettura del rilascio della patente del conducente dell’automobile

2873   il cantone del capoluogo della prefettura del rilascio della patente del conducente

2872   la confederazione del cantone del capoluogo della prefettura del rilascio della patente

Su “Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo” di Tommaso Di Dio

Nota di lettura a cura di Federico Di Mauro.

Per Anne Carson, la scrittura poetica è imparentata con una speciale forma di estasi che coincide con la completa liberazione dalla forma. È la decreazione, a cui la poetessa canadese dedica pagine memorabili in Decreation, uno dei suoi libri migliori: «To be a writer is to construct a big, loud, shiny centre of self from which the writing is given voice and any claim to be intent on annihilating this self while still continuing to write». Chi potrà negarlo? Scrivere significa disfare la propria esperienza e la propria identità, tendere – non ingenuamente: con disciplina, concentrazione – a uno stato di radiosa e benefica non conoscenza, che per Carson, autentica greca tra i moderni, è la capacità di amare. Un vero e proprio sacrificio, che dalle scorie dell’identità fa nascere una forma più pura di esistenza non più di donna o uomo ma di creatura capace di amare.

La «decreazione», questo processo di annullamento creatore implicito nell’atto poetico, è al centro della ricerca poetica di Tommaso Di Dio e del suo ultimo Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo, edito dalla casa editrice d’arte Scalpendi nella collana «Assemblaggi e sdoppiamenti», che ospita testi sperimentali che esplorano le possibilità connesse alla scrittura poetica delle immagini. In questo libro, il poeta milanese raccoglie testi editi e inediti concepiti lungo tutto l’arco della sua attività poetica, dall’inizio degli anni Duemila a oggi. Tra i suoi libri ricordiamo: Favole (Transeuropa 2009), Tua e di tutti (LietoColle 2014) e Verso le stelle glaciali (Interlinea 2020).

Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo (d’ora in poi NLAFNT) è un’opera significativa sul piano editoriale, perché recupera e antologizza testi dispersi e in certi casi ormai irreperibili –pubblicazioni “minori” in antologie, riviste o siti, oppure plaquette senza ISBN completamente fuori commercio, come ad esempio Alla fine delle favole (Origini Edizioni 2016).

Le poesie si articolano in nove sezioni – da qui le «nove lame» del titolo – ordinate cronologicamente e intervallate da riproduzioni di fotografie reali, tratte dall’archivio familiare dell’autore (a eccezione della fotografia d’apertura del grande maestro siciliano Ferdinando Scianna, che fa storia a sé).

Come avverte l’autore stesso nelle note finali, NLAFNT costituisce la seconda parte di un trittico in formazione, avviato con la pubblicazione di Verso le stelle glaciali. In effetti le linee di continuità sono moltissime, sia dal punto di vista tematico che formale: come per i più importanti poeti della sua generazione, per Di Dio è la forma del libro, e non il singolo componimento o la silloge, il terreno dove si misura la tenuta e la novità di un’opera. Come ha efficacemente sintetizzato l’autore in una nostra conversazione milanese: se Verso le stelle glaciali era un attraversamento dello spazio, questo libro è un attraversamento del tempo. Di Dio lavora sulla forma dell’antologia, scavando al proprio interno un percorso che va dal riconoscimento della necessità del distacco e della separazione dalle proprie esperienze passate alla ricerca di una dimensione umana corale – ci ritorneremo.

Un’indicazione fondamentale sulla forma del libro ci viene fornita dall’epigrafe montaliana (la poesia è tratta dal Carnevale di Gerti delle Occasioni (1933): «È Carnevale / o il Dicembre s’indugia ancora? Penso / che se tu muovi la lancetta al piccolo / orologio che rechi al polso, tutto / arretrerà dentro un disfatto prisma». Un disfatto prisma è proprio il libro che abbiamo davanti: un libro solido, tagliato dentro una dura materia cristallina, ma eterogeneo, vario e sfaccettato – e soprattutto disfatto, sottratto a se stesso, come precipitato dentro la propria assenza.

Raccogliendo esperienze poetiche sparse negli anni, NLAFNT affronta un grande numero di temi connessi alla vita dell’autore. Le prime raccolte appaiono dominate dal tema dell’amore, inteso come forza inquietante e disgregatrice, che produce allontanamento, solitudine e reclusione dell’essere nella sua identità, come in questo testo anonimo risalente al periodo di Favole:

Fare l’amore fino a fare i figli. Addentrarsi
nella genuflessione. Dire prendo questo corpo
senza limiti; a furia di reni sfondare
il fondo cupo dei preservativi. La neve poi
che immerge ogni cosa. Palazzi, strade, ogni volto
oltre i fiumi immemorabili della storia.
oggi volevo fare l’amore con te. Oggi volevo
sbranare la paura di essere solo due
corpi finiti.

Questa dimensione maggiormente intimista delle prime raccolte, in cui è esibita una chiara traccia della poesia di Mario Benedetti, si apre nelle opere successive verso una più narrativa, che si distacca con maggiore coerenza dal registro della lirica. Nelle poesie più belle di questa stagione, l’autore riesce a bilanciare con grande abilità il resoconto vividissimo della propria esperienza e una dimensione collettiva, corale, fatta di un intreccio di voci e di storie. È il caso, ad esempio, della quarta sezione «Per il lavoro del principio», che racconta un soggiorno di due settimane nel reparto di neonatologia dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna.

Il narratore di queste poesie si aggira tra le stanze del reparto osservando con occhio partecipe e allo stesso tempo straniato l’atto della nascita. Nessun individuo nasce nel vuoto della creazione; venendo al mondo, ognuno di noi eredita frammenti di tempo che provengono da vite passate, vite che non sono la nostra, e che pure in qualche modo ci costituiscono. In modo indiretto, allusivo, viene dunque istituito un nesso tra la scrittura autobiografica e la rinascita: in entrambi i casi, chi scrive abbandona il proprio tempo, risale verso la matrice, verso l’origine “preindividuale” delle nostre vite – in quanto individui, ma anche in quanto specie.

Tu che sei nato
adesso. Tu che sei
nato prima del tempo, prima
del compimento biologico totale.
tu non sei solo. Sei già stato
accolto e protetto
deposto in teche, scaldato amato curato
affinché tutto di te
possa crescere bene.
Quando sarai grande, non dimenticare
questo campo intermedio, spazio
fra i mondi, ventre più grande
dove hai incontrato cento madri
e cento padri: braccia
ti hanno già amato anonime
perché tu possa un giorno
dirti vivo.

Il movimento verso una dimensione in qualche modo “preindividuale” dell’umano è il lavoro di una decostruzione, di una cancellazione progressiva dell’identità: questo scambiarsi di presenza e assenza, così come di nascita e morte, è pervasivo e innerva e dà sostegno a tutta l’opera. Il raggiungimento della pienezza, diremmo, passa attraverso un’opera di disfacimento che conduce a un gioioso spossessamento di sé. Un disfatto prisma potrebbe dunque riferirsi anche al risultato del lavoro che Di Dio ha operato sul suo stesso Io poetico. Un lavoro, per usare un termine che abbiamo imparato, di decreazione. I momenti più belli della raccolta sono forse quelli in cui emerge in modo più diretto questa estatica fuoriuscita dal sé, dalla propria finitudine di soggetto, sulla scena di un mondo illimitato e privo di determinazioni, abitato unicamente dalla meraviglia delle forme in continua metamorfosi nel tempo:

«[…] Io sono il niente
dove sbarca la catena dei giorni
dove si svuota e si riempie
questo che ci scanala e ci devasta eppure vedi vive
si slancia» (p. 161)

«Se chiudo gli occhi, adesso sento
ognuno di noi
racchiuso in questa immagine» (p. 209)

«Perché questo è anche
ciò che siamo. Fin dal principio frutto
spartito nel lavoro di molti
nella luce e nell’aria scacciato
e costretto
nel reame d’amore plurale» (p. 82)

Nel finimondo. Su “Il duca” di Matteo Melchiorre

Nota di lettura a cura di Antonio Galetta.

Il Duca di Matteo Melchiorre (Einaudi 2022, 464 pp., 21 €) è ambientato perlopiù nel 2018 in un piccolissimo e fittizio paese di montagna, Vallorgàna, probabilmente tra Veneto e Trentino Alto-Adige. Il protagonista è un uomo né giovane né vecchio – il duca, appunto; anche se in realtà si tratterebbe di un conte – che a poco a poco capisce di non potersi sottrarre a un confronto definitivo con se stesso, cioè con la propria storia e i propri luoghi, i quali deve decidere se accettare o rifiutare una volta per tutte.

Quest’uomo senza nome è l’ultimo discendente della quasi millenaria famiglia dei Cimamonte, signori feudali di Vallorgàna. Dopo una giovinezza trascorsa altrove, sempre nell’agio economico e dedicandosi a studi paleografici e filologici, il duca si trasferisce nella villa dei propri antenati: una scelta radicale, a cui però non fa seguito una vera integrazione nella comunità del paese. Il duca è solo, privo di grandi occupazioni, e quasi non fa altro che passeggiare per i boschi e chiacchierare con gli operai che lo aiutano ad amministrare i suoi possedimenti rurali.

Questo, almeno, finché non litiga con un allevatore – Mario Fastréda, ottant’anni passati – per una questione di confini di proprietà: il duca non vuole cedere quel che è suo, l’allevatore ha bisogno di tre ettari in più per ottenere delle sovvenzioni statali con cui costruire una strada per l’alpeggio delle vacche. A questo scontro di interessi in fondo meschini, da una parte e dall’altra si sovrappongono motivazioni più complesse, tali da delineare, pian piano, due figure diversissime, eppure accomunate da una certa tragicità: tanto il duca sviluppa un rapporto ambivalente con la storia dei propri antenati, tanto Fastréda si mostra geloso dell’ascendente che è riuscito a guadagnarsi sugli altri abitanti del paese.

Il Duca ha molti tratti del romanzo realistico tradizionale: narratore omodiegetico in prima persona, racconto retrospettivo, registro medio-alto, colpi di scena preparati dal sedimentarsi di motivi riconoscibili, nette opposizioni e sostanziale continuità di tempo, luogo e vicenda. Eppure io credo che si tratti di un romanzo innovativo.

Nel Duca, per cominciare, ha luogo uno scontro preciso e solo in apparenza anacronistico: quello tra borghesia e nobiltà, rappresentate rispettivamente da Fastréda e dal duca, il cui sapore arcaico è pienamente riscattato da una disposizione inconsueta delle forze in campo. Per quanto sia un privilegiato e agisca mosso da velleità piuttosto puerili, infatti, il duca è qui il personaggio positivo, quello che subisce un torto, quello con cui – anche senza poter aderire ai deliri che lo portano sull’orlo di teorie razziste e classiste – si è portati a identificarsi. Ne deriva, per il lettore, un costante senso di straniamento, e per l’autore la possibilità di inscrivere nell’intreccio stesso una critica sociopolitica rivolta alla tendenza a non riconoscere limiti di sorta all’agire umano. Nel nobile decaduto privo di preoccupazioni materiali, mi sembra che Melchiorre abbia trovato un punto di vista alternativo rispetto alla borghesia ma interno alla nostra società, dal quale – pur senza salire su un piedistallo – gli è stato possibile mettere in discussione l’ansia di guadagno, la virtù imprenditoriale, l’idea che il paesaggio sia una merce da comprare, valorizzare, ridisegnare, liquidare. Non è un caso, in questo senso, che il duca si trovi spesso a conversare col tagliaboschi sessantenne Nelso Tabióna, montanaro testardo e intransigente, il quale a propria volta appare del tutto organico alla società attuale, eppure – grazie alla sua lunga familiarità con campi di forze non del tutto governabili, quali in questo romanzo sono il bosco e la montagna – estraneo alle leggi monologiche del profitto, dell’interesse e dell’espansione commerciale. È proprio Nelso a mettere le cose in chiaro: «Fastréda e quelli come lui», il tagliaboschi dice al duca, «hanno vissuto gli anni in cui il mondo andava avanti. Ogni giorno una conquista, ogni giorno più su di uno scalino. Perciò, a Fastréda e a quelli come lui, anche adesso che il mondo va indietro, è rimasta nello stomaco quella fame lì: quella fame di conquistare» (p. 312).

Ora, per quanto l’attuale situazione climatica renda necessarie e urgenti critiche di questa famiglia, è ad oggi piuttosto difficile trovarne qualcuna che sia declinata con i mezzi adoperati da Melchiorre – cioè coi mezzi del romanzo tradizionale, scevro di sperimentalismi vistosi nella lingua o nelle invenzioni e anzi ben disposto, in favore della leggibilità, a maneggiare motivi e svolte di trama prossime al cliché. Nel Duca il motivo anti-antropocentrico e anticapitalistico risulta giocato più sulla contraddizione che sull’assertività, più sulla rappresentazione complessa di identità conflittuali che sulla più o meno eroica presa di posizione individuale: nessun personaggio ha ragione fino in fondo e il vero protagonista è la società coi suoi conflitti, le sue disuguaglianze, la crisi dei suoi strumenti interpretativi e il suo essere parte infinitesima di una realtà più grande e irriducibile all’umano; e questo lo rende a mio giudizio un romanzo innovativo, di cui fare tesoro e dal quale imparare.

Ma l’aspetto forse più notevole di questo romanzo è la rappresentazione delle forze naturali: quest’ultime, con una centralità piuttosto rara nel romanzo moderno, svolgono un ruolo compiutamente e propriamente drammatico, intervenendo nel momento di maggiore tensione e reindirizzando la trama verso direzioni inaspettate. Nel Duca accade né più né meno ciò che è accaduto nella realtà: arriva imprevista la tempesta Vaia (ottobre-novembre 2018), che sfigura il paesaggio e lascia spaesati gli esseri umani. E il narratore non può che registrare quel che succede:

Iniziò un finimondo. Il vento sfuriava come mai prima di allora l’avevo sentito sfuriare. Ululava. Muggiva. Trascinava con sé il latrato di mille latrati […]

Vidi che insieme al vento c’era l’acqua. E quest’acqua, nell’alone di luce del lampioncino della corte, non cadeva affatto dall’alto al basso ma correva a mezz’aria, quasi parallela al suolo, via dritta in quel vento. […]

Attendere con fiducia, mi dissi […] le buriane fanno così. Pochi minuti di frastuono e se ne vanno. […]

E il vento peggiorò ancora, ed era da non credere come potesse peggiorare dal peggio. Avevo caldo. Sudavo. […] Conobbi, quella sera, ciò che significhi l’impotenza. (pp. 367-370)

Qui uno schema interpretativo consueto («le buriane fanno così») non fa più presa e, dileguandosi, consegna all’osservatore una cognizione più esatta della propria impotenza. Due cose vanno sottolineate. La prima è che questo «finimondo» invade il romanzo come un corpo estraneo, o comunque del tutto inatteso: la sua descrizione e i suoi strascichi, i quali occupano in tutto una trentina di pagine, arrivano nel momento di maggiore tensione della vicenda, quando una rivelazione radicale sul rapporto che lega il duca a Fastréda è stata annunciata da un po’ e si appresta infine a essere condivisa. La vicenda umana viene dunque interrotta, rimandata a più tardi e con ciò stesso ridimensionata, senza per questo perdere ogni importanza, solo passando, se non in secondo piano, certamente da una condizione di urgenza assoluta a una di urgenza relativa.

Il secondo aspetto da sottolineare riguarda proprio il carattere eccezionale, eppure reale, empirico, della tempesta raccontata. Nella storia del romanzo non sono molti i testi che inglobano organicamente simili cataclismi, vuoi perché la crisi dell’antropocentrismo è un fatto relativamente recente, vuoi per il gusto per trame e personaggi ordinari che si è andato affermando tra XIX e XX secolo. Ma i tempi sono cambiati, gli eventi climatici eccezionali sono sempre più frequenti e da più parti, negli ultimi anni, è stata evidenziata la necessità di rivedere questi e altri paradigmi (vedi Carla Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi 2021, e Antonio Moresco, Il grido, Sem 2018). Lo spiega benissimo lo scrittore indiano Amitav Ghosh, il quale nella Grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile (Neri Pozza 2017) riferisce di non essere mai riuscito a raccontare in un suo romanzo di quando, nel 1978, si era trovato nell’occhio di un tornado apparso improvvisamente a Dheli nord, salvandosi per pura casualità e testimoniando il finimondo da molto vicino. Ghosh afferma che la difficoltà nel narrare questa vicenda proviene da un’incompatibilità di fondo tra la sua esperienza e l’arte del romanzo così come si è andata configurando nella modernità:

Nei miei libri ricorrono tempeste, inondazioni ed eventi climatici insoliti […] Perché dunque non riuscivo, a dispetto delle mie migliori intenzioni, a spedire un personaggio giù per una strada che sta per essere investita da un tornado?

Riflettendoci, mi trovo a domandarmi quale sarebbe la mia reazione di fronte a una simile scena se la trovassi nel romanzo scritto da un altro. Sospetto che sarebbe di incredulità, che sarei portato a considerarla una trovata di bassa lega. Penserei che solo uno scrittore di ormai scarse risorse immaginative ripiegherebbe su una situazione tanto improbabile.

Insomma, l’invenzione di una lingua e di dispositivi drammatici per raccontare simili eventi metereologici sembra essere una delle frontiere del romanzo attuale. Ed è per questo, soprattutto, che mi sembra che Melchiorre sia stato all’altezza di raccontare il nostro presente, pur muovendo da contesti geografici marginali (i paesi di montagna) e concentrandosi su personaggi tutt’altro che medi (il nobile appassionato di filologia). Anzi, forse proprio la scelta di un palcoscenico così piccolo e di protagonisti dai quali, sia pure indirettamente, dipende il destino di un minuscolo gruppo sociale, ha permesso all’autore di coniugare il racconto realistico tradizionale col racconto dell’impensabile. Non è che Melchiorre «torna astutamente al romance», come ha scritto Danilo Bonora su «L’indice dei libri del mese» (settembre 2022); è che il nostro tempo, in qualche modo, rende dirompente la condizione di un nobile decaduto e suscita romanzi con al centro, inaspettata, una tempesta mai vista prima.

Dopo aver letto Il Duca ho preso in prestito in biblioteca il primo libro di Melchiorre, Requiem per un albero. Resoconto dal Nord Est (Spartaco 2004), pubblicato quando l’autore aveva ventitré anni, ben prima di intraprendere la carriera di ricercatore universitario in storia medievale e moderna e di bibliotecario. È un libretto prezioso, cronachistico e digressivo, tutto incentrato su un gigantesco olmo che c’era fino a vent’anni fa a Tomo, frazione di Feltre, in provincia di Belluno. Veniva chiamato l’Alberón ed era un punto di riferimento geografico e sentimentale per gli abitanti del paese.

Anche quell’albero, ho scoperto con sorpresa, è stato sradicato dal vento.

La prigione del significato: quattro poesie di Molly Brodak

Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Marta Olivi.

L’esordio poetico nel 2010, a trent’anni, e una seconda collezione nel 2020, l’anno della sua prematura scomparsa. Nel frattempo, chapbooks di poesia, insegnamento universitario, e tutta la vita raccontata nel memoir del 2016, Bandit, in cui Molly Brodak sceglie di raccontare il rapporto con il padre, un rapinatore di banche più volte arrestato. Ma è un escamotage per parlare di sé, per delineare in controluce un’identità che non sarebbe stata altrettanto osservabile direttamente. Un io narrante che fatica a narrarsi, un sé fortissimo ma liquido, mutevole, perché basato sull’assunto che un io obiettivo non esista. Specie per chi scrive.

Molly Brodak inizia il suo memoir con due pagine in cui racconta i fatti della vita di Joe Brodak: la dipendenza dal gioco, i debiti, le rapine, gli arresti. In due pagine, la realtà viene liquidata. Tutto quello che viene dopo, ci avverte, è narrazione: comprese le vite dipanatesi attorno a questa figura, e i traumi che hanno subìto a causa sua. Come Brodak ammette, la scelta del memoir, della nonfiction, punta a distaccarsi dalla facilità della fiction, dai suoi “rounded, finite arcs, tidy rise and fall, buttressing values, their little lessons, like solved equations”, ma allo stesso tempo non prova a perseguire un’esattezza fattuale che, semplicemente, non esiste. La soluzione, dunque, una realtà vera perché dichiaratamente soggettiva, è ciò che Brodak trova da adolescente nella forma poetica, quella che non abbandonerà mai più e che “it seemed to know a better way to the world – an approach more honest, more direct, sharper”.

Eppure, se sembra impossibile raccontare una vita in modo “onesto e diretto”, specie il dolore che la caratterizza, è proprio sul trauma che si incentra la ricerca letteraria di Brodak. Forse proprio in nome della sua capacità di influenzare la percezione di sé e degli altri. Nel 2010, nell’esordio A little middle of the night, Brodak parte dal trauma fisico di un corpo malato, descrivendo la sua esperienza di ricovero in ospedale a seguito di un’operazione al cervello. Poesie in cui la realtà si mescola alle visioni indotte dalla malattia e dai farmaci, in cui l’esperienza del coma traccia una linea netta tra la propria percezione e quella altrui, con la poesia come unico mezzo per cercare di comunicare tra prospettive inconciliabili.

Ma la risposta, o perlomeno un tentativo, arriverà solo in The Cipher, nel 2020, in cui si affronta compiutamente il trauma della fuga dall’Olocausto che hanno affrontato entrambi i suoi genitori, la madre dalla Russia e il padre dalla Polonia. Un trauma generazionale che diventa proprio; la perdita del nonno, morto a Dachau, che diventa la perdita della figura paterna; una coazione a ripetere che perpetua il trauma dell’assenza. Il dolore ci pone in un limbo tra passato inalienabile e futuro inconoscibile, descritto come “the awful future: half magnetic, half chiaroscuro”, che ci tira a sé pur nascondendosi da noi. Intrappolati tra il passato che il destino ci ha dato e ciò che con la nostra volontà decidiamo di farci, diventa impossibile stabilire veri nessi causali, capire chi siamo e cosa ci ha reso tali. Ed è di nuovo la poesia ad essere proposta come unico modo per arrivare alla realtà del proprio io. Se ogni scrittura è metafora di una realtà inconoscibile, “one x that did not equal x”, come viene detto nella poesia che apre The Cipher, allora la poesia è il mezzo che più di ogni altro sa seguire esattamente il processo non lineare che caratterizza la coscienza:

I listened to some invisible bird

rattling off the facts of consciousness.
He used that exact word,
cipher.

La poesia diventa così l’unico modo per affrontare una realtà che sembra una prigione, in cui l’unica reazione sensata è “Panic, because suddenly everything signifies”, ma in cui l’accesso al vero senso sembra sempre interdetto, sempre un passo più in là rispetto a noi.

In the cipher, where
we live, there is only personality.
What is outside of the cipher, where we’re headed?

Due scelte, di fronte a questa impossibilità conoscitiva. Perpetuare l’illusione del simbolo grazie al mezzo poetico. O abbandonare il gioco, dirigersi “outside the cipher”, fuori dalla prigione della propria personalità, verso quella morte che viene così spesso accennata in The CipherPosare la penna, scegliere la pace dell’assenza definitiva di ogni significato.


Da the cipher (2020)

Bells

Nothing special, a home,

a plot of empty space,

with a calendar on the wall. Each day ahead
is lake black. Bells, still.

God popped like a balloon
when I looked directly.

Songs just clank the fetters.
I remember ergo sum.

I never needed to dig graves.
Everyone, a terminal,

a terminal of photons,
irritating rackets,
generosity, gently extinguishing
fire,
which is nothing special.

All of them.
The people ran for the boats.

I stayed to ring the bell. I’ve forgotten
their faces but I remember their white aprons with eyelets,
leather hoods with spark burns, small shoes, the sound of them
all typing at once, their little worn dice, worn to beads.
Blue and pink charms, cassocks, gold chains they shared.
They dragged mom’s body and dad’s body as far as they could on the beach.
They scattered into a shoreless sea.
And you want to be happy.

Campane

Una casa, niente di speciale,

un terreno, uno spazio vuoto,

con un calendario sul muro. Ogni giorno a venire
è nero come un lago. Eppure, le campane.

Dio è scoppiato come un palloncino
non appena l’ho guardato.

Le canzoni scuotono le catene, nient’altro.
Mi ricordo ergo sum.

Non ho mai avuto bisogno di scavare tombe.
Ogni persona, un capolinea,

un capolinea di fotoni,
un baccano fastidioso,
generosità, un fuoco che si spegne
piano,
niente di speciale.

Tutti loro.
La gente corre verso le barche.

Io sono rimasta per suonare la campana. Ho dimenticato
le loro facce ma ricordo i loro grembiuli bianchi orlati di pizzo,
cappucci di pelle bruciacchiati, scarpe piccole, il suono
di tutti loro che scrivono a macchina contemporaneamente,
i loro piccoli dadi consumati, tanto da sembrare perline.
Ciondoli rosa e blu, abiti talari, catene d’oro condivise.
Hanno trascinato i corpi di mamma e di papà sulla spiaggia più lontano che potevano.
Sparsi in un mare senza riva.
E tu vorresti essere felice.

bee in jar

You cannot help knowing, said Tolstoy.
The world is a distance to go.
Remember, once you were good for nothing
and you didn’t know it.

Cedar branches live a little while on the fire.
Some young swallows
cover some sea then
turn back on their first migration.

Only matter can
be transformed.
Transformed into matter.
Things that are not matter
cannot be transformed.

The key is cut by the lock.
You will code then decode your mind.
You will save yourself.
You cannot help it.

l’ape nel barattolo

Non si può fare a meno di sapere, diceva Tolstoj.
Il mondo è una distanza da percorrere.
Ricordati, una volta eri un buono a nulla
e non lo sapevi.

I rami di cedro vivono ancora per un po’ mentre bruciano.
Alcune giovani rondini
percorrono un po’ di mare poi
tornano indietro durante la loro prima migrazione.

Solo la materia può
essere trasformata.
Trasformata in materia.
Le cose che non sono materia

non possono essere trasformate.

La chiave assume la forma del lucchetto.Programmerai e decifrerai la tua mente.
Ti salverai.
Non puoi farne a meno.

in the morning, before anything bad happens

The sky is open
all the way.

Workers upright on the line
like spokes.

I know there is a river somewhere,
lit, fragrant, golden mist, all that,

whose irrepressible birds
can’t believe their luck this morning
and every morning.

I let them riot
in my mind a few minutes more
before the news comes.

di mattina, prima che accada qualcosa di brutto

Il cielo è aperto
da parte a parte.

Operai dritti sulla linea
come raggi.

So che da qualche parte c’è un fiume,
illuminato, fragrante, nebbia dorata, tutto quanto,

con i suoi uccelli irrefrenabili
che stamattina non riescono a credere ai loro occhi
come ogni mattina.

Li lascio sfogarsi
nella mia mente qualche minuto ancora
prima che la notizia arrivi.

come and see

The far away
asphalt lot
covered over in fog
& lit raw gold by
one lamppost
against night.
The terminal
helplessness
of one creature
without its others.

I saw the owl’s wings
but no owl.
The slow-mo mushrooms.
I taught my hands to work
to keep them away
from each other. Rasp,
awl, the block plane, the spirit
level. The needle
one holds, which sharpens
which? Still, I was separate.
Still they
were where
the song came from.

The light from our closest star
is not starlight, it being
just one.
I saw Michigan, sunk home, from space
in a moment, and I hadn’t cried
until just then, in the dark
kitchen, no hands
to close over my face.

vieni a vedere

Il parcheggio d’asfalto
così lontano
ricoperto di nebbia
e illuminato d’oro crudo da
un lampione
contro la notte.
La fragilità
terminale
di una creatura
senza i suoi altri.

Ho visto le ali del gufo
ma nessun gufo.
I funghi al rallentatore.
Ho insegnato alle mie mani a lavorare
per tenerle staccate
l’una dall’altra. Lima,
punteruolo, pialla, la livella
in bolla. L’ago
che si tiene in mano, che affila
cosa? Eppure, ero separata.
Eppure era
da lì che
veniva la canzone.

La luce dalla stella più vicina a noinon è luce di stelle, perché è
soltanto una.
Ho visto il Michigan, sono sprofondata a casa, dallo spazio,
in un istante, e non avevo pianto
fino a quel momento, nella cucina
buia, senza mani
in cui nascondere il volto.

Molly Brodak, The Cipher (2020, Pleiades Press)